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Il tempo, genitore e tomba: impostazione anti-teleologica del Pericles

Benché il Pericles sia suscettibile di letture multiple, il focus sull’educazione affettiva è indubbiamente prevalente. L’irradiazione di stratificazioni metaforiche applicate ai ruoli fa- migliari è, ugualmente, uno degli aspetti stilistici più evidenti. Fin dall’inizio, e ben al di là del motivo incestuoso, l’opera sembra pervasa da un’atmosfera di precipizio imminente che riguarda la corretta articolazione del rapporto parentale e filiale. A Tarso, prima centro fioren- te ed ora in preda a una terribile carestia (che Pericles generosamente ed ‘eroicamente’ risana), Cleon, in un dialogo con la moglie Dionyza, per esemplificare lo stato di crisi che ri- guarda la città, utilizza l’immagine di madri ‘cannibali’ che, anziché nutrire i propri figli, li mangiano per sopravvivere: «Those mothers who to nuzzle up their babies / Thought naught too curious, are ready now / To eat those little darling whom they loved» (1.4.42-44). Quando Dionyza, una delle tante ‘matrigne’ shakespeariane, che anticipa la figura della moglie di Cymbeline del romance successivo, spiega a Cleon le ragioni che l’hanno spinta ad ingaggiare un sicario, Leonine, per eliminare Marina, rea di oscurare con le sue doti quelle, ben più mo- deste, della loro figlia naturale, replica alle proteste del marito accusandolo di amare la figlia accudita più di quella biologicamente generata, e di essere, per questo, paradossalmente, più ‘degenerato’ di lei che, pure, è disposta ad uccidere per spianare la strada alla propria erede: «And though you call my course unnatural, / You not your child well loving, yet I find / It greets me as an enterprise of kindness / Performed to your sole daughter» (4.3.36-39). Cleon, Le parole che danno voce all’incertezza di Pericles di fronte al miracolo: «But are you flesh and blood? /

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Have you a working pulse and are no fairy? /Motion as well? Speak on. Where were you born? / And wherefore called Marina?», 5.1.143-146.

in un dramma concepito per contrapposizioni, rappresenta un’altra antitesi rispetto ad Antio- chus, perché, al contrario di quest’ultimo, ama la figlia troppo poco. Pericles, invece, come sappiamo, abbandona la figlia generata e delega il suo accudimento ad altri. Trascorsi quattor- dici anni e affrontate numerose prove, ecco che solo allora si ritrova pronto per l’assolvimento dei suoi doveri paterni: la generazione e l’accudimento finalmente si sovrappongono, liberati dallo spettro della devianza sessuale e da quello della deprivazione affettiva. L’educazione genitoriale di Pericles coincide con la sua formazione di leader, secondo un’equazione tra i ruoli che risente di un sistema culturale che associa la pratica monarchica ad una pratica accu- ditiva. Antiochus e Cleon falliscono come padri e, insieme, come rulers perché entrambi non svolgono correttamente il loro ruolo, il primo per eccesso d’amore, il secondo per difetto. Se nella tradizione del romanzo greco, l’accento posto sui rapporti interpersonali, intergenerazio- nali e affettivi, riflette una disaffezione dell’individuo per la partecipazione politica e un sbandamento identitario in un impero globale e centralizzato, in Shakespeare sembra che la posizione di un personaggio, all’interno di una dinamica famigliare o, più generalmente, rela- zionale, svolga una funzione di significazione metaforica sul duplice piano personale e politi- co, esistenziale e civico. Shakespeare, inoltre, ricorre a spettro semantico che ingloba le tre assi che sorreggono tutto il dramma – la regalità, la genitorialità, la mortalità – per riassumere la visione filosofica che sostanzia l’opera e che, certamente, la allinea a una posizione più ‘esistenzialista’ che teleologica. A Pericles il drammaturgo affida, infatti, una meditazione sul tempo: «Whereby I see that Time’s the king of men; / He’s both their parent and he is their grave, / And gives them what he will, not what they crave» (2.3.44-46). Il tempo è il re degli uomini, dice Pericles, è per gli uomini genitore e tomba: al di fuori del tempo, non vi è vita; l’essere coincide con il tempo e, dunque, con l’esistenza, con l’entità incarnata in uno spazio delimitato, racchiuso da coordinate cronologiche ben precise. Il significato della vita è imma- nente alla vita e non vi è alcuna provvidenza a riscattarne il suo corso zoppicante: se è vero che, nel Pericles, e nei romances tutti, la morte appare come un fenomeno reversibile, questo è perché la morte è qualcosa di incomprensibile e innaturale ma, comunque, inevitabile, e la sua eliminazione può verificarsi solo all’interno di una finzione, solo all’interno di un gioco teatrale. Il romance, come scrive Northrop Frye, è deliberatamente ‘implausibile’ – Gower

narratore-esegeta, nel Pericles, ce lo ricorda continuamente – e l’enfasi concessa alla sua in- verosimiglianza e all’astrusità delle sue conclusioni (la morte è, appunto reversibile e chi si è perduto, può essere ritrovato) ci conduce non alla speranza del miracolo, ma verso la consa- pevolezza della sua impossibilità: «we have already seen how Shakespeare deliberately choo- ses incredible plots and emphasizes the unlikelihood of his conclusions» . L’illusione, sem197 -

pre sul ciglio della disillusione, dura il tempo di un dramma e, una volta terminato il dramma, muore con esso. E, come è vero che «in Shakespeare the meaning of the play is the play» , 198

allo stesso modo, per Shakespeare il significato della vita è la vita e non si situa al di là dei suoi limiti temporali. Nei romances, più che in ogni altra opera shakespeariana, l’accento è posto sull’attenzione alle dinamiche relazionali come spazio in cui si manifesta la spiritualità della condizione umana che non è e non può essere ascesi o fede in una dimensione oltremon- dana. La tirannia del fato che, nella tradizione narrativa greca, prendeva il posto lasciato va- cante dall’autorità politica, in Shakespeare è l’accidentalità di un’esistenza che si dipana al- l’interno dei suoi limiti termporali, in cui l’uomo, per dirla con Benedick di Much Ado About

Nothing, è solo «a giddy thing» (5.4.104) o, per citare ancora Pericles, è solo qualcuno

«whom both the waters and the wind, / In that vast tennis-court, hath made the ball / For them to play upon» (2.1.58-60). Le stranezze e i miracoli che avvengono nel dramma riconoscono nella fine di questo la loro scadenza e l’ammissione della loro artificialità: non vi è nulla che possa perdurare ed estendersi al tempo ‘altro’ della vita vera e imporsi come credo, come mo- nito, come imperativo. La vita biologica ha un tempo più lungo del tempo di una performance teatrale, ma anch’essa è performance che, una volta conclusasi, non lascia nulla dietro di sé: l’unica occasione concessa alla spiritualità e alla virtù è umana e imperfetta e si gioca tutta nelle relazioni, nell’amore tra padri e figlie, nelle negoziazioni affettive tra i sessi, nella quoti- diana speranza di sopravvivere, in qualche modo, alla tempesta.

Northrop Frye, A Natural Perspective. The Development of Shakespearean Comedy and Romance, op. cit., p.

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123.

Ibidem, p. 116.

Capitolo IV

Frammenti di un ‘capitalismo’ amoroso: Cymbeline, o la guerra dei sessi. Echi eliodorei e dialettica tra dispersione e unità nel romance-monstre

1. I debiti del Cymbeline con il passato: riciclo letterario tra folclore, romanzo e riuso