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La teoria matura del riconoscimento

Nel documento Immagine (pagine 75-83)

Riconoscere in immagine

3. La teoria matura del riconoscimento

Nella sua versione matura, proposta da Dominic McIver Lopes, la teoria del riconoscimento ha questa formulazione: un’immagine I raffigura il suo soggetto S se e solo se: i) I è in grado di innescare la capacità di un percipiente appropriato (che è stato cioè sottoposto ad un addestramento con immagini) in condizioni visive appropriate (opportuna luminosità, adeguata distanza dall’immagine, ecc.) di riconoscere S al suo apparire, e ii) la soddisfazione di (i) è una conseguenza di una relazione causale del tipo giusto tra S e I234.

Come ormai sappiamo, in una definizione come questa la seconda condizione fornisce la spiegazione dell’intenzionalità dell’immagine. Un’immagine non è l’immagine di qualunque cosa inneschi in un percipiente appropriato entro condizioni visive appropriate la capacità di riconoscimento, ma solo di ciò che, relativamente a un tale innesco, stia nei confronti dell’immagine nella relazione causale di tipo giusto, dove il tipo giusto di relazione può essere una relazione puramente causale, come nel caso delle fotografie, ma anche una relazione causal-intenzionale, come nel caso dei quadri235. Così, anche se il già ricordato affresco di San Ludovico di Tolosa dipinto da

Piero della Francesca porta un percipiente odierno a riconoscervi Michael Schumacher, non si tratta di un quadro del pilota di Formula 1 perché Schumacher non è con tale quadro nella relazione causal-intenzionale giusta (Piero non volle certo ritrarvi Schumacher); d’altronde, se una foto di Michael Schumacher portasse un redivivo Piero a riconoscervi S. Ludovico, non si tratterebbe di una foto di S. Ludovico perché non è il santo ad averla causata ma ciò che ha causato l’impressione della pellicola, cioè ovviamente Schumacher medesimo.

Ma la condizione importante della definizione ai nostri fini è la condizione i), la condizione che esprime la pittorialità dell’immagine236. Se da un lato tale condizione

incorpora alcuni requisiti della versione di Schier della teoria riconoscitiva (come abbiamo detto, l’individuo che ha una percezione pittorica deve vedere l’immagine nelle condizioni giuste – di distanza, illuminazione ecc. – e avere l’opportuno addestramento a tale percezione), dall’altro essa permette di liberarsi del problema principale della versione di Schier, quello relativo alla comprensione di immagini il cui soggetto non è mai stato visto prima. Essa infatti sostiene che un’immagine è tale nella misura in cui innesca la stessa capacità di riconoscimento del suo soggetto che quel soggetto

medesimo innescherebbe qualora il percipiente si imbattesse in esso. Con le parole di Lopes, “la capacità di elaborare ciò che le immagini raffigurano co-varia con la capacità di riconoscere i loro raffigurati in carne ed ossa”237. Da questo punto di vista, ai fini di

un determinato riconoscimento non ha importanza se partiamo dal soggetto o partiamo dalla sua immagine, perché entrambi ci permettono di innescare la medesima capacità che consente il riconoscimento. Quindi possiamo effettivamente usare le immagini come guida per la conoscenza della realtà, e dunque per l’apprensione di soggetti che non abbiamo mai visto: quando vedremo il soggetto di una certa immagine lo riconosceremo nella misura in cui l’abbiamo già riconosciuto in immagine. D’altronde, questo è ciò che intuitivamente vogliamo da un’immagine. Nel film fantascientifico di Kevin Reynolds Waterworld gli sparuti superstiti di un mondo in cui una devastante guerra ha determinato la sommersione di tutte le terre conosciute riescono a trovare Dryland, l’ultima terra emersa, seguendo il percorso raffigurato in un’immagine tatuata sulla schiena di una bambina.

