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Capitolo 1. Il concetto di “Terrorismo internazionale”

1.7 Terrorismo e delitto politico

1.7.4 Il terrorismo “politico”

Richiamando il dettato dell’art. 8 c.p. non può negarsi che gli atti di terrorismo rientrino nella categoria dei delitti politici quando siano diretti contro interessi politici dello Stato o diritti politici del cittadino, ovvero quando politica sia la finalità perseguita attraverso il metodo del terrore. Ciò vale, evidentemente, per il terrorismo “politico” che si distinguerebbe dal terrorismo “comune” e da quello “sociale” per il fatto che il movente e lo scopo siano di ordine politico, in quanto l’azione è diretta contro lo Stato, i suoi organi, i suoi rappresentanti, la sua organizzazione politica o la sua forma costituzionale. Il terrorismo “comune”, invece, si caratterizza per il perseguimento, attraverso lo strumento tipico del terrore, di obiettivi individuali; mentre il terrorismo “sociale” è finalizzato a realizzare un’ideologia (in particolare di tipo anarchico, socialista, comunista o, comunque, rivoluzionaria) così da incidere sull’organizzazione sociale od economica di una collettività o di un Paese.

Del resto l’afferenza delle fattispecie terroristiche, contemplate dal nostro ordinamento, all’ambito del diritto penale politico trova chiara conferma nella scelta operata dal legislatore italiano di collocare le condotte di terrorismo penalmente rilevanti tra i delitti contro la personalità dello Stato del Titolo I Libro II c.p., vale a dire in un settore normativo che è sede d’incriminazione dei fatti tradizionalmente riconducibili alla figura del delitto politico, come abbiamo già avuto modo di vedere34. Ciò vale tanto per l’introduzione nel vigente codice

penale dei primi delitti con finalità di terrorismo, avvenuta con la legislazione dell’emergenza, quanto per i più recenti interventi normativi in materia di terrorismo anche internazionale.

Il terrorismo “politico” si distingue, però, dal delitto politico

generalmente inteso, perché mentre per il delinquente comune qualsiasi forma di pubblicità rappresenta un evidente pericolo, per il terrorista politico la pubblicità e la propaganda costituiscono attributi peculiari dell’azione stessa, anzi spesso gli autori di azioni definite terroristiche confessano il fatto commesso all’opinione pubblica, posto che la confessione e la glorificazione dell’infrazione rientrano sempre nel loro programma. Inoltre mentre il comune delitto politico offende soltanto l’interesse (politico) di cui è titolare lo Stato o l’avversario politico, l’atto di terrorismo politico arreca offesa anche a interessi di soggetti del tutto estranei alla lotta politica, dunque tale forma di terrorismo si caratterizzerebbe proprio per l’indeterminatezza del possibile oggetto e per il soggetto passivo del delitto.

Al riguardo si è osservato che dobbiamo intendere come “delitto terroristico” soltanto quel delitto soggettivamente politico che, non offendendo soltanto beni politici ma anche beni indeterminati e indeterminabili, è capace, appunto per la sua imprevedibilità, di destare un grave allarme sociale tale da indebolire le istituzioni e creare il panico (terrore, appunto) nella comunità sociale. Gli altri delitti in questione, pur essendo sicuramente delitti politici, non possono configurarsi come delitti terroristici perché il noto carattere politico del bene colpito priva questi delitti dell’ulteriore effetto di pericolo generico per la collettività intera che è tipico ed essenziale del delitto terroristico. La natura generalmente violenta dei mezzi d’azione impiegati, il coinvolgimento di vittime innocenti e la pubblicità dei singoli fatti delittuosi rappresentano i principali tratti distintivi del delitto terroristico nel contesto dei delitti politici.

Nell’ambito del terrorismo politico dobbiamo menzionare il terrorismo “di Stato”, che ne costituisce senz’altro una forma. Questo si caratterizza, essenzialmente, per l’uso di strategie e metodi terroristici da parte dell’autorità statale. Ne esistono due forme: si parla di

terrorismo “governativo” qualora chi detiene il potere utilizzi metodi terroristici contro una parte della popolazione al fine di mantenere quello stesso potere o di imporre una dittatura; mentre si parla di terrorismo “esterno” in riferimento a ricatti, rappresaglie o violazioni di leggi internazionali realizzate contro un altro Stato. Poiché tutti gli Stati hanno sottoscritto ufficialmente la Carta dei diritti dell’uomo, che implica un totale rifiuto del terrorismo, nessuno di essi può ammettere di utilizzare metodi terroristici o di addestrare, armare o comunque di aiutare gruppi terroristici, pertanto tutte le attività terroristiche promosse dagli Stati sono condotte segretamente, in modo da non essere riconducibili ai governi mandanti; normalmente gli attentati e le uccisioni di Stato vengono gestite dalle strutture dei servizi segreti civili o militari, o comunque da gruppi esterni all’apparato statale.

