• Non ci sono risultati.

La teoria della somiglianza come mera somiglianza ‘esperita come’ Precisiamo subito perché questa nuova versione della teoria della somiglianza

Nel documento Immagine (pagine 61-68)

Percepire somiglianze

3. La teoria della somiglianza come mera somiglianza ‘esperita come’ Precisiamo subito perché questa nuova versione della teoria della somiglianza

soggettiva non è una versione, neppure camuffata, di una teoria della somiglianza oggettiva. Come già sappiamo dal secondo capitolo, in generale vedere qualcosa come

F non implica vedere che quel qualcosa è F e dunque che quel qualcosa sia F. Così,

vedere una rappresentazione come simile (in un rispetto) al suo soggetto non implica vedere che quella rappresentazione sia simile (in quel rispetto) al suo soggetto, e dunque che quella rappresentazione sia simile (in quel rispetto) al suo soggetto.

L’autore che attualmente difende questa versione nel modo più articolato è Robert Hopkins201. Hopkins riprende la nozione di forma di contorno di cui abbiamo

parlato nel I capitolo, quella forma bidimensionale che si determina a partire dal contorno tanto dell’immagine quanto del suo soggetto in relazione ad un certo punto di vista e che permette di sottendere, da quel punto, un angolo solido a quel contorno. Se questa idea, di derivazione albertiana come abbiamo già allora ricordato, permette di difendere una versione sofisticata della teoria della somiglianza oggettiva, consente altresì di difendere la presente versione della teoria della somiglianza soggettiva. La tesi di Hopkins è che un’immagine I raffigura il suo soggetto S solo se essa è vista come simile in forma di contorno a S. Il che per l’appunto non implica che essa sia effettivamente simile al suo soggetto in tale forma, come vorrebbe un teorico della somiglianza oggettiva che facesse perno sulla nozione di forma di contorno come il rispetto giusto di somiglianza (cfr. capitolo I)202.

La proposta di Hopkins si incarica di risolvere i problemi che la versione della teoria della somiglianza soggettiva come somiglianza tra esperienze aveva sollevato. Prima di tutto, non c’è più il problema di trovare un secondo termine per la relazione di somiglianza nel caso delle immagini di non esistenti (non esistenti tout court, non più esistenti, o semplicemente non disponibili all’individuo che percepisce l’immagine). In quella versione, si ricorderà, la percezione del veicolo dell’immagine doveva essere simile alla percezione possibile dell’inesistente soggetto dell’immagine e quindi postulare una siffatta percezione possibile, con tutti i problemi ontologici che ciò comporta. Secondo la presente versione, invece, si può vedere un’immagine come simile (in forma di contorno) a un soggetto inesistente senza che ciò richieda la postulazione ontologica né di quel soggetto né della percezione di esso; esattamente come il fatto che vedere Penelope Cruz come una sirena significa sì che vi sia Penelope, ma non che vi siano sirene, neppure inesistenti, bensì solo che si vede Penelope in modo sirenico203.

In secondo luogo, il problema delle immagini che non seguono la prospettiva classica è a sua volta risolto. Dal momento che vedere un’immagine come simile in forma di contorno al suo soggetto non richiede, come abbiamo visto, che l’immagine sia effettivamente simile in forma di contorno a tale soggetto, nei casi di pittura che a noi appare non realistica, come il dipinto egizio di uomini al lavoro, possiamo vedere tale dipinto come simile in forma di contorno a quegli uomini senza che vi sia alcuna effettiva similarità del genere tra il dipinto e quegli uomini204.

Curiosamente, Hopkins non sembra applicare questa soluzione al caso delle caricature, preferendo qui una soluzione alla Peacocke. Se vediamo una caricatura di Tony Blair come simile in forma di contorno all’opportuna distorsione di Blair, allora vi sarà effettiva somiglianza in tale forma tra l’immagine e quella distorsione205. In

generale, Hopkins sembra suggerire che in molti dei casi problematici, entrambe le soluzioni – vedere l’immagine come simile in forma di contorno al suo soggetto sebbene essa non lo sia effettivamente, oppure vedere l’immagine come simile in forma di contorno a qualcosa che le è effettivamente simile sotto quel parametro, e cioè un’opportuna modificazione del suo soggetto – sono possibili206.

La seconda soluzione però sembra avere degli svantaggi. Precedentemente, abbiamo visto che l’analoga soluzione di Peacocke al problema delle caricature svincola implausibilmente l’intenzionalità dalla pittorialità di un’immagine: l’immagine ha valore figurativo in quanto immagine di un soggetto (la distorsione di Berlusconi) che non è quanto rappresenta, ciò di cui è immagine (Berlusconi). Lo stesso problema sembra ritornare con Hopkins, in quanto questa soluzione non sembra a sua volta quadrare con quella che secondo lui è l’altra condizione necessaria (e insieme, congiuntamente sufficiente) di raffigurazione: la condizione che deve spiegare l’intenzionalità della raffigurazione e cioè il suo valore rappresentativo, ossia dare le condizioni necessarie e sufficienti per il fatto che la raffigurazione verta su qualcosa e/o abbia un certo contenuto. Così infatti Hopkins dà le condizioni necessarie e sufficienti di raffigurazione: un’immagine I raffigura il suo soggetto S se e solo se: i) S è visto in I; ii) la spiegazione di (i) è che I è causalmente relato nel modo giusto a S207. Ora, la

condizione i), quella relativa alla pittorialità della raffigurazione, richiama in causa proprio il vedere-in wollheimiano (cfr. capitolo II); ma l’esperienza di vedere-in è intesa da Hopkins nei termini già visti dell’esperienza dell’immagine come simile in forma di contorno al suo soggetto. La condizione ii), quella relativa all’intenzionalità della raffigurazione, è a sua volta una riformulazione delle condizioni di correttezza dell’immagine attribuite ad essa da Wollheim (cfr. capitolo II); se Wollheim però si limitava a sostenere che la correttezza dell’immagine, ciò che rende l’immagine immagine di un certo soggetto e non di un altro, consiste solo nelle intenzioni autoriali, Hopkins allarga tale correttezza alla possibilità che l’autore dell’immagine sia anche in una certa relazione causale con tale soggetto. Ebbene, la condizione ii) presuppone che

nell’immagine si possa vedere proprio il soggetto dell’immagine – in particolare, è

quanto si può vedere nell’immagine che è connesso da una specifica relazione causal- intenzionale all’immagine stessa – