• Non ci sono risultati.

Struttura delle Regule rhetorice

L E R EGULE RHETORICE

4.3 Struttura delle Regule rhetorice

Nell’incipit all’intera opera, Francesco da Buti, dopo essersi presentato come “gramatice ac rhetorice professor”, afferma di aver composto “regulas gramatice ac rhetorice”; la stessa affermazione, quella di aver scritto quedam introductoria “di regole retoriche”, si legge nell’incipit alle Regule rhetorice. Ecco dunque come la struttura dell’opera ci appare bipartita, con una sezione grammaticale ed una di retorica, ordinate secondo una scala di crescente difficoltà. Ma parlare di retorica nell’Italia del Trecento era parlare di ars dictaminis, dato che la teoria dei colores era ritenuta indispensabile alla composizione del perfetto dictamen. Anzi, era questa l’unica funzione che veniva riconosciuta alla disciplina. In Italia –e non solo- qualunque testo che si proponesse di insegnare l’ars dictaminis doveva necessariamente contenere una buona trattazione delle figure; e ciò fa anche Buti nella prima parte delle Regule rhetorice. Tuttavia, il Tractatus primus de rhetorica ed il Tractatus

epistolarum, per come sono concepiti, sono legati, ma nello stesso tempo disgiunti, tanto è vero che abbiamo preferito trattarli come due testi separati, occupandoci in questo capitolo del Tractatus primus, e rimandando al capitolo successivo l’analisi del Tractatus epistolarum.

Tracciamo quindi una veloce analisi di ciò che Buti chiama quedam introductoria […] ad erudiendum rudes minime necessaria. Già a partire da questa definizione –in apertura di testo- si insiste sulla finalità strettamente pratica di un compendio come questo, che intende fornire solo i rudimenti necessari, e che rinvia il lettore documenta doctorum illustrium.

Per quanto riguarda i modelli più prossimi, prescindendo dal De inventione e soprattutto dal libro IV della Rhetorica ad Herennium - di cui il testo butiano ricalca la struttura nella presentazione dei colores175 -, il Cedrus Libani di Bono

da Lucca (risalente a circa un secolo prima di quello di Buti) potrebbe aver costituito la falsariga per la composizione delle Regule. I due testi appaiono molto simili, innanzitutto per la loro brevità ed essenzialità, che li contrappone ad altri lavori, di respiro ben diverso176. Evidenzieremo di volta

in volta, nel corso di un’esposizione rapida del contenuto dell’opera, i passi che risentono maggiormente dell’influenza di questi o di altri modelli.

All’inizio del trattato, vengono introdotte le tre caratteristiche che deve possedere il perfetto dictamen: l’elegantia, la compositio e l’ornatus. L’elegantia, definita “que reddit orationem latinitatem puram et explanationem perspicuam” (ciò che rende un’orazione pura ed intelligibile dal punto di vista del corretto uso della lingua), offre l’appiglio per parlare dei vitia della latinitas, che sono il barbarismus, il solecismus e dieci vitia annexa, per i quali si rimanda al Barbarismus di Donato, che ne era l’autorità indiscussa.

Si passa poi alla compositio, definita come “lepida dictionum complexio, equaliter perpolita, per cola, comata, periodosque177 distincta” (unione piacevole di parole, equamente levigata, distinta in cola, commi e periodi). Qui

175 v. quanto dice BLACK, Humanism, cit., p. 340: “his Regule rethorice offer almost entirely an

abbreviated version of Rhetorica ad Herennium’s fourth book”.

Buti, come quasi tutti gli autori di ars dictaminis – fa una breve teoria della punteggiatura178. Spendiamo qualche parola in più su questo argomento, di

solito trascurato, come se la punteggiatura non fosse anch’essa il frutto di evoluzioni di teorie diverse attraverso i secoli.

E’ cosa risaputa il fatto che la scrittura nell’antichità fosse continua, senza stacchi fra una parola e l’altra, e senza segni d’interpunzione. Con questo non è che gli antichi non percepissero l’esigenza di pause all’interno del discorso, ma solo che il loro sistema interpuntivo era differente dal nostro, e così anche i segni impiegati. I primi segni che indicassero la pausa era rappresentata addirittura da spazi bianchi, che, proprio attraverso la mancanza di segni, indicavano l’assenza di parole. Poi fu proprio la scriptio continua a far avvertire l’esigenza di segni che permettessero una più facile scansione del discorso in frasi con diversa funzione sintattica: bisogna ricordare, infatti, come sottolinea la Serafini, come “alla segmentazione del periodo venisse attribuita sia una funzione puntativa sia una funzione sintattica”179 ed evidenziare, con Roncaglia, che “i tre termini comma, colon,

periodos che indicavano dapprincipio i diversi membri della frase […] passarono a indicare i segni”180. Questi diversi membri della frase vennero

chiamati distinctiones da Cicerone (o, con termine mutuato dal greco, positurae), e tale termine si impose al Medioevo. Le distinctiones, nel corso del tempo, passarono dall’indicazione dei singoli membri a quella delle pause al termine di tali membri, e di conseguenza a quella dei segni d’interpunzione.

177 I termini greci colon e comma, inglobati dal latino, si sono perduti nelle lingue romanze;

sono conservati, invece, in alcune lingue germaniche (cfr. ingl. comma, ted. Komma =virgola; ingl. colon e semicolon = due punti e punto e virgola).

178 Per una storia della punteggiatura in età antica e medievale v. A. MAIERU, Grafia e interpunzione del latino nel medioevo. Atti del Seminario internazionale (Roma, 27-29 settembre 1984), Roma 1987, N. MARASCHIO, Appunti per uno studio della punteggiatura, in AA.VV., Studi

di linguistica italiana per G. Nencioni, Firenze1981, pp. 185-209; F. NOVATI, Di un’Ars punctandi

erroneamente attribuita a F. Petrarca, “Rendiconti del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere”,

2, 42 (1909), pp. 83-118, P. RAJNA, Per il “cursus” medievale e per Dante, “Studi di filologia italiana”, 3 (1932), pp. 7-86; E. CRESTI – N. MARASCHIO, Storia e teoria dell’interpunzione. Atti del

convegno internazionale di studi (Firenze 19-21 maggio 1988), Roma 1992; J. TOGNELLI, Introduzione

all’ “Ars punctandi”, Roma 1963;J.J. ZAGREB, Osservazioni sulla pausa sintattica, “Linguistica”, 25 (1985), pp. 45-52.

179 Cfr. F. SERAFINI, Punteggiatura. Storia, regole, eccezioni, Milano 2001, vol. II, p. 93.

180 Cfr. A. RONCAGLIA, Note sulla punteggiatura medievale e il segno di parentesi, “Lingua nostra”,

Questi ultimi erano costituiti da un unico segno, il punto, che cambiava significato al variare della posizione all’interno della riga: in basso, indicava la subdistictio (cioè un membro non concluso, e quindi una pausa breve dal nome di comma), a metà la media distinctio (un membro indipendente ed una pausa abbastanza forte, il colon), in alto, la distinctio (un membro indipendente ed una pausa molto forte, il periodos).181 Altri segni vennero poi

ad aggiungersi fra età tardo-antica e Medioevo, fra cui lettere accentate –in particolare la i- per aiutare la lettura; i punti geminati (due punti dopo l’iniziale di un nome); l’obelo a margine del testo, per richiami e annotazioni; i punti sottoscritti alle lettere ad indicare l’espunzione delle stesse.

L’autore medievale a cui si deve la trasmissione del patrimonio interpuntivo classico, e a cui si rifanno più o meno tutti gli autori successivi, è Isidoro di Siviglia, nelle Origines seu Etymologiae. Grazie a lui il sistema delle tre distinctiones in cola, commata e periodos passa inalterato al Medioevo. Per vari secoli non ci sono significativi cambiamenti, ma verso la fine del sec. XIII troviamo leggere modifiche in un autore anonimo che influenza la dottrina contenuta nella parte quarta182 del Catholicon di Giovanni da Genova (1286),

dedicata alla punteggiatura: vengono introdotti tre aggettivi ad indicare le tre diverse distinctiones, suspensiva, la distinctio più incerta, constans, quella forte, ma non fortissima; diffinitiva, la distinctio più forte. Questi aggettivi diventano standard nei successivi trattati (vedi, ad esempio, le Regule di Buti).

L’influenza del Catholicon –opera piuttosto cospicua, composta da una parte precettiva ed una lessicografica- si fa sentire su molte opere posteriori, ma non è l’unica. Si possono individuare, anzi, altri due filoni che risalgono ad altrettante dispute svoltesi in due luoghi molto fecondi di dottrina grammaticale e retorica: la Francia (con le dispute fra Pietro Elia ed Alessandro di Villadei sulle teorie di Isidoro, verso la fine del sec. XII-inizio

181 Cfr. sull’argomento la vocePunteggiatura a c. di A. SCHIAFFINI, in Enciclopedia italiana, vol.

XXVIII, Roma 1935, pp. 264-327.

182 Pubblicata separatamente da M. HUBERT, Le vocabulaire de la “punctuation” aux temps médiévaux. Un cas d’incertitude lexicale, « Archivum latinitatis Medii Aevi », 38 (1971/1972), pp.

del sec. XIII) e Bologna (con i contrasti fra due dei più importanti rappresentanti del dictamen: Boncompagno da Signa e Bene da Firenze – legato, quest’ultimo, anche alla curia apostolica). Bologna, in particolare, luogo privilegiato per lo studio dell’ars dictaminis, vede nascere anche numerose artes punctandi, spesso inglobate nei trattati di dictamen: importanti sono, ad esempio, quelle di Guido Faba (contenute nei numerosi trattati), Matteo de’Libri (nelle Dicerie, in volgare), Tommaso di Capua (nell’Ars dictaminis), Pietro de’Boattieri (nella Rosa novella super arte dictaminis). Fondamentale, soprattutto per l’influenza esercitata non solo sulla prassi della curia romana, ma anche su autori minori o successivi (come Bono da Lucca o Francesco da Buti) è anche l’ampia esposizione riservata alla punteggiatura da Bene da Firenze nel Candelabrum (libro I, parr. 20-25). Questa trattazione, passata quasi inalterata nel testo di Bono (Cedrus Libani, pars prior, parr. XI-XX), è la fonte più vicina per il testo di Buti, che ne ripercorre fedelmente la struttura e ne riutilizza spesso gli esempi.

Buti introduce i tre termini coma, colum e periodus183 attenendosi alla divisione in tre diverse distinctiones (suspensiva, constans e finitiva) che risale al Catholicon. Il suo modello è Bono, mentre si differenzia dal testo di Bene, che, oltre alla più dettagliata trattazione, chiama dependens la distinctio segnata dal coma, anche se con identico significato. I segni grafici usati per indicare le tre pause, molto vari fin verso il sec. XIII, si erano poi stabilizzati nei seguenti, che Buti attinge ancora una volta a Bono: il coma è un “punctum cum virgula sursum ducta” (‘.), il colum un “punctum rotundum sine vrgula” (.) ed il periodus un “punctum cum virgula deorsum ducta” (;). L’esempio utilizzato è anch’esso tradizionale, anche se in Buti compaiono leggere differenze rispetto ai testi di Bono, di Bene e del Catholicon, differenze che potrebbero essere ascritte facilmente a variazioni dovute al fatto che spesso si citava a memoria materiale appreso anche molto tempo prima; potrebbero altresì

