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Nomi parlanti e John Gower narratore: Shakespeare sulla fonte

Se è vero che Shakespeare si accosta al materiale altro senza stravolgerlo, ciò non significa – come già energicamente sottolineato nell’introduzione a questo studio – che non operi una profonda trasformazione nonché ricollocazione semantica dello stesso. Il romanzo di Apollo- nio è, per il drammaturgo, solo un serbatoio di situazioni di cui intuisce le potenzialità e a cui attinge per portare sulla scena ciò che crede possa interessare al suo pubblico e ciò che stimo- la il suo estro maturo. Vi sono, dunque, due piani di analisi: quello dell’intervento shakespea- riano minimo (piccoli riadattamenti) e quello dell’intervento shakespeariano macroscopico, la rilettura profonda secondo la lente del sistema culturale che gli appartiene. Talvolta il dato materiale del cambiamento rispetto alla fonte coincide con il dato ‘immaginativo-ideologico’ o ne è conseguenza. Per quanto riguarda il primo aspetto, per così dire ‘microchirurgico’, oc- corre osservare come Shakespeare intervenga sull’onomastica: Apollonius, che Twine aveva lasciato Apollonius e Gower trasformato in Apollinus, per il Bardo diventa Pericles. Il nome Pericles materializza una consonanza con Pyrocles, eroe dell’Arcadia di Sidney – opera, tra l’altro, indebitata con il romanzo eliodoreo, a cui Shakespeare aveva già attinto per l’intreccio secondario del King Lear – e ricorda la parola latina periculum. La più immediata associazio- ne resta, però, quella con il nome dello statista ateniese vissuto nel V secolo a. C., nel periodo

Suzanne Gossett, “Introduction”, op. cit., p. 113.

di massimo splendore della civiltà ateniese . Shakespeare sembra voler accentuare la patina 175

ellenizzante del dramma, conferirgli un fascino remoto e, forse, evocare un’associazione con la supremazia politica e bellica di Atene che fu tradizionalmente legata al mare: non a caso il

Pericles shakespeariano è dramma ‘salmastro’ per eccellenza, pieno di tempeste e naufragi,

Inoltre, alla figlia di Pericles, nata in mare, viene dato proprio il nome di Marina: nel romanzo di Apollonio, la bambina si chiama Tarsia (dalla città di Tarso) così come nella versione di Twine, mentre Gower sceglie Thaise, un nome greco di etimo sconosciuto che Shakespeare riutilizza, nella versione di Thaisa, per la moglie di Pericles e madre di Marina. Quando Ly- chorida, la nutrice, porge a Pericles il fagotto con la figlia neonata, questi affida la piccola alla benevolenza degli dèi e si augura che la sua vita sia ben diversa dalla sua nascita tempesto- sa . 176

PERICLES Now, mild may be thy life! For a more blusterous birth had never babe; Quiet and gentle thy conditions, for

Thou art the ruddiest welcome to this world That ever was prince’s child. Happy what follows! Thou hast as chiding a nativity

As fire, air, water, earth and heaven can make To herald thee from the womb.

Even at the first thy loss is more than can Of this poor infant, this fresh new seafarer. I would it would be quiet. (3.1.27-37)

Il significato allegorico di cui è investita la figura di Marina – senza, però, come visto nel precedente capitolo, che nell’allegoria il personaggio s’annulli – si rivela nella contrapposi- zione tra il mare come simbolo di un’eternità indistinta e la tempesta, la sciagura circoscritta, suscettibile di misurazione matematica: la tempesta è calamità, dal latino tempestas che non a caso proviene da tempus, il tempo inteso come tempo quantitativo, tempo che si può tagliare

In Gower e Twine, il nome del governatore di Tarso è Stranguilio, in Shakespeare, diviene Cleon. Cleone,

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storicamente, fu l’avversario politico di Pericle, fautore di un programma ideologico improntato alla demagogia e all’aggressività bellica. Shakespeare potrebbe essersi, dunque, ispirato alle Vite di Plutarco che leggeva nella tra- duzione di North, tra l’altro fonte del suo Coriolanus, opera cronologicamente vicina al Pericles.

