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Le intermittenze della sintassi: la lingua ‘difficile’ del Winter’s Tale

La gelosia, come sentimento che soverchia e stravolge, è, com’è noto, il motore della rovi- na di Othello. Tra il personaggio di Othello e il personaggio di Leontes vi è, però, un abisso: il primo è un hero che è rimasto impigliato nelle trame del villain, il secondo è sia hero sia vil-

Stephen Orgel, “Introduction”, in William Shakespeare, The Winter’s Tale, Oxford, Oxford University Press,

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1996, p. 7.

John Pitcher, “Introduction”, op. cit., p. 21.

lain, sia il tessitore di trame sia lo sventurato che vi inciampa. La ‘borghesizzazione’ del per-

sonaggio passa attraverso la sua stagnazione personale e l’autoreferenzialità dei suoi fantasmi: questi emergono all’improvviso da un’incubazione visionaria, una lunga, silente gestazione di paranoie che prendono corpo non appena trovano un varco, intercettano una crepa che si apre. Si è discusso già di quale sia questa screpolatura dell’ordine e del quotidiano in cui i fantasmi mentali di Leontes s’infiltrano: la parola che Hermione non ha sorvegliato, l’atto di insubordi- nazione da lei non percepito come tale (perché effettivamente inesistente), eppure creato, scolpito e ingigantito in un riverbero distruttivo dalla mente monomaniaca del marito. Scrive impeccabilmente Alessandro Serpieri a questo proposito: «nel pubblico processo Ermione mette subito in rilievo, nella sua autodifesa, la vergogna di questa esposizione pubblica in cui non ha armi per difendersi perché è alla mercé dei sogni di Leonte; ma per lui le azioni di Er- mione sono i suoi sogni. La realtà di lei è il suo incubo, e tuttavia lo spettatore sa che è vero l’inverso: il suo incubo è la realtà di lei» . Si è, inoltre, discusso di quale sia il corpo di que320 -

sti fantasmi: la complessità del rapporto con il figlio Mamilius; la paternità malamente accol- ta, mai veramente accettata; il senso di esclusione dal rapporto simbiotico con l’amico Polixe- nes ‘per colpa’ della moglie Hermione; l’esclusione dal rapporto con la moglie ‘per colpa’ del figlio (primo elemento dispari) e poi dell’amico ‘ritrovato’ (secondo elemento dispari); la dif- ficoltà di costruire un’identità virile e un’individualità matura. Un altro aspetto è stato, però, trascurato, ossia come questi fantasmi si manifestano, il modo in cui prendono forma e si rive- lano: è, nel dramma, infatti, proprio la lingua a tradire, a negare il controllo, a togliere lo schermo dietro cui l’istinto si era fino a quel momento riparato. Il linguaggio è strumento di controllo, di disciplina della violenza che affonda nelle radici pulsionali dell’uomo: l’emozio- ne cerca nel linguaggio un argine e, invece, trova un colabrodo, una rete che si sfilaccia. La struttura sintattica si contorce e si intorbida: costruzioni di proposizioni ipotetiche in cui la protasi si protrae a lungo prima di sciogliersi nell’apodosi s’inseriscono in un gusto grammati- cale globalmente ‘anacolutico’ e, dal punto di vista sonoro e ritmico, spesso dissonante e caco- fonico. Come scrive Russ McDonald, che dedica uno studio puntuale e approfondito sulle pe-

Alessandro Serpieri, “Introduzione”, in William Shakespeare, Drammi romanzeschi, Venezia, Marsilio, 2001,

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culiarità linguistiche del dramma, «in The Winter’s Tale, even the syntax is tragicomic» . Ma 321

cosa significa che nel Winter’s Tale anche la sintassi è tragicomica? Significa che è sdoppiata, o meglio ‘binaria’, una sintassi in cui alla proposizione subordinata, più spesso introdotta dal- l’if, corrisponde una sovra-ordinata che chiarisce ciò che la premessa lasciava nebuloso: così come The Winter’s Tale comincia con una tragedia, la parte invernale e distruttiva di cui si è tanto parlato, allo stesso modo i periodi cominciano con una proposizione subordinata condi- zionale che si frammenta e ritarda il chiarimento dei riferimenti, un chiarimento che giunge solo con l’apodosi, con la principale che riordina e precisa ciò che su cui il preambolo crea confusione. In questo romance micro e macro-struttura si specchiano in un moltiplicarsi di simmetrie che dalla minima molecola si rifrangono fino all’intelaiatura generale: la struttura dell’opera è duale, divisa tra una parte tragica e una parte comica allo specchio, e, parallela- mente, anche la sintassi riproduce questo schema fondamentale, contorcendosi prima per di- stendersi poi. Il metodo della sospensione non riguarda, però, il solo Leontes colpito da acces- so paranoide: è certamente interessante osservare come al venir meno delle sovrastrutture die- tro il quale Leontes si era rifugiato fino a quel momento corrisponda un perturbamento lingui- stico; ciò che prima la lingua faceva (conservare le maniere, mistificare il vero), ora non lo fa più, e, anzi, la dialettica ‘sabbiosa’ dell’uomo di corte lascia spazio al discorso nudo e scom- posto dello psicotico. Anche in The Tempest i momenti più emotivi sono segnalati da una complicazione sintattica, da una flessione ‘anacolutica’ della lingua: nella concitazione del suo confronto con Caliban, il controllo delle strutture grammaticali persino da parte di un erudito come il mago Prospero sembra alquanto precario. Tuttavia, nondimeno, l’abitudine a confon- dere e a sospendere la risoluzione di una premessa appartiene anche Paulina, un personaggio ‘coscienzioso’, investito di valenze benefiche e salvifiche (è una messaggera di salvezza, così come il San Paolo cristiano a cui deve il suo nome affatto casuale). Raggiunta dalla notizia della morte del figlio Mamillius, consumatosi dal dolore di assistere alla guerra tra i genitori e di vedere l’onore della madre infangato dalla calunnia mossa dal padre, Hermione cade priva di sensi e viene condotta fuori dalla scena. Leontes comincia, allora, a chiedersi se, forse, non “Poetry and Plot In The Winter’s Tale”, in Shakespeare Quarterly, 36, 3, 1985, p. 317. Si legga l’intero con