183 Nel Candelabrum è spiegata anche l’etimologia dei tre termini: coma significa (distinctio) cesa,

perché separa dal resto solo una piccola porzione del periodo, senza che questa abbia senso compiuto; colum (latinizzazione del greco colon) è il membrum di una frase, cioè una porzione che può essere indipendente; periodus (tradotto in latino con circuitus) è una frase completa e conclusa (libro I, 21).

essere dovute a modifiche inserite nell’archetipo e che hanno contaminato tutta la tradizione. Il testo dell’esempio è il seguente: “De quibus omnibus hoc familiare traditur exemplum : Cum inter ceteras (omnes in Bono, Bene e Giovanni da Genova) virtutes caritas obtineat pricipatum: ecce coma; non sine ipsa certa virtutum possessio: ecce colum; in qua est omnium posita pulcritudo (certitudo negli altri autori): ecce periodus”.

Si giunge poi alla definizione di clausula, plurium distinctionum iuncta continuatio, ambitum perfecte sententie comprehendens (“estensione congiunta di più distinctiones, che comprende il giro di una perfetta sentenza”). Da notare che nell’antichità clausula era la parte finale di un periodo, che si distingueva per una particolare cadenza ritmica; invece nel Medioevo passa ad indicare una sentenza ad effetto. Spesso il termine clausula viene inoltre associato a quello di cursus e talvolta confuso con questo, ma il cursus è la dottrina della terminazione ritmica dei periodi, mentre la clausula è un tipo particolare di periodo. La clausula non deve essere né troppo breve184 (per non mostrare

“penuriam dictatoris”) né troppo lunga (per non risultare prolissa e stancare l’uditorio). La mediocritas, cioè il giusto mezzo, si raggiunge quando la clausula è composta da due a cinque membri, anche se negli storiografi si incontrano pure clausule di sei o sette membri. Buti afferma –sulla scia della tradizione– che quest’ultimo tipo di clausula è detto periomelesis nel De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella185 e viene permessa anche in

discorsi molto elaborati, come quelli che si tengono in “imperiali aula” o in “sede apostolica”. Seguono esempi di clausule (da quella bimembris a quella septimembris), con frasi attinte spesso a Bono e a Bene, ma che risalgono anche molto indietro nella tradizione retorica.

Si passa poi alla definizione di distinctio, concetto che, sebbene introdotto assai prima a proposito della pausa indicata dal coma, non aveva ancora ricevuto una definizione. Viene ora detta unius clausule integrum membrum,

184 Quando la clausula è costituita da un’unica distinctio (colum) è chiamata monocolon. Essa è

generalmente da evitarsi perché troppo breve.

185 Cfr. MARTIANO CAPELLA, Le nozze, cit. Al proposito, notiamo ciò che scrive ALESSIO, Beni Florentini, cit., ed. crit., nelle note di commento in fondo al testo, p. 313: “Perimonolexis” (par.

