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Il Tractatus epistolarum di Francesco da But

I L T RACTATUS EPISTOLARUM

5.3 Il Tractatus epistolarum di Francesco da But

Il Tractatus di Buti costituisce la parte finale delle Regule, di cui rappresenta il compimento nel curriculum grammaticale-retorico della scuola medievale. Il corso di dictamen era riservato alla classe più avanzata di studenti, verosimilmente futuri notai e giuristi; sappiamo, d’altro canto, che Buti stesso era notaio e forse proprio nell’ambito della facoltà di diritto egli esercitò il proprio insegnamento.

L’operetta va considerata come strettamente dipendente dalla sezione di retorica che la precede: infatti, sebbene l’opera nel complesso abbia l’aspetto di un trattato tripartito, le ultime due sezioni vanno considerate come un’unità, e come tali circolarono. Non bisogna infatti dimenticare che alla fine del Medioevo, soprattutto in Italia, retorica era sinonimo di ars dictaminis, e che qualunque testo dell’epoca comprende sempre istruzioni nell’arte di comporre epistole, oltre alla tradizionale illustrazione dei colores retorici, che dell’ars dictaminis costituiscono la necessaria premessa.

Il Tractatus di Buti, sebbene molto denso ed estremamente dettagliato nella casistica di esempi, soprattutto della salutatio e dell’exordium, sembra essere solo uno dei tanti testi di dictamen che circolavano all’epoca, dato che non si differenzia dalla tradizione più recente (quella iniziata da Giovanni di Bonandrea): il suo valore piuttosto risiede nella considerazione dell’importanza complessiva delle Regule, che sono un’opera straordinaria per la completezza dell’istruzione offerta -visto che abbracciano tutto il corso di studi di un notaio, dalla classe immediatamente successiva a quella dei principianti assoluti (i bambini che si istruivano sul Salterio), fino alla più elevata classe di istruzione universitaria- piuttosto che nel valore intrinseco dell’operetta.

In ogni caso, sebbene ci sia ragione di credere che la sezione di dictamen sia fortemente dipendente da modelli, il grado di elaborazione personale deve essere cospicuo, perché non possiamo individuare un solo testo della

tradizione che ne sia il modello diretto –cosa che invece è possibile per la singola sezione di retorica, vicinissima al Cedrus Libani di Bono da Lucca e al Candelabrum di Bene da Firenze.

Diamo qui una breve presentazione della struttura dell’opera, avendo cura di mettere in evidenza i passi più importanti.

Ad apertura del testo l’autore afferma che il dictamen si divide in prosaicum, rithmicum, metricum e che lui tratterà soltanto quella forma particolare di dictamen prosaicum che è il dictamen epistolare. Segue la definizione di epistola, detta verisimilium compendiosa descriptio placiti assentium declaratrix (“descrizione breve di cose verosimili, che dichiara il volere degli assenti”). Tale definizione era canonica: si potrebbe a titolo d’esempio confrontarla con la corrispondente definizione data da Giovanni di Bonandrea: “Epistola est oratio humane lingue facunda vicaria, voluntatis absentium nuntiatrix”. In entrambi i casi si mette in rilievo la funzione dell’epistola come veicolo di un discorso riportato in differita, anche quando l’autore non è fisicamente presente. Un aspetto molto importante della definizione di Buti –che è assente invece in Bonandrea- è rappresentato dal termine “verosimilium”: l’epistola deve narrare fatti verosimili, non necessariamente veri; tale affermazione è indice del nuovo che avanza, di una nuova concezione, già preumanistica, dell’opera letteraria, messa in circolo per la prima volta da Petrarca240. Secondo Alessio241, nella definizione di Buti sarebbero anticipati i

due modelli che avrebbero avuto fortuna nella normativa epistolare della seconda metà del Trecento: da un lato, ciò che serve per l’ufficialità dell’epistola nella sua funzione pubblica (placiti … declaratrix); dall’altro, l’affermazione della dimensione ludica dell’epistola che, come opera letteraria, si può avvalere del gioco della finzione, della capacità, tutta personale, di inventare.

storia dell’Università di Bologna”, 8 (1924), pp. 213-248.

240 Il quale non espone una teoria, ma semplicemente formula alcune osservazioni al proposito

nelle Familiares, I, 1.

241 G.C. ALESSIO, L’ars dictaminis nel Quattrocento italiano: eclissi o persistenza?, “Rhetorica. A

Dopo l’etimologia della parola - ricondotta al greco επί e ςτόλον -, l’autore elenca le cinque parti in cui si divide l’epistola: salutatio, exordium, narratio, petitio, conclusio. Ma –afferma Buti- tali parti non sono necessarie, e anzi la salutatio oggi è tale che “ usus reprobat modernorum”, ma, poiché spesso viene impiegata ugualmente, Buti comincerà proprio dalla sua trattazione. La divisione in cinque parti era diventata quasi usuale dall’epoca di Giovanni di Bonandrea in poi. Tuttavia, spesso c’erano differenziazioni e prese di distanza. Buti afferma che la salutatio fu usata solo dagli antichi, ma conviene ricordare che un maestro dell’autorità di Guido Faba non considerava la salutatio come facente parte dell’epistola, e affermava soltanto che essa veniva riportata da alcuni come introduzione; cosa che lascia vedere come anche fra gli antichi ci fosse incertezza riguardo al numero delle parti. Anzi, potremmo affermare che per tutto il Medioevo la fissazione nelle canoniche cinque parti non si consolidò mai, e che essa si cristallizzò solo con Petrarca.

Anche se spesso si premetteva che la salutatio non era propriamente parte della lettera, ben più della metà di un qualunque manuale di ars dictaminis era riservato proprio ad essa, che nel tempo aveva acquisito una crescente importanza, in virtù della funzione di definizione dei ruoli e della relazione reciproca fra mittente e ricevente. La salutatio era la parte che svolgeva un ruolo di “definizione” delle categorie sociali, ed era anche la testimonianza di come era articolata la stratificazione sociale in un determinato periodo: essa ha quindi anche valore di testimonianza storica, aiutando nella comprensione dei ruoli sociali di una determinata epoca.

La salutatio fa le veci del saluto verbale “cum meritis, nominibus et dignitatibus”. Interessante è l’etimologia del nome: esso deriverebbe da salutis affectio242, come se la salutatio fosse posta dal mittente per accertarsi che la salute del destinatario è buona. Segue una lunga elencazione dei vari casi che si possono creare nel rapporto fra i partecipanti allo scambio epistolare;

242 Cfr. altre etimologie più o meno analoghe, p. es. quella di Guido Faba: “salutis optatio”

come conclusione, Buti dichiara che, poiché il potere spirituale è più importante del potere temporale, i primi titoli di cui parlerà saranno quelli che il papa usa riguardo a se stesso quando scrive e i titoli che gli sono dati da chi si rivolge a lui. L’autore dichiara inoltre che, per risparmiare tempo e fatica, attingerà agli esempi usati dal maestro Filippo da Pistoia.

Le rubriche di saluto sono molte e contemplano una sterminata casistica. Si parte, ovviamente, dalle categorie più importanti, e, com’era naturale, dal papa, il rappresentante del potere supremo. Interessante è notare la presenza della categoria delle persone cui debetur reverentia propter habitum, cioè di coloro che hanno raggiunto un grado di distinzione in virtù dello studio e delle proprie capacità professionali: sono essi giudici, notai, mercanti, uomini di lettere e di scienza. Qui Buti si pone nel solco segnato dai dictatores dell’ultimo periodo, in particolare Giovanni di Bonandrea che già aveva aperto una rubrica “de adiectivatione personarum genere precellentium”. Tale titolatura è anche indice di una caratteristica della vita dei comuni italiani del Trecento: precisamente, è la testimonianza del rimpicciolimento dell’orizzonte politico, dai grandi organismi universali (Papato e Impero) ad un microcosmo municipale, cittadino; gli scambi epistolari riguardano molto meno quelli fra papi, re ed imperatori e molto di più quelli fra podestà ed altre personalità del governo cittadino.

Le ultime rubriche riguardano la sfera più familiare e privata dello scambio epistolare: vi si considerano le lettere dirette da padre a figlio, da zio a nipote, e viceversa. Tuttavia, questa sezione è molto meno sviluppata che non in altri scrittori: in genere, infatti, la casistica era abbastanza ampia243 e si

occupava strettamente dei rapporti privati fra parenti e perfino, talora, fra amanti; Buti, invece, vi dedica uno spazio molto minore, mantenendo, fra l’altro, la casistica dei rapporti familiari nell’ambito della comunicazione semipubblica, infatti, fra gli esempi di comunicazione da padre a figlio mette il caso del “rex Franchorum” che scrive “Petro, eius dilectissimo primogenito”.