Infine è possibile ricondurre al terrorismo “politico” quello “rivoluzionario” e “sub-rivoluzionario”: il primo è identificabile come fenomeno di gruppo, realizzato sotto la guida di un leader ed inteso a realizzare una rivoluzione politica al fine di prendere il potere; nel secondo, invece, gli atti terroristici, pur eseguiti per motivi ideologici o politici, non sono finalizzati al conseguimento del potere.

1.7.5 “Depoliticizzazione” dei reati di terrorismo

Le caratteristiche criminologiche del metodo terroristico fanno sì che le manifestazioni di terrorismo siano avvertite come delitti particolarmente dotati di disvalore, e proprio nell’esigenza di non lasciare impunite tali atrocità viene qui indicata la ratio della tradizionale esclusione dei reati terroristici dal trattamento privilegiato riservato ai delitti politici, in termini di amnistia o di divieto di estradizione. La scelta di “depoliticizzare” i delitti, pure politici, ma commessi con metodo terroristico risiede proprio nella necessità di sottoporre i loro autori alla disciplina dell’estradizione e del mandato d’arresto europeo.

Originariamente però l’esclusione del terrorismo dall’ambito di favore predisposto per i reati politici venne motivata dall’intenzione di apprestare una tutela speciale e anticipata al sovrano, piuttosto che dalla preoccupazione di garantire la perseguibilità di atti delittuosi violenti; infatti, la “depoliticizzazione” ai fini estradizionali venne sancita, per la prima volta, nella cosiddetta «clausola belga» (o «clausola dell’attentato»), inserita nella Convenzione franco-belga del 1896, ove per atto terroristico, e come tale escluso dal divieto di estradizione previsto per i delitti politici, si intese espressamente l’attentato contro un Capo di Stato o di governo esteri o contro i membri della sua famiglia. Notiamo, dunque, che tale strumento era posto, più che altro, a tutela della majestas, pertanto era destinato ad operare anche in assenza di un’espressa rivendicazione della natura terroristica dell’atto e a prescindere da ogni ulteriore considerazione sul relativo metodo esecutivo o sull’eventuale coinvolgimento di vittime innocenti. Benché in questa clausola non si faccia espresso riferimento alla finalità terroristica, che sovente accompagna questo tipo di manifestazioni criminose, è comunque intuitivo come l’elaborazione di tale principio abbia costituito il punto di partenza per una più efficace repressione di questo fenomeno. Successivamente la “depoliticizzazione” del terrorismo ai fini estradizionali venne inserita in numerosi trattati e convenzioni in materia, tra cui la Convenzione europea di estradizione del 1957, la Convenzione europea per la repressione del terrorismo del 1977 e nel relativo Protocollo di emendamento del 2003, e in tempi più recenti la Convenzione internazionale per la repressione degli attentati terroristici mediante utilizzo di esplosivo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York nel 1997, la quale conferma ed estende l’oramai “depoliticizzazione” degli atti terroristici in materia di estradizione.

Ebbene, l’esigenza di precisare costantemente a livello internazionale che il terrorismo non rientra nel novero dei reati politici può essere

interpretata come un’indiretta conferma dell’intrinseca natura politica riscontrabile negli atti terroristici. L’opportunità di riconoscere adeguato rilievo alle gravi caratteristiche del metodo terroristico, senza negare, al tempo stesso, la possibilità che le condotte in cui esso si concreta assumano una valenza politica, suggerisce di interpretare la “depoliticizzazione” del terrorismo, ai fini della sua esclusione dal divieto di estradizione per i reati politici, in termini di necessario bilanciamento tra la dannosità sociale dei fatti in cui esso si manifesta e la connotazione politica ad essi riferibile, sul piano oggettivo o soggettivo. Una tale interpretazione risulterebbe, del resto, coerente con la nozione costituzionale di delitto politico, ai sensi degli artt. 10, co.4 e 26, co.2 Cost.

Tuttavia, al fine di non ricadere in una logica politico-criminale che finisca di ricondurre il delitto politico all’archetipo autoritario del crimen laesae majestatis, come tale incompatibile con il carattere democratico del nostro ordinamento, deve ammettersi che tra il comune delitto politico e i delitti, pure eventualmente politici, commessi con metodo terroristico, intercorre una differenza sostanziale, ravvisabile nel contenuto dell’offesa ad essi, rispettivamente, riferibile.

Il delitto politico di cui la Costituzione vieta l’estradizione, dovrà essere identificato in fatti costituenti esercizio delle libertà fondamentali democraticamente garantite – prime fra tutte la libertà di manifestazione del pensiero, libertà di riunione e libertà di associazione, anche politica – la cui repressione corrisponda alla criminalizzazione del mero dissenso politico.

Quanto, invece, al terrorismo, esso risulta qualificato da quel metodo terroristico – inteso come modalità esecutiva violenta, coinvolgimento di vittime casuali e pubblicità degli intenti – che, conferendo agli atti in cui si concreta un grado di dannosità sociale tale da prevalere sulla considerazione della loro eventuale natura politica, ne spiega, altresì, il trattamento differenziato in materia di estradizione.