Il punto, per la versione matura della teoria del riconoscimento, è che l’esperienza pittorica di un determinato soggetto è una delle tante esperienze che innescano la capacità di riconoscerlo. La percezione veridica di un soggetto, in cui lo percepiamo con le proprietà che effettivamente ha, è paradigmatica in questo senso. Ma anche le percezioni non veridiche di quel soggetto, le illusioni in cui lo percepiamo con proprietà che effettivamente non ha, o le vere e proprie allucinazioni in cui esperiamo un soggetto che non esiste, innescano la medesima capacità ricognitiva. Insieme all’esperienza pittorica, tutte queste esperienze sono infatti esperienze dello stesso genere, nella misura in cui sono tutte esperienze come se fossero esperienze del loro soggetto. Vedo un quadro di un delfino, vedo davvero un delfino, scambio un’orca per un delfino, ho l’allucinazione di un delfino: in tutti questi casi ho sempre un’esperienza come di un delfino, mi è sembrato di vedere un delfino238.

Una conseguenza di questa idea è che, per questa versione della teoria riconoscitiva della raffigurazione, un trompe-l’oeil non riconosciuto come tale può essere qualificato, a differenza di quello che avveniva nella teoria del vedere-in di Wollheim (cfr. capitolo II), come un’immagine allo stesso titolo di tutte le altre. Esso innesca la stessa capacità di riconoscimento del suo soggetto che innescherebbe una qualsiasi altra esperienza di quel genere, compresa una normale esperienza pittorica in cui, come vuole Wollheim, si vede quel soggetto nell’immagine relativa direttamente e letteralmente vista. Per la versione matura della teoria riconoscitiva, l’esperienza duplice di vedere-in non è dunque più l’esperienza distintiva di immagine239.

Ma la versione matura della teoria riconoscitiva è ancora più liberale. Per innescare la capacità di riconoscimento che fa di un’immagine un’immagine non è necessaria neppure un’esperienza, sia pure dal carattere così ampio come quella appena descritta di avere un’esperienza come di un soggetto. Sembra infatti che si possa catturare il valore figurativo di un’immagine anche se non si ha una corrispondente esperienza pittorica, come alcuni casi provenienti dalla letteratura neurologica paiono mostrare.

Consideriamo i soggetti eminegligenti, ossia quei soggetti che, tipicamente in seguito ad una lesione nell’emisfero destro del loro cervello, non percepiscono

consapevolmente quegli oggetti della realtà circostante che dovrebbero determinare il percetto nella parte controlaterale corrispondente del loro campo visivo, l’emispazio di sinistra. Il deficit in questione sembra riguardare prima di tutto la percezione di oggetti e addirittura la loro immaginazione mentale. Soggetti eminegligenti cui è stato richiesto di immaginare di trovarsi di fronte al duomo di Milano hanno descritto soltanto la parte destra della facciata del duomo, come se la loro immagine mentale del duomo visto di fronte contenesse solo elementi inerenti a quella parte; esattamente come soggetti del genere avrebbero fatto se si fossero trovati direttamente di fronte al duomo, perché il loro campo visivo, nell’emispazio di sinistra, non conterrebbe alcun percetto corrispondente alla parte sinistra della facciata240. Ma tale deficit sembra riguardare

anche la percezione di immagini. Se i soggetti in questione si trovano di fronte non ad oggetti ma alle loro immagini, anche di queste sembrano percepire consapevolmente soltanto la parte destra, come risulta dai loro resoconti o dai disegni che fanno di ciò che sentono di vedere. Si vedano le figure seguenti, che contengono a sinistra delle immagini e a destra gli schizzi fatti a partire da tali immagini da soggetti eminegligenti cui si richiede di riportare la loro percezione cosciente di quelle immagini.

Fig. 2 – Disegni di soggetti eminegligenti

Ora, la cosa interessante ai nostri fini è che alcuni di questi pazienti sembrano in realtà percepire comunque quelle immagini, o parti di immagini, che non sono consapevoli di vedere. In un famoso esperimento, a soggetti del genere è stata presentata la seguente immagine, in cui le due figure di case sono diverse solo per la parte sinistra – nel secondo caso, la parte sinistra della casa raffigurata è in fiamme.