243 Per esempio cfr. A. GAUDENZI, Guidonis Fabe Summa dictqaminis, “Il Propugnatore”, 3, 13-14

Interessante sembrerebbe a prima vista anche un’indagine sui nomi propri utilizzati negli esempi. Accanto a nomi inventati, spesso anche di re o imperatori, compaiono infatti nomi di personaggi realmente esistenti, come Cino da Pistoia o Tommaso de Formagginis; sarebbe forse utile sapere quanto e se questi nomi siano stati introdotti proprio da Buti e quanto non facciano invece parte di una tradizione consolidata che integrava, via via, nomi di personaggi del presente. Per ora non è stato riscontrato un uso identico degli stessi nomi, neppure nei dictatores dell’ultima generazione; si ha l’impressione, tuttavia, che il loro impiego, almeno in Buti, sia in massima parte casuale, e non possa, perciò, essere preso di riferimento come terminus ante o post quem per una più precisa datazione dell’opera, né come testimonianza dell’importanza di certi personaggi nella vita pubblica dell’epoca.

Segue a questo punto la trattazione dell’exordium del quale viene data la seguente definizione: Exordium est artificiosum orationis primordium auditorum animos idonea preparatione alliciens ad dicenda (“l’esordio è un’artificiosa introduzione dell’orazione che attira l’animo degli uditori alle cose che saranno dette con una adatta preparazione”). Si noti il termine orationis244, che trova riscontro nella definizione data da altri autori e che ha la spiegazione nel fatto che Buti parla non solo di lettere, ma anche di discorsi pubblici (arenge). Bisogna a tal proposito ricordare la funzione pressoché pubblica dell’epistola, che veniva quasi sempre declamata ad alta voce in luoghi a grande affluenza di pubblico, come le piazze cittadine: pur essendo scritta, la sua funzione era quella di un discorso orale ascoltato in differita, quindi non c’erano profonde differenze con l’oratoria vera e propria.

Ci sono due tipi di exordium: il principium apertum e l’insinuatio, che l’autore annuncia di trattare in seguito. Per ora vengono elencati quattro tipi di cause: honestum, contrarium, mistum e vile. Il genere honestum si ha nel caso di discorsi rivolti alla difesa della Chiesa e dei deboli; il contrarium invece si

244 In altri autori del passato, quali Guido Faba e Bene da Firenze, si trova invece il termine libellus o preambolus.

pone come obiettivo la difesa di omicidi, ladri e qualunque altra categoria di malviventi. Il genere mistum ha una doppia caratterizzazione: da un lato descrive buone azioni o persone degne, dall’altro mescola sempre in queste narrazioni qualche fatto turpe o disonorevole. Il genere vile, infine, tratta una materia bassa, vile, quotidiana. Va da sé come nel primo caso sia da usare un exordium aperto, data la natura meritevole della causa, e che con gli altri tre, invece, si debba usare quella specie di exordium velato che è l’insinuatio. I due tipi di exordium fanno parte della tradizione, ma sono caratteristici soprattutto dell’ultima generazione dei dictatores245, da parte dei quali si insiste sul ruolo altamente pratico dell’exordium di presentazione del seguito del testo; nei grandi del Duecento246, invece, l’exordium aveva una funzione

più paradigmatica, e meno strettamente collegata alla narrazione successiva: bisogna, infatti, ricordare che nei dictatores che resero grande la disciplina nel sec. XIII, l’exordium era costituito da un proverbium o sententia, spesso attinto ai Libri della Sapienza, e che rappresentava la chiave attraverso la quale il lettore-ascoltatore penetrava nel testo e gli attribuiva un significato.

Poiché gli scopi dell’exordium sono tre, cioè rendere l’uditorio docile, benevolo e attento, l’autore procederà ad un’analisi dettagliata di come ottenere queste tre virtutes. Per quanto concerne la prima, la docilità, il Buti pone un solo esempio, relativo ad avvenimenti gioiosi e solenni la cui importanza riesce da sola a procurare un vasto seguito di pubblico.