dictiones debita ordinatione contexens et sententias a nexu dubitationis expediens; suspensiva, constans et finitiva per coma, colum, periodumque distincta (“membro integro di un’unica clausola, che lega le parole nel giusto ordine e scioglie le frasi da nessi dubbiosi”); la subdistinctio, invece, è definita come non […] integrum membrum clausule, sed pars distinctionis determinationes distinguens et ambiguum dirimens intellectum (“membro non compiuto di una clausola, ma parte che distingue le determinazioni della distinctio e che scioglie un significato ambiguo”). Si dice poi che, dal momento che distinctiones e subdistinctiones sono scandite per puncta, si deve vedere che cosa è il punctum. Il punctum viene definito distinctio segregans intellectum, spiritum recreans prolatoris (“una distinctio che enuclea un significato e che permette a chi parla di prendere respiro”). Interessante è l’affermazione –già presente nei testi di Bono e Bene- secondo cui la pausa segnata dal punctum è una pausa sia mentale (perché segnata per scritto) sia vocale, cosa che permette di vedere come ai segni scritti corrispondessero diverse inflessioni nella voce. Da notare anche che in Buti permane il significato originario di distinctio come frase o parte di frase (anche se alla sua altezza cronologica già indicava i segni di punteggiatura), tanto che anche il punctum non è sentito come l’odierno segno forte d’interpunzione, ma ancora come una frase conclusiva. La sezione successiva è relativa al cursus, argomento che di solito i dictatores trattavano nella sezione di ars dictandi vera e propria; Buti lo anticipa invece alla sezione di retorica, differenziandosi dalla maggior parte degli autori, ma seguendo comunque Bono, che è la fonte diretta. Il cursus è definito verborum elegantia vocuum dulcedinem exibens audienti (“eleganza delle parole che mostra all’uditorio la dolcezza dei suoni”) o verborum compositio lepida et suavis que maxime actenditur in ultimis distinctionum dictionibus brevibus sive longis (“composizione piacevole e dolce che si attende soprattutto nelle ultime parole –brevi o lunghe- delle distinctiones”). In Bono mancano definizioni del cursus, mentre nel Candelabrum la trattazione è piuttosto ridotta (libro VI, parr. 43-47) e limitata alle differenze dello stile gallico

9) [del Candelabrum] sarà forse corruzione secondaria di “epimone lexis”, cit. da MART. CAP.

rispetto a quello romano; forse una parte più ampia è inserita nell’altra grande opera di Bene, la Summa dictaminis. In ogni caso, non si riesce ad individuare a prima vista un sicuro modello per Buti, che comunque deve esserci stato, visto che tutta la sezione di retorica tende ad essere fedele, fin nelle minime espressioni, a testi della tradizione.

Prima di analizzare la trattazione del cursus in Buti, vediamo di tracciare brevemente una storia186 di questa tecnica, così come abbiamo fatto per la

punteggiatura.

La dottrina della prosa ritmica non è un’invenzione medievale, perché già Cicerone la utilizzava nelle lettere, e nel De oratore (libro I, 35) parla del tantum cursus verborum. Dall’antichità essa passò al Medioevo grazie soprattutto all’interesse della curia apostolica che la utilizzava per rendere più bella la liturgia. Grande importanza per una prima sistemazione del cursus della curia papale ebbe Giovanni di Gaeta, monaco di Montecassino, in seguito cancelliere del papa Urbano II e infine papa Gelasio II187, verso la

fine del sec. XI. Egli riuscì a “ripristinare il ritmo leonino (leoninum cursum) con la sua lucida rapidità”.188 In seguito un altro papa, Gregorio VIII189 (al

secolo Alberto da Morra), durante il suo lavoro come cancelliere alla curia pontificia dal 1178 al 1187, espose nel modo più compiuto la trattazione del cursus romano, nella Forma dictandi qua Rome notarios instituit magister Albertus qui et Gregorius VIIIus papa.190 Un altro autore importante per la

186 Per il cursus medievale sono molto utili gli articoli di M. PLEZIA, L’origine de la théorie du

cursus rythmique au XIIe siècle, “Archivum latinitatis Medii Aevi”, 32 (1974), pp. 5-22 e di R. WITT, On Bene of Florence’s conception of the French and Roman cursus, “Rhetorica. A journal of the history of rhetoric”, 3 (1985), pp. 77-98. Utilissimo è anche MURPHY, La retorica, cit., pp. 284-289.

187 Su di lui v. R. LANE POOLE, Lectures on the history of the papal chancery, down to the time of Innocent III, Cambridge 1915 e M.G. NICOLAU, L’origine du “cursus” rythmique et les débuts de

l’accent d’intensité en latin, Paris 1930. 188 Cfr. MURPHY, La retorica, cit., p. 285.