Fig. 3 – Il caso della ‘casa in fiamme’

Coerentemente col loro deficit, i soggetti in questione dicono di non vedere alcuna differenza tra le due figure; la differenza in questione tra di esse corrisponde infatti alla parte non rappresentata nel loro campo visivo. Tuttavia, se viene loro richiesto in quale delle due case raffigurate preferirebbero vivere, essi rispondono invariabilmente la prima, la casa non in fiamme; come se essi recepissero, sia pure in forma non cosciente, la differenza tra le due figure241. Se questi esperimenti sono corretti, il teorico del

riconoscimento può ben dire che la capacità di riconoscimento di un soggetto che è messa in gioco anche da un’immagine di quel soggetto può essere innescata da quell’immagine anche in modo non cosciente242.

Fermiamoci adesso a riflettere sulle ultime cose che abbiamo detto. Prima di tutto, è evidente che, se tutte queste differenti esperienze, veridiche e non, innescano la capacità di riconoscimento di un determinato soggetto dell’immagine, l’innescare quella capacità non è sufficiente a caratterizzare la pittorialità dell’immagine, contro le intenzioni di Lopes che, come abbiamo visto, pone quella capacità come condizione necessaria della raffigurazione e dunque come condizione necessaria e sufficiente di pittorialità. Come s’è detto, quella capacità viene innescata anche quando si scambia qualcosa per qualcos’altro; prima di tutto nel caso dei trompe-l’oeils non riconosciuti come tali, ma anche in casi che non hanno almeno a prima vista a che fare con la pittorialità. Se Carneade scambia una corda per un serpente, ciò vuol dire che la corda gli innesca la stessa capacità ricognitiva che la percezione veridica di un serpente gli innescherebbe. Ma certo la corda non è un’immagine di un serpente.

Il teorico del riconoscimento deve dunque indicare qual è il modo specifico in cui un’immagine innesca la capacità di riconoscimento del suo soggetto. Tale modo, inoltre, se i precedenti esperimenti neurologici sono corretti, dovrà essere indipendente dal fatto che l’immagine venga esperita nel suo valore raffigurativo, che cioè sia accompagnata da un’esperienza pittorica cosciente. Del resto, che ci debba essere una specificità del genere è indubbio. Nei loro veicoli le immagini sono entità bidimensionali, mentre i loro soggetti sono entità tridimensionali. Come può qualcosa di bidimensionale innescare esattamente la stessa capacità di riconoscimento di un soggetto tridimensionale che quel soggetto medesimo innescherebbe? Certo, come sappiamo da lungo tempo, in seguito alla percezione di un’entità tridimensionale si

produce nella retina una copia bidimensionale (e rovesciata) di quell’entità, per cui si potrebbe supporre che il dato di ingresso nell’elaborazione percettiva sia uguale, sia che esso abbia che fare con un oggetto tridimensionale sia che esso abbia che fare con una sua immagine bidimensionale (a patto ovviamente che l’immagine bidimensionale abbia

grosso modo la stessa altezza e larghezza del suo soggetto tridimensionale). Ma tale

identità di stimolo prossimale non basta a fare delle due procedure riconoscitive, quella attraverso l’immagine e quella attraverso il soggetto, la stessa procedura. Rispetto a un oggetto tridimensionale possiamo girargli intorno e riconoscerlo sempre come lo stesso oggetto attraverso la diversità di aspetti che ci presenta. Invece, non solo l’immagine bidimensionale di quell’oggetto ci è data assumendo soltanto certe prospettive, quelle frontali o laterali, nei confronti del veicolo dell’immagine, ma quell’oggetto è dato in immagine soltanto da un unico aspetto243; come ben sanno tutti quelli che, pur

spostandosi rispetto a un ritratto, si sentono sempre osservati dall’oggetto in esso ritratto, quasi questi tenesse un occhio fisso su di loro. Provate ad entrare in un autogrill che esponga La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano con la sua famosa copertina:

Fig. 4 – Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi (copertina)