L’attenzione sarà invece assicurata dalla promessa di parlare dei seguenti elementi: cose nuove e magnifiche; cose inusitate, cose che riguardano lo stesso uditorio, come il presente o la religione; l’attenzione potrà inoltre essere stimolata anche dalla promessa di narrare cose di un certo peso, elencandole con una scansione numerale ordinale; infine, l’attenzione potrà essere ottenuta per mezzo di preghiere, se negli altri modi ciò non si è verificato.

245 Da Giovanni di Bonandrea in poi, tutti i dictatores riportano la divisione nei due tipi di exordium; tuttavia, anche due antiqui come Bene da Firenze e Bono da Lucca considerano la

stessa ripartizione.

La terza virtù, la benevolenza (che è la virtù per eccellenza dell’exordium, nella tradizione247 detto anche captatio benivolentie, ma mai in Francesco da

Buti), si può ottenere in ben quattro casi: 1) riguardo a chi parla; 2) riguardo all’uditorio; 3) riguardo agli avversari; 4) riguardo alla stessa materia da trattare.

1) Il primo caso contempla quattro tipi: il ricordo delle azioni lodevoli compiute da chi parla a favore della città; l’affermazione di trovarsi in qualche difficoltà; la dichiarazione di sottomissione ad un’autorità; la confutazione di crimini di cui si possa essere stati accusati;

2) nel secondo caso si tratterà di attirare dalla propria parte la persona dell’ascoltatore o del destinatario, lodandone le virtù, come le virtù cardinali oppure la magnanimità, o le molte opere meritevoli compiute;

3) la terza forma di esordio riguarda l’accusa di crimini compiuti dagli avversari, accusa volta a suscitare sdegno e disprezzo nell’uditorio, così da attirarlo dalla parte di chi parla;

4) da ultimo, la benevolenza può essere ottenuta mostrando che la cosa di cui si parla è onesta e meritevole, oppure affermando che si parlerà di scienza o virtù, attraverso le quali possiamo guadagnare grandi lodi.

Passati in rassegna i diversi tipi di exordium apertum, si passa a trattare della insinuatio di cui si dice che è cauta verborum obbligatio, occulta preparatione, ad dicenda subiciens animum auditoris (“un cauto impedimento delle parole che sottomette l’animo dell’uditore alle cose che saranno dette, con un’occulta preparazione”). Tale espediente verrà usato in tre circostanze: 1) quando la causa di cui si parla non è buona (per esempio, nel caso in cui si difendano ladri o assassini); 2) qualora sembri che l’uditorio sia già stato persuaso dagli avversari; 3) quando si verifichi il bisogno di rinfrancare gli animi tediati dall’eccessiva prolissità del discorso.

Seguono a questo punto vari esempi che illustrano il modo in cui contrapporre ad un’azione scellerata o ad una persona da biasimare un’azione o una persona degni di onore; inoltre, altri esempi sul modo di

247 Cfr. GAUDENZI, Guidonis Fabe, cit., cap. LXXII: “Benivolentie captatio idem est quod

contrapporre un discorso persuasivo a quanto già detto dagli avversari; ed infine il suggerimento di proporre un apologo, una storiella o una favola che possa illustrare quanto seguirà nella narratio.

Il paragrafo successivo è dedicato ai vitia exordiorum, che l’autore dice stabiliti in numero di otto da Cicerone. La trattazione di tali vizi era canonica nella tradizione: quasi tutti i dictatores ne riportano definizioni ed esempi; spesso con differenze terminologiche248. Gli esempi che Buti riporta

probabilmente sono tratti da qualche fonte, visto che l’opera non sembra essere particolarmente originale: tuttavia, a questo stadio, ancora non si è riusciti a stabilire collegamenti con nessun precedente.

L’elenco dei vitia comincia con l’exordium vulgare nel significato di “generico”, perché si può adattare a tipi diversi di cause; continua con il commune, che non esprime una condizione esclusiva di chi parla, bensì condivisa con l’avversario; il commutabile, che è da evitarsi perché adattabile, senza troppi sforzi, all’avversario. L’exordium inoltre non deve essere longum ultra modum, così da non rispettare l’equilibrio fra le parti; chi parla deve inoltre evitare che l’esordio sia separatum, cioè che non sia aderente a quanto verrà raccontato nella narratio; deve evitare che sia translatum, che ottenga cioè una virtus diversa da quella che si era prefisso (p. es. la docilità al posto dell’attenzione); ugualmente, deve evitare che sia artis dogmatibus inimicum, cioè che fallisca in uno dei tre scopi elencati sopra; infine, che l’exordium non sia nimis comptum, cioè eccessivamente ornato, perché non si incorra nell’accusa di essere adulatori.

