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Il romance come dramma ibrido, aperto e sospeso

Quando si affrontano, da un punto di vista storico-critico, le grandi drammaturgie, come ad esempio quella greca del V secolo a. C., spesso si tende a cercare di sviluppare una visione coerente e ‘teleologica’, di intercettarne l’evoluzione attraverso delle scansioni che sono, però, a ben guardare, estremamente convenzionali e astratte: per quanto riguarda il teatro della classicità, l’entusiasmo nell’impresa di scovare una tendenza generale nella progressione dia- cronica si smorza, per forza di cose, di fronte all’evidenza dei limiti imposti da una tradizione lacunosa e intermittente. Per quanto riguarda l’altra grande drammaturgia d’Occidente, quella shakespeariana, le cui condizioni filologiche sono certamente differenti, la segmentazione a fasi risponde a flessioni senza dubbio ‘fisiologiche’ dell’estro drammatico: il primo Shake- speare è naturalmente differente nelle urgenze rispetto all’ultimo Shakespeare. Nell’applicare l’etichetta della lateness ai romances shakespeariani sarebbe opportuno, però, ripensare e, in

Barbara Mowat, The Dramaturgy of Shakespeare’s Romances, op. cit., p. 3.

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Ibidem, p. 3.

certa misura, ridimensionare fortemente il criterio biografico ‘interno’ a favore di quello con- tingente ‘esterno’ e, ugualmente, cercare di intrecciare dato materiale e dato immaginativo. Un evento che segna, se non la cesura tra Shakespeare maturo e tragico e l’ultimo Shakespea- re ‘romanzesco’, un mutamento comunque significativo, è l’effettivo utilizzo, a partire dal 1608, da parte della sua compagnia, del teatro del Blackfriars, situato nel pieno di centro di Londra, vicinissimo alla cattedrale di Saint Paul. Il Blackfriars era una playhouse privata e al chiuso che permetteva ai King’s Men di mettere in scena il proprio repertorio anche in inverno quando il Globe, teatro pubblico e all’aperto, diveniva inutilizzabile. L’evento acquisì un ca- rattere determinante nella selezione dell’audience: i biglietti d’ingresso del Blackfriars costa- vano cinque volte tanto il prezzo di quelli del Globe ed erano, quindi, proibitivi per le frange sociali meno abbienti. La capienza della sala era, inoltre, ridotta a un massimo di seicento po- sti: il pubblico risultava ‘selezionato’ sia per ragioni di natura economica sia per fattori spa- ziali, per una restrizione imposta. Questo dato è interessante non tanto perché ci permette di spiegare perché i romances presentino elementi di sofisticazione formale e possano apparire, nelle meccaniche interne, più farraginosi delle altre opere shakespeariane, quanto piuttosto perché abbiano una natura così meticcia. Il Pericles è un dramma dalla fortuna non lusinghie- ra anche a causa di una sua indecisione strutturale: al di là della questione filologica e dell’in- stabilità testuale, di cui si renderà conto nel prossimo capitolo, l’ibridismo risiede in una certa ‘esuberanza diegetica’ e in un rapporto di serrata alternanza di dispositivi narrativi e mostrati- vi. Nel Pericles, infatti, la mediazione narrativa scandisce la messa in scena, e lo stesso si può dire del Cymbeline. Nel The Winter’s Tale l’ibridismo si rileva nello strappo brutale tra trage- dia e commedia pastorale che rende l’opera dicotomica. In tutte queste vi è, in ogni caso, una patina arcaizzante che sigilla una più sotterranea tendenza all’aggiornamento drammaturgico e una sostanziale contaminazione tra moventi mimetici e diegetici . Russ McDonald parla 93

anche di «unusual mixture of elements, the modish and the outmoded» e di «complex tone,

The Tempest rappresenta tra i romances un’eccezione ed è, delle quattro opere, la più compatta e simmetrica a

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with its combination of artlessness and sophistication» . La commistione di generi non deve 94

essere associata a una pratica teatrale deteriore, ma solo dirci che, probabilmente, questi drammi vennero concepiti come rivolti simultaneamente a target di pubblico diversi e, non a caso, a questo proposito, vi è concordia nel ritenere, su base testimoniale, che i romances vennero rappresentati in entrambi i contesti, quello del Globe e quello del Blackfriars. L’au-

dience del Blackfriars, proveniente dalle élite, ricercava una gratificazione più cerebrale e