Non a caso, perché si possa parlare davvero dell’innesco di una medesima capacità di riconoscimento sia per l’immagine sia per il suo soggetto, bisogna com’è noto immaginare condizioni di esperienza astratte in cui, una volta bloccata la prospettiva in modo da venir meno la possibilità di girare intorno al soggetto dell’immagine, non si possa distinguere l’immagine dal suo soggetto – tipicamente, quando guardiamo l’immagine attraverso un foro244. Dunque il vecchio problema ritorna: come si può

riconoscere un oggetto anche dalla sua immagine, in maniera tale che questo riconoscimento sia un effettivo riconoscimento, cioè una genuina procedura cognitiva, pur senza essere identico al riconoscimento che di quell’oggetto si ha quando questo si presenta in carne ed ossa?245

Per molto tempo, Lopes non sembra esser stato particolarmente colpito dalla questione. Proprio il fatto che possiamo riconoscere un oggetto sempre come la stessa cosa nella variazione dei suoi modi di presentazione mostra la flessibilità delle nostre capacità ricognitive. Queste capacità sono così flessibili da consentirci di effettuare tale

riconoscimento sia che l’oggetto venga dato in carne ed ossa, quindi in tre dimensioni, sia attraverso una sua immagine, quindi in due dimensioni; in quest’ultimo caso semplicemente estendiamo ulteriormente le nostre capacità ricognitive246. Che cosa

consenta di compiere il riconoscimento entro tali modalità è qualcosa che ha evidentemente a che fare col nostro sistema cognitivo; quindi è compito degli scienziati cognitivi investigarlo247.

Ma, anche ammesso che noi siamo dotati di strutture cognitive così flessibili da consentire il riconoscimento di qualcosa in condizioni molto diverse, il nostro problema di partenza – come catturare a partire dalla generica capacità di riconoscimento di qualcosa lo specifico della pittorialità – non è risolto. Che cosa consente tale riconoscimento a partire proprio da un’immagine, in modo tale che l’innesco di tale capacità – in modo consapevole o meno – da parte di un’immagine la renda per l’appunto un’immagine del suo soggetto?

Non resta che andare a guardare meglio che cosa succede quando percepiamo un oggetto per capire le differenze rispetto a quando percepiamo solamente la sua immagine. Le scienze cognitive, sostiene tra gli altri Mohan Matthen, ci mostrano che la percezione di un oggetto è la risultante di due componenti, che hanno una differente realizzazione nelle aree visive del nostro cervello. La prima è la componente

identificativa, che consente per l’appunto di distinguere l’oggetto dalle altre cose

circostanti e di identificarlo come la cosa che è (tipicamente ma non necessariamente, attraverso una connotazione descrittiva, quindi in modo concettuale; come quando, per tornare a un esempio precedente, diciamo “un delfino” in presenza di delfini)248. La

seconda è la componente di guida motoria, che consente di afferrare l’oggetto in questione attraverso l’invio agli arti motori di opportuni comandi prensili. Le due componenti sono implementate in aree visive diverse del cervello – la prima implementazione prende la cosiddetta via ventrale, in quanto viaggia dal lobo occipitale al lobo temporale del cervello, la seconda la cosiddetta via dorsale, che sempre dal lobo occipitale va verso il lobo parietale e da qui a quello frontale. Questa differente implementazione spiega perché tali componenti si possono perdere selettivamente, come accade nei soggetti che soffrono di agnosia visiva – interagiscono dal punto di vista motorio con oggetti che non sanno più riconoscere – e quindi hanno una percezione ’dorsale’ e non ‘ventrale’, o al contrario nei soggetti che soffrono di atassia visiva – identificano oggetti con cui non sanno interagire dal punto di vista motorio – a causa di lesioni che interessano la via dorsale ma non quella ventrale. Ma anche in assenza di situazioni che mettano a rischio la loro implementazione, tali componenti della percezione possono agire in modo diversificato, con la componente di guida motoria che interviene a correggere la componente identificativa nei casi delle cosiddette illusioni cognitive già ricordate. Per esempio, nel caso (già menzionato nel capitolo IV) dell’illusione di Müller-Lyer, sebbene un individuo percipiente non possa fare a meno di identificare le due linee che percepisce come aventi una lunghezza diversa, tuttavia nel suo gesto di prensione compie la stessa apertura delle dita nei confronti di entrambe le linee249.