L’exordium era considerato nella tradizione la parte più importante dell’epistola. La trattazione che ne fa Buti è piuttosto dettagliata a confronto con quella di altri autori. Considerando solo alcuni fra i principali (Guido Faba, Bonandrea, Bene da Firenze, Sponcius), sembra probabile che Buti avesse presente il testo del Candelabrum (e con esso anche il Cedrus Libani di

248 Per esempio, i vitia elencati da Bene da Firenze e Bono da Lucca hanno nomi differenti da

quelli usati da Buti, ma identico significato (vulgare, commune, mutabile in contrarium, nimis

apparatum, nimis longum, separatum, translatum, inefficax), cfr. Candelabrum, l. IV, 15 e Cedrus, Pars altera, XXIX; Giovanni di Bonandrea, invece, ne discute soltanto sette, omettendo il nimis comptum, cfr. ARCUTI, Iohannis Bonandree, cit., 25.

Bono da Lucca), che già per la retorica dimostra di seguire abbastanza fedelmente. Infatti, nei due testi più antichi troviamo un’attenta distinzione fra i due tipi di exordium (il principium e l’insinuatio) e alle differenti situazioni a cui essi convengono. Forse, però, per la singola sezione dell’exordium il testo che Buti potrebbe aver avuto più presente è la celebre Brevis introductio di Bonandrea, dato che anche in tale scritto troviamo citati meticolosamente i modi in cui è possibile ottenere la benevolenza del pubblico e quelli in cui vanno impiegati i due tipi di exordium. Il carattere molto dettagliato del testo di Buti è inoltre indice dell’impostazione fortemente didattica dell’autore, che non manca di proporre con accuratezza spiegazioni chiare e sostenute da esempi. In questo, il testo del maestro toscano sembra notevolmente migliore di altri, che sono più brevi o comunque meno ricchi di spiegazioni: sto pensando al testo di Bonandrea, agile, ma forse troppo veloce su certi punti, o al Candelabrum, il cui elenco di casi in cui sia da usarsi l’insinuatio è davvero ridotto rispetto alla sterminata elencazione di Buti. D’altra parte, come già si è visto, le Regule nell’intero insieme sono un testo dall’impianto notevolmente didascalico e concepito come un solido sostegno all’insegnamento orale: la loro considerevole estensione, la buona strutturazione, l’esaustività degli argomenti e l’accuratissimo apparato esemplificativo ne fanno un testo di straordinario impatto didascalico che non dovette passare inosservato nella scuola dell’epoca, dato il considerevole numero di testimoni manoscritti che ci tramandano l’opera e considerata l’ampia varietà di volgari italiani che si riscontra nei codici, copiati in una zona molto vasta (coincidente con l’intera penisola, o poco meno) e durante l’intero sec. XV, in epoca già umanistica.

Alle ultime tre parti dell’epistola è dedicata una porzione di testo piuttosto scarna, dato che ognuna di esse viene spiegata in un solo paragrafo.

La narratio, definita rerum verarum seu verisimilium declaratio (“dichiarazione di cose vere o verosimili”), deve avere tre caratteristiche: deve essere, cioè, brevis, in modo che non siano ripetuti concetti già espressi e che si parli solo

di ciò che riguarda i fatti da narrare; deve essere aperta, cioè rispettare l’ordine dei fatti, il cui stravolgimento non si adatta a una lettera o a un’arenga, ma solo narrationi ystoriarum; deve, infine, essere verisimilis, cioè narrare fatti che abbiano un’apparenza di verità. La definizione di Buti si discosta nella terminologia249 dalla tradizione, che è concorde nel descrivere

la narratio come “rerum gestarum aut proinde ut gestarum expositio”250;

anche per i tre termini che definiscono gli scopi della narratio, almeno in Guido Faba e Bonandrea, troviamo probabilis al posto di verisimilis251: e, anche se il significato è analogo, notiamo come Buti indichi esattamente il concetto della verisimiglianza.