William Shakespeare, Pericles, a cura di Suzanne Gossett, London, The Arden Shakespeare, 2004. Tutte le

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(dal greco τέµνω, appunto “tagliare”). È implicita, nella condizione di Marina, la dicotomia tra il tempo qualitativo e il tempo quantitativo: Marina è il prodotto della tempesta come cir- costanza singolare, come contingenza che infrange il fluire del tempo eterno e incalcolabile e, allo stesso tempo, incarna quel flusso che non conosce fine ma solo ripetizione infinita di se stesso. Marina è scienza e coscienza insieme, episodio ed eternità, tempo che si può tagliare e tempo inafferrabile, tempo che si consuma e tempo perenne, è bambina e archetipo, carne mortale e simbolo immortale. Per Marina non c’è sfida col tempo che consuma la materia e riduce le occasioni esperienziali, perché in sé entrambe le accezioni temporali sussistono: quella del χρόνος, il tempo sequenziale, e quella del καιρός, il tempo indeterminabile. La du- plicità insita nella sua condizione, che il nome Marina, in quanto legato all’energia capriccio- sa del mare, creatore e distruttore, contiene, è la duplicità di tutto il dramma, la sua precisa volontà di insinuare un dubbio gnoseologico, di moltiplicare le prospettive e sostenerle simul- taneamente, disinnescando ogni tentazione di assumere un principio assolutistico come base di qualsiasi conoscenza e di qualsiasi credenza. Il Pericles non deve essere letto come dram- ma allegorico, ma l’allegoria che le sue vicende e i suoi personaggi comunque dispiegano è funzionale a una riflessione meta-teatrale all’interno della quale l’artificio e la figuralità occu- pano, come vedremo, un ruolo importante.

Oltre agli interventi di modifica onomastica, Shakespeare introduce un personaggio, quello di Gower, che è anche, come ricordato, una delle due mediazioni tra il drammaturgo e la fonte latina. La funzione di Gower è quella di narratore extra-diegetico: riemerso dalle sue ceneri, riappropriatosi del suo aspetto umano, il poeta torna alla vita per ricantare un vecchio canto e non è un caso se questo canto sia proprio vecchio, sia, anzi, antico, perché «et bonum quo an- tiquius eo melius» (1.0.10). Dare profondità storica al racconto significa avvalorarne il senso, provarne la sua natura intramontabile, eternamente valida e significativa, nondimeno, intro- durre uno schermo tra la scena e l’attualità per distillarne il portato emotivo, per raffreddarne l’urgenza e quindi suggerire al pubblico delle modalità di fruizione più intellettuali che emoti- vi, per predisporre lo stesso pubblico a farsi a sua volta story-teller, ad assimilare, cioè, un’a- bilità narrativa di leggere il mondo come fosse un testo, di decodificare l’esperienza attraverso processi esplorativi e interpretativi.

La presenza di Gower è massiccia e non è, pertanto, riducibile alla funzione di collante tra ciò che viene mostrato; non rappresenta mai solo un veicolo di informazioni. Il poeta intervie- ne sì per congiungere le sezioni drammatiche, per connettere i tessuti della rappresentazione ma, nel contempo, la sua figura non è solo ‘strutturale’, solo strumentale a una resa tecnica, ma propizia una riflessione meta-letteraria in un dramma che mette prepotentemente al centro la forza della parola e del racconto, la valenza curativa e salvifica che questi assumono. Mari- na, infatti, non solo, attraverso la parola, riesce a evitare un rapporto sessuale con Lisimaco, ma addirittura lo redime dalla corruzione morale, ed è ancora grazie alla parola – una parola maieutica, rivelante, taumaturgica – che avviene il mutuo riconoscimento e il ricongiungimen- to tra Marina e il padre. Gower è il detonatore di una riflessione su questo potere che possie- dono il linguaggio e la sua doppia articolazione affabulatrice e guaritrice. In un dramma di parola che valorizza i dispositivi narrativo-diegetici svolge, dunque, una duplice funzione: esegetica rispetto a quanto accade sulla scena («What’s dumb in show, I’ll plain with speech», 3.0.14), ed esegetica rispetto alla costruzione immaginativa, decodificante rispetto agli artifici e agli espedienti propri della rappresentazione tout court. Parallelamente, il pubblico assorbe questo doppio binario e diviene in grado di riprodurlo, di leggere anch’esso esegeticamente l’esperienza di realtà di cui può farsi interprete.