‘audace’ dal punto di vista delle avanguardie teatrali; l’audience del Globe, invece, era più tradizionalista e a suo agio con modalità teatrali popolari e prevedibili. Il repertorio, dunque, non cambia, ma i fruitori e gli standard sì: il Globe rappresentava un contesto più popolare e caotico; il Blackfriars uno più selezionato e raccolto . La lateness shakespeariana è, dunque, 95

in quest’ottica, ‘romanzesca’, perché il romance è genere-non genere duttile per definizione, trasformista e perfettamente adattabile ai più vari contesti: permette al drammaturgo di speri- mentare e ‘spingere’ sulle possibilità dei linguaggi e delle tecniche sceniche ma, nel contem- po, in quanto imparentato con la narrativa popolare già in voga da parecchi decenni, ne scon- giura l’impermeabilità ai gusti del pubblico. L’ibridismo della lateness shakespeariana riflette, in sintesi, uno sdoppiamento dei circuiti di fruizione per uno stesso dramma: Shakespeare s’interessa al filone ‘romanzesco’ anche perché questo gli consente una biforcazione dell’in- terlocuzione senza che ciò implichi che i romances siano espressione di una drammaturgia

«It is worth considering that the conventional, simplified accounts of the tastes of these two groups might be

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accurate, that the Blackfriars audience, particularly those members of the literary and social elites, preferred a more sophisticated and aggressively “modern” style of drama, whereas the Globe patrons enjoyed a simpler, pe- rhaps old-fashioned, more generally “popular” kind of play. Since most of the plays discussed herein were per- formed at both the Globe and Blackfriars, it is possible that the divergent tastes of this double audience are partly responsible for their unusual mixture of elements, the modish and the outmoded, and particularly the complex tone, with its combination of artlessness and sophistication», da p. 170 dell’articolo “Fashion: Shakespeare and Beaumont and Fletcher”, in Richard Dutton, Jean E. Howard (a cura di), A Companion to Shakespeare’s Works,

Volume IV: The Poems, Problem Comedies, Late Plays, Oxford, Blackwell Publishing, 2003. Si legga tutto il

contributo alle pp. 150-174.

Lo studio più prezioso, impeccabilmente documentato e attento alla ricostruzione al dettaglio della vita mate

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riale della Londra elisabettiana, giacomiana e carolina, nel particolare segmento dell’allestimento e della frequen- tazione di spettacoli, è quello di Andrew Gurr: The Shakespearean Stage 1574-1564, Cambridge, Cambridge University Press, 1992. Su composizione e comportamenti del pubblico a teatro, si vedano in particolare le pp. 258-282. Uno studio, più puntualmente focalizzato sulla stagione dei romances, è quello di Roger Warren, Sta-

ging Shakespeare’s Late Plays, New York, Oxford University Press, 1990, e, più recentemente, quello di Christo-

pher Cobb, The Staging of Romance in Late Shakespeare: Text and Theatrical Technique, Newark, University of Delaware Press, 2007. Si veda, inoltre, anche il saggio di Mariko Ichikawa, The Shakespearean Stage Space, New York, Cambridge University Press, 2013.

dalla ‘maniera’ più aristocratica rispetto alla precedente. È, infatti, assioma assai discutibile quello che identifica il benessere economico con la levatura del gusto estetico. La coesistenza di due tipologie differenti di pubblico offre, tuttavia, all’uomo di teatro lo stimolo di dover provvedere a una richiesta ‘ecumenica’ di appagamento: ciascuna opera si pensa come poten- zialmente rivolta tanto agli spettatori che si credono di rango, quanto a quelli privi di velleità intellettuali. Risulta interessante, a tal proposito, proporre la considerazione di Frye, secondo cui i romances «are popolar plays, not popular in the sense of giving the public what it wants, which is a pretty silly phrase anyway, but popular in the sense of coming down to the audien- ce response at its most fundamental level» . 96

Vi sono, però, almeno altri due aspetti da considerare: il primo riguarda la fortuna della tragicommedia sull’onda del successo di Guarini, agli inizi del Seicento; il secondo l’adesione (o meno) di questi drammi all’ideologia del nuovo re Stuart, il loro allineamento, o eventuale disallineamento, rispetto al regime monarchico. La tragicommedia è un genere importato dal- l’Italia (il modello è rappresentato dal Pastor Fido di Guarini) che sfida le convenzioni del teatro classico – anche se il teatro classico di fatto conosceva già la tragicommedia, basti pen- sare ai drammi di Euripide – e mescola elementi tragici ed elementi comici, facendo prevalere questi ultimi sui primi e, pertanto, inclinando per una risoluzione distensiva e conciliatoria di un movente tragico iniziale. La tragicommedia, teorizzata da Guarini nel 1601, ebbe una no- tevole ricezione anche nel contesto inglese, pur essendo talvolta disprezzata proprio per la sua natura meticcia: Sidney, ad esempio, la definiva «mongrel» . È, inevitabile, dunque, interro97 -