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tributo, alle pp. 315-319, in cui l’autore analizza l’opera da un duplice punto di vista, quello sintattico e quello fonico-prosodico.

è stato troppo precipitoso nel credere a quei fantasmi da lui stesso generati. A quel punto rien- tra in scena Paulina, che poco prima aveva accompagnato fuori la sua signora: nel rivelare le sorti di quest’ultima (è morta), indugia in un lungo discorso che si serve largamente della so- spensione e della protrazione del suo movente informativo.

PAULINA

What studied torments, tyrant, hast for me? What wheels, racks, fires? What flaying, boiling

In leads or oils? What old or newer torture Must I receive, whose every word deserves

To taste of thy most worst? Thy tyranny, Together working with thy jealousies— Fancies too weak for boys, too green and idle For girls of nine—O think what they have done, And then run mad indeed, stark mad, for all

Thy bygone fooleries were but spices of it. That thou betrayed’st Polixenes, ’twas nothing. That did but show thee, of a fool, inconstant, And damnable ingrateful. Nor was’t much

Thou wouldst have poisoned good Camillo’s honour To have him kill a king—poor trespasses,

More monstrous standing by, whereof I reckon The casting forth to crows thy baby daughter To be or none or little, though a devil

Would have shed water out of fire ere done’t. Nor is’t directly laid to thee the death

Of the young prince, whose honourable thoughts— Thoughts high for one so tender—cleft the heart That could conceive a gross and foolish sire Blemished his gracious dam. This is not, no,

Laid to thy answer. But the last—O lords,

When I have said, cry woe! The queen, the queen, The sweet’st, dear’st creature’s dead, and vengeance for’t Not dropped down yet. (3.2.172-199)

La lunga tirata di Paulina, con il rincorrersi di domande su tutte le tipologie di tortura che Leontes le potrebbe ipoteticamente infliggere, un’infilzata evidentemente iperbolica, è natu- ralmente finalizzata ad accentare retoricamente la dimensione tirannica della follia del re, col- pevole non solo di un abuso domestico, ma anche dell’abuso del suo ruolo, di una profonda indegnità personale e politica. Del resto, nel sistema di significazioni ‘giacomiane’, tra le fun- zioni di re, padre e marito c’è un rapporto identificativo. Tuttavia, quel che più è interessante è che la costruzione dell’intervento è tale da rendere dispersiva la comunicazione, continuamen-

te interrotta da incisi e da sospensioni. Il prolungamento attuato da Paulina amplifica le poten- zialità narrative del linguaggio poetico e quindi, paradossalmente, lo de-poetizza, ma, nel con- tempo, rappresenta anche una ‘de-funzionalizzazione’ di quello stesso linguaggio. Quando la lingua è lineare, la fluidità del suo corso permette a chi ascolta di concentrarsi sull’oggetto della comunicazione: quando la lingua interrompe il suo flusso e si ramifica, dilatando e ag- grovigliando la sua estensione, ecco, allora, che rende più complesso il processo di concentra- zione sul ‘cosa’ e chiede a chi ascolta uno sforzo di comprensione del ‘come’. Rendendo ‘dif- ficile’ lo stile, è come se Shakespeare chiedesse ai suoi spettatori di interrogarsi sulla lingua, sulle sue strutture formali e astratte, è come se chiedesse loro di ‘de-concentrarsi’ e di perdersi nella sintassi che si disarticola, e di scendere, così, verso il senso ultimo del linguaggio, verso le ragioni essenziali del suo esserci. In The Tempest, come vedremo, Shakespeare accompagna il pubblico nella regione mediana tra illusione e disillusione scenica, nel luogo in cui il teatro squarcia il velo della sua finzione; in The Winter’s Tale lo conduce, invece, alle basi ontologi- che della lingua, nel punto in cui la lingua smette di essere solo uno strumento o una funzione e diventa cosa in sé, ontologicamente fondata e investigabile, principio di corruzione o di chiarificazione. Inabissarsi fino ai recessi grammaticali della lingua significa raggiungere la sorgente delle modalità interpretative del reale e afferrarne intuitivamente le infinite possibili- tà e anche i suoi infiniti, pericolosi artifici.

Capitolo VI

Cuore di mostro. Shakespeare nell’isola-prigione di The Tempest, tra in-

canto e orrore di esistere