Nel caso della percezione di immagini, continua Matthen, nei confronti del soggetto dell’immagine viene attivata solo la componente identificativa. La componente

di guida motoria rimane inerte. Questo spiega perché, a differenza di quel che avviene quando percepiamo un oggetto realmente presente, nel caso della percezione di una sua immagine non proviamo una sensazione di presenza dell'oggetto, o perlomeno una sensazione di presenza dello stesso tipo; quando abbiamo a che fare con la percezione di immagine di questo soggetto di cui sappiamo (almeno se l’immagine non ci inganna, come in un genuino caso di trompe-l’oeil) che non è laddove noi ci troviamo250,

l’oggetto è per noi, come alcuni direbbero251, solo metaforicamente o artificialmente

presente, o almeno, come altri affermerebbero (in modo peraltro un po’ paradossale), è sì presente ma come assente252. Se in tale percezione di immagine è attivata una

componente di guida motoria, questa concerne non il soggetto dell’immagine, ma il suo veicolo. Se facciamo un gesto prensile, questo è conforme ad afferrare il veicolo dell’immagine, non il suo soggetto. La percezione di immagine dunque vedrebbe tanto l’attivazione della componente identificativa quanto quella della componente di guida motoria, ma in relazione a cose diverse: rispettivamente, al soggetto e al veicolo dell’immagine. Ciò avverrebbe sia che tale percezione sia cosciente, sia che – come nei casi di neglect precedentemente visti – sia incosciente253.

Con tutti questi elementi, sembra che la versione matura della teoria riconoscitiva della raffigurazione possa risolvere il problema precedentemente esposto di come la specifica forma di riconoscimento in immagine di un soggetto ne spieghi la pittorialità254. Tanto la percezione di un’immagine quanto quella del suo soggetto

possono innescare la stessa capacità ricognitiva di quel soggetto, in quanto in entrambe è attiva la componente identificativa relativa al soggetto. Il modo in cui però la percezione di un’immagine innesca tale capacità è peculiare alla percezione di immagine, perché, a differenza di quanto avviene nella percezione veridica del soggetto di un’immagine, ma in realtà anche in quella non veridica di tipo illusorio o allucinatorio, il soggetto viene solo identificato attraverso la componente per l’appunto identificativa della percezione, ma non viene trattato come presente dalla componente di guida motoria; quest’ultima componente della percezione si applica piuttosto al veicolo dell’immagine. Ecco dunque come l’innesco della capacità ricognitiva può avere una sua specificità nel caso delle immagini e render così conto della loro pittorialità.

Una risposta di questo genere, però, non fa che risollevare il problema di fondo della teoria riconoscitiva, già avanzato nei confronti della versione difesa da Schier255.

Messe le cose in questo modo, ciò che per la teoria riconoscitiva fa di un’immagine un’immagine sono le nostre capacità ricognitive, in un modo molto impegnativo. Se queste capacità cambiassero, non sarebbero più immagini cose che di fatto troviamo tali, e al converso, sarebbero immagini cose che di fatto non troviamo tali. Certo, la prima opzione è accettabile nel quadro di un paradigma percettivista sulla raffigurazione, cui la teoria riconoscitiva appartiene. L’assunto di fondo di tale paradigma è che in un mondo possibile in cui non ci fossero soggetti percipienti non ci sarebbero immagini; la teoria riconoscitiva non fa che dire che in un mondo di animali percipienti ma non dotati delle nostre capacità ricognitive – un mondo di soli pesci, poniamo – non ci sarebbero immagini256. Ma la seconda opzione è molto più discutibile. È difficile comprendere la

possibilità che una rappresentazione verbale, che di fatto non è una rappresentazione pittorica, sia recepita da individui dalle capacità cognitive anche più articolate delle

nostre in modo che essa inneschi il riconoscimento del suo soggetto, così come esso di fatto lo innesca con una sua immagine reale, di modo che quella rappresentazione valga come un’immagine; ed è così difficile perché molto probabilmente questo esperimento mentale non presenta una possibilità genuina257. Non è la mente che deve cambiare per

poter far valere come pittorica una rappresentazione verbale, come l’esperimento mentale in questione vorrebbe; casomai, è tale rappresentazione che deve essa stessa

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