garsi sul rapporto di familiarità che il romance intrattiene con il genere tragicomico, rispetto al quale resta cosa altra ma con cui, tuttavia, condivide numerosi tratti . I drammi romanze98 -

schi non sono tragicommedie tout court, né possono considerarsi esattamente variazioni di tragicommedie ma, nella loro sospensione tra universo comico e universo tragico, nell’apertu-

Northrop Frye, On Shakespeare, Fitzhenry and Whiteside, Markham, ON, 1986, p. 154.

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Laura Sanna, “Preparations made for kings delights”, in Vittoria Intonti (a cura di), Forme del tragicomico nel

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teatro tardo elisabettiano e giacomiano, Napoli, Liguori Editore, p. 149.

Padre della tragicommedia inglese è considerato John Fletcher, autore di The Faithful Shepherdess, pièce por

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tata in scena con ogni probabilità nel 1608, nello stesso periodo in cui fu rappresentato anche il Pericles shake- speariano.

ra a evasioni pastorali, nella prevalenza di una visione comica generale sui particolari nodi tragici, senza dubbio interseca il sentire incerto della tragicommedia e risponde a un sensibili- tà estetica che non ripudia la fusione e la mescolanza, ma anzi la accoglie e la valorizza . 99

Non solo i romances, ma anche i problem plays shakespeariani sono drammi strutturalmente ibridi e l’ibridismo formale (i generi letterari misti), insieme a quello iconografico (la fascina- zione per le creature mostruose e frutto di meticciati e innesti, si pensi al Caliban di The Tem-

pest), è certamente una realtà della prima modernità inglese, una realtà che recepisce la neces-

sità di una dialettica con l’alterità – quella emersa dallo scenario coloniale e quella data dalla frammentazione religiosa post-riforma – e di una sintesi tra differenze, di una disciplina delle ansie e delle incertezze di fronte a scenari socio-politici conflittuali. Barbara Mowat osserva come, nel romance, il pubblico sia preservato da un coinvolgimento empatico e venga rispar- miato tanto da una sofferenza conseguente dall’identificazione con l’eroe che ha errato e ne sconta le conseguenze quanto dalla gratificazione assoluta e senza ombre di un finale lieto (come nella commedia) perché il mondo rappresentato nei romances non è, in effetti, privo di numerosi grumi, di elementi disturbanti e ansiogeni, ed è un mondo in cui la minaccia tragica non è mai negata né la visione comica prevalente riesce a esorcizzare le inquietudini profon- de . Attraverso l’agnizione (l’ἀναγνώρισις aristotelica) l’ignoranza diviene conoscenza; at100 -

traverso il risveglio da una morte solo apparente anche la condizione più radicale e irreversi- bile viene superata e il suo contrario, la vita, ripristinato; eppure, ciò avviene non soltanto in nome di un imperativo consolatorio, ma anche per sollecitare una messa in discussione delle certezze gnoseologiche – aspetto centrale in The Winter’s Tale, ad esempio – e una relativiz- zazione di ciò che, nell’esistenza individuale, viene considerato tragico. Ciò che sembrava la cosa più reale e definitiva possibile, la morte, alla fine risulta irreale; quel che appariva più irreale (il miracolo di tornare alla vita) alla fine risulta, invece, reale e definitivo: nei roman-

ces assistiamo a un’inversione potente delle nostre certezze e dei nostri luoghi comuni, de-co-

Secondo Suzanne Gossett, che cura e introduce l’edizione Bloomsbury del Pericles del 2004, «while the en

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ding is happy, the incidental suffering of mere mortals and the occasional deaths are real. [...] Fletcher’s imme- diate modal was the Italianate pastoral romance, and Shakespeare’s romances, Pericles most obviously, derive from Greek tales of travel such as Apollonius of Tyre»: “Introduction”, in William Shakespeare, Pericles, a cura di Suzanne Gosset, London, The Arden Shakespeare, 2004, pp. 109-111.