GOWER

Thus time we waste, and long leagues make we short, Sail seas in cockles, have and wish but for’t,

Making to take imagination

From bourn to bourn, region to region. By you being pardoned, we commit no crime

To use one language in each several clime Where our scenes seem to live. I do beseech you To learn of me, who stand i’th’ gaps to teach you The stages of our story. Pericles

Is now again thwarting the wayward seas, Attended on by many a lord and knight, To see his daughter, all his life’s delight. Old Helicanus goes along. Behind Is left to govern, if you bear in mind, Old Escanes, whom Helicanus late Advanced in Tyre to great and high estate.

Well-sailing ships and bounteous winds have brought This king to Tarsus – think his pilot thought;

To fetch his daughter home, who first is gone. Like motes and shadows see them move a while; Your ears unto your eyes I’ll reconcile.

(4.4.1-22)

Shakespeare, attraverso Gower, è come se giocasse a carte scoperte: denuncia l’implausibi- lità del suo racconto scenico, quasi rivendica con orgoglio quella stessa implausibilità. È solo l’immaginazione che può sostenere l’estrema mobilità geografica – il dramma s’estende in uno spazio vasto che copre le città di Antiochia, Tiro, Tarso, Mitilene, Pentapoli, Efeso – del suo racconto scenico e può giustificare, in nome delle sue logiche trascendenti rispetto ai principi della realtà empirica, il fatto che la lingua parlata dai personaggi sia sempre l’inglese, in quanto ai diversi ‘climi’ non corrispondono diversi idiomi. Il drammaturgo rinuncia all’illu- sione scenica, dichiara la sua finzione, si fa insieme autore e interprete del suo artificio: il pubblico si ritrova, così, a sostare in un limbo, sospeso tra due richieste, quella di credere e quella di non credere, quella di abbandonarsi all’immaginazione e, insieme, di essere consa- pevole della natura immaginativa di quanto vede. La prospettiva doppia – l’illusione e la disil- lusione scenica, l’alternanza di queste due fasi che ineriscono organicamente all’esperienza teatrale – viene continuamente avanzata da un dramma che persegue, come finalità ultima, la disposizione a mettere in discussione e a relativizzare, una disposizione che non deve rispar- miare neppure il narratore, sul cui principio di autorità il pubblico è chiamato a dubitare, così come su ogni principio di autorità, quella regale, quella paterna, quella sessuale e affettiva, quella sociale largamente intesa. In questo senso, l’invito a fare le pulci a chi esercita l’autori- tà risponde al fermento ‘disquisitorio’ proprio delle nuove rivendicazioni protestanti. L’enfasi sull’artificialità del teatro dipende, però, senz’altro anche da una volontà di distorsione e di ‘straniamento’. È evidente, e chissà non c’è bisogno di chiarirlo, che uno spettacolo sia per antonomasia qualcosa di finzionale, qualcosa che prevede l’uso di trucchi a cui il pubblico è chiamato a credere, però l’insistenza sulla natura ‘finta’ del teatro è qui programmatica, di- pendente da una precisa intenzione di sollecitare una riflessione sulla questione. Saenger in- troduce, a tal proposito, il concetto di ‘burlesco’, come di una modalità, di una postura propria di Shakespeare nel Pericles, uno stile, non un genere, che mette distanza tra il soggetto drammatizzante e l’oggetto drammatizzato (il romance) e tra il romance e la realtà, producen-

do un effetto parodico e vagamente umoristico . Posto che sarebbe fuorviante sostenere che 177

il Pericles assecondi un’inclinazione per il ridicolo, è, però, probabile che il pubblico perce- pisse questa oscillazione tra adesione alle convenzioni di un genere e analisi distaccata delle stesse, lo scarto tra la verosimiglianza che non c’è e la credibilità che comunque nessuno ri- chiede, come una sensibilità per l’assurdo e come una forma di ironia, ironia che è da inten- dersi nel senso etimologico di dissimulazione, di decostruzione dei cliché, di disvelamento- delle meccaniche e degli automatismi della finzione fino a lasciare quest’ultima nuda ed espo- sta ad un’osservazione tanto critica quanto sardonica. La stessa categoria estetica è, come ve- dremo, applicabile anche a The Tempest, in cui l’alternanza di meccaniche mimetiche e diege- tiche è in certa misura simile.