189 Su di lui v. P. KEHR, Papst Gregor VIII. als Ordensgründer, “Miscellanea Francesco Ehrle.

Studi e testi”, 38 (1924), pp. 248-275.

190 Il testo è pubblicato da T. JANSON, Prose Rhythm in Medieval Latin from the 9th to the 13th Century, “Studia latina stockholmiensia”, 20 (1975), e da A. DALZELL, The Forma dictandi

teoria del cursus papale fu il monaco di Clairvaux Trasmondo191, di origine

francese, che, come molti connazionali, lavorò alla curia papale almeno nel 1185-1186. Nelle sue Introductiones dictandi (1206, poi ripubblicate nel 1216), tratta, oltre che delle distinctiones (per cui si rifà a Isidoro di Siviglia), anche del cursus, ed è tradizionalmente considerato l’inventore del cursus tardus; a lui ricorre Bene da Firenze per la descrizione del cursus romano.

Bene da Firenze nel Candelabrum e nella Summa dictaminis provvede la descrizione di altri due tipi di cursus: il cursus gallicus (rivale di quello romano) ed il cursus ciceroniano, oltre a descrivere il cursus romanus. Bene critica il cursus francese che dice basato su imaginarios dactilos et spondeos, e dimostra di preferire di gran lunga il cursus papale, “il più chiaro di tutti”. Egli fornisce anche la definizione, seguita da esempi, dei tre tipi di cursus romano: planus (che si regge sulla successione di una proparossitona e di una parossitona: _ _ _ _ _), tardus (che è la successione di due proparossitone: _ _ _ _ _ _) e velox (dal ritmo molto più rapido: _ _ _ _ _ _ _). La trattazione di Bene è la più chiara che ci sia stata lasciata dalla scuola bolognese; accanto alla sua va ricordata l’esposizione, fatta in momenti ed opere diversi, dal suo rivale Boncompagno da Signa. Feroce critico del cursus in generale, ma soprattutto di quello francese, Boncompagno nel Tractatus virtutum (1197) dice che il cursus è “non un’abitudine moderna; è un’eresia” e che i dictatores per comporre le lettere non sono costretti a basarsi sulle leggi della metrica, ma devono lasciarsi guidare dal gusto personale. Le sue considerazioni non cambiano molto nel corso degli anni e si ritrovano quasi inalterate nella Rhetorica antiqua (1215 e 1226) e nella Rhetorica novissima (1225). Del cursus francese egli critica in particolare la tendenza ad essere basato troppo sulla metrica, sulla successione di dattili e spondei, critica che comunque era rivolta ai dictatores d’oltralpe –soprattutto alla scuola di Orléans- più o meno da tutti i retori italiani. I Francesi stessi erano consapevoli di questa caratteristica del loro cursus: come afferma per esempio Sponcius, il cursus è

191 Su di lui v. S. HEATHCOTE, The letter collections attributed to Master Tranmundus, Papal notare and monk of Clairvaux, “Analecta cistercensia”, 21 (1965), pp. 54-56. Il testo è pubblicato da

matrimonium spondeorum cum dactilis. L’importanza da essi attribuita alle leggi della metrica risiede quasi sicuramente nell’impronta più letteraria e legata alla tradizione dei loro studi retorici e di ars dictaminis, mentre in Italia, l’attribuzione di finalità essenzialmente pratiche alla retorica e al cursus faceva prevalere la tendenza verso una semplice e leggera cadenza musicale.

Buti si differenzia leggermente dalla tradizione del cursus romano, riconoscendone soltanto due categorie, il velox ed il planus, ma con altre due sottoripartizioni, il semivelox ed il semiplanus. Non si sa chi possa aver seguito per questa ripartizione né per gli esempi utilizzati per illustrare i quattro tipi di cursus, ma in ogni caso il distacco da Bene e Bono è tanto più evidente proprio per la fedele aderenza in altri punti ai loro trattati, quindi questa differenziazione potrebbe far trovare legami di Buti con altri autori, che