Barbara Mowat, The Dramaturgy of Shakespeare’s Romances, op. cit., p. 24.

struiamo, problematizziamo, scardiniamo non solo i cliché, ma il principio stesso che li gene- ra, la dipendenza dagli automatismi del pensiero razionale. L’obiettivo shakespeariano è quel- lo di sacrificare l’emotività della ricezione drammaturgica in favore dell’intellettualità e di suscitare non più una reazione sentimentale, ma una meditazione: Shakespeare vuole mettere il pubblico nella condizione di avere degli strumenti di decodifica metadrammatica e di inda- gine gnoseologico-epistemologica. La Mowat scrive che il romance shakespeariano è il punto di congiunzione di tragedia e commedia, in cui i due poli opposti non si negano a vicenda, ma sussistono simultaneamente.

Shakespearean tragedy takes us into individual experience, gives us entrance into the mind and the emotions of a Hamlet or a Lear, reveals to us a world of truly tragic import in which he- roic man and his acts are significant; Shakespearean comedy lifts out of experience by showing us the wonderful follies of the human species … Each view is in its way true; by juxtaposing the two incompatible views in the Romances, Shakespeare vali- dates and invalidates both views and enables us, if we will, to gain to marvelous double perspective on life . 101

L’ibridismo del romance shakespeariano è un ibridismo dettato sì dalla contingenza di un pubblico vario e dai diversi appetiti, ma anche dalla volontà del drammaturgo di restare aperto a possibilità multiple, di non aderire a una sola ipotesi sull’esistenza: tragedia e commedia, nel romance, non sono più i poli di una dialettica, gli estremi di un’antinomia, ma due dimen- sioni simultanee che non si escludono e, anzi, si sovrappongono: concettualmente, è un punto di vista relativistico e obliquo, radicalmente anti-radicale e questa posizione shakespeariana assume anche una valenza filosofica e politica. La scelta di Shakespeare di utilizzare il ro-

mance nella fase finale della sua carriera è la scelta di adottare una struttura paradossalmente

non strutturata, una forma aperta, ed è in quest’ottica che dobbiamo parlare di dramma ro- manzesco, un dramma non più solo performativo – i dispositivi usati, come vedremo, sono in parte diegetici, in parte mimetici – e non più risolto che persegue, in ultima analisi, l’obiettivo di una moltiplicazione dei punti di vista che finisce per coincidere con l’annullamento di una posizione prevalente, di un’ipotesi ‘assolutistica’ sulla realtà.

Barbara Mowat, The Dramaturgy of Shakespeare’s Romances, op. cit., p. 33. 101

Se il romance shakespeariano non è, dunque, un representational drama e rivendica per se stesso la legittimità dell’illusione scenica e, quindi, la denuncia della quota d’implausibilità presente nella finzione drammatica, vi è, però, almeno un aspetto in cui attua un dispositivo mimetico, adottando, cioè, una similitudine tra contenitore e contenuto: nei drammi romanze- schi risulta, ad esempio, centrale una riflessione sul rapporto tra natura e cultura, un’ossessio- ne per la nascita bastarda e per il meticciato che trova una sua corrispondenza appunto nella forma. Dal momento che un oggetto d’indagine drammaturgica è la manipolazione, l’innesto, la dialettica tra macchia e purezza, anche la forma, ossia il genere drammatico, è manipolato, risultato di innesti, appunto ibrido. La stessa cosa vale anche per la speculazione politica: è, indubbio, analizzando singolarmente i romances shakespeariani, che vi sia una traccia polito- logica, una meditazione sul senso del potere monarchico e sulla sua deriva esiziale, se questo viene interpretato in senso dispotico e totalitario. Il romance, in quanto dramma aperto, stabi- lisce una dinamica di rifrazione con il suo nucleo tematico: se il fatto che almeno tre dei drammi romanzeschi furono rappresentati davanti al re Stuart (The Winter’s Tale; Cymbeline;

The Tempest) è stato spesso considerato indicativo di una loro presunta natura filogovernativa,

quest’ultima non è, in realtà, affatto certa, e anzi Shakespeare sembra collocarsi in una posi- zione ambigua, in linea con l’accento relativista dominante . In una società avvezza a deco102 -

dificare il reale su una base binaria e antinomica, educata ad attuare i propri automatismi ra- gionativi per contrasti – tra ordine e disordine, maschile e femminile, regolare e irregolare – e per meccanismi di rifrazione e inversione, Shakespeare nei suoi romances apparentemente sposa la contrapposizione adottata anche da Giacomo I nel suo Basilikon Doron, quella tra il

Sul pregiudizio ‘elitista’ che riguarda i romances shakespeariani e sull’ambiguità della loro posizione rispetto

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alla legittimazione del potere regale e, più in particolare, allo stile ‘monarchico’ e all’ideologia di Giacomo I, si legga la bella introduzione di Clara Mucci alla raccolta di saggi, da lei curata, sull’ultimo Shakespeare, in Clara Mucci– Chiara Magni–Laura Tommaso (a cura di), Le ultime opere di Shakespeare. Da Pericle al caso Cardenio, Napoli, Liguori Editore, 2009, pp. 1-29.

good king e l’usurping Tyran . Eppure, nella semiotica del rapporto tra i sessi che i drammi 103

romanzeschi sembrano dispiegare, nella decisa problematizzazione della figura del padre, nel- la priorità concessa alla sua relazione con una figlia e non con un figlio, nell’epurazione del- l’ipersessualizzazione delle figure femminili (non banalmente virtuose, ma ‘de-femminilizza- te’, sottratte agli attribuiti ‘uterini’ del femminile) Shakespeare in modo obliquo smantella la costruzioni culturali cui lo stesso re aderiva e che, addirittura, promuoveva con i suoi scritti: un’idea paternalistica del potere monarchico , la convinzione che la stregoneria non fosse un 104

fenomeno prodotto dall’ansietà sociale e da un sistema pregiudiziale, ma avesse un reale fon- damento, come si affanna a dimostrare nel suo trattato di demonologia. L’uso del tropo del padre, della crisi del padre, è, così, funzionale a camuffare, dietro la figuralità, una messa in discussione di questa concezione paternalistica, accudente e opprimente della regalità; il ri- corso a personaggi femminili de-erotizzati è finalizzato non a proporre un modello di femmi- nilità allineato, ma a disinnescare certe associazioni incondizionate, a stornare dal femminile il sospetto di una maggiore propensione alla fascinazione diabolica, alla debilità stregonesca. Che i romances siano riflesso di un iniziale cedimento di un sistema culturale che poggia le sue fondamenta su dicotomie e manicheismi che lo stesso re, con l’interpretazione e l’eserci- zio del suo ruolo, sembra incoraggiare e sostenere? In che posizione si collocano rispetto al- l’ideologia regale? Di aderenza o dissidenza? Non è importante sciogliere ora questo nodo né è questo un nodo che possa sciogliersi definitivamente, ma è importante ribadire come l’ibri- dismo formale del romance in quanto genere non normativo e non normativizzante, la sua ambiguità strutturale e la sospensione tra spirito comico e spirito tragico – la simultanea, rela- tivizzante, sussistenza di entrambi – consentano a Shakespeare di gettare un’ombra, di istillare

«For the part of making and executing of Lawes, consider first the trew difference betwixt a lawfull good

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King, and an vsurping Tyran, and yee shall the more easily vnderstand your duetie herein: for contraria iuxta se

posita magis elucescunt»: Giacomo I Stuart, The Political Works of James I, reprinted from the edition of 1616, with an introduction by Charles Howard McIlwain, Cambridge, Harvard University Press, 1918, 18). “I contrari,

se messi l’uno a fianco dell’altro, spiccano”, scrive il re (in latino). In tutto il Basilikon Doron, un trattato compo- sto nella forma di una lettera rivolta al figlio primogenito Henry nel 1599 e poi ripubblicato nel 1603 in occasio- ne della sua salita al trono, mantiene la contrapposizione tra le due opposte possibilità di interpretazione e di esercizio del ruolo monarchico.

Giacomo I assimilava l’autorità regale all’autorità paterna: «By the Law of Nature the King becomes a natu

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ral Father to all his Lieges at his Coronation: and as the Father of his fatherly duty is bound to care for the nouri- shing, education, and vertuous gouernament of his children; euen so is the king bound to care for all his subiects»: ibidem, p. 55).

il dubbio, di problematizzare l’abitudine alla polarizzazione e alla semplificazione degli sti- lemi culturali e, ancor più, l’opportunità di continuare a sostenere la visione giacomiana del- l’autorità monarchica. Occorre accogliere come un punto fermo l’abilità del drammaturgo nel dissimulare e nel mascherare, dietro la superficie formale delle sue opere, moventi comunica- tivi che sconfessano l’intenzione celebrativa. Come già nel Macbeth, «un’opera sicuramente scritta per celebrare Giacomo e la sua ascendenza scozzese» in cui Shakespeare riesce «con straordinaria ambiguità o grazie alla maschera della creazione artistica e verbale a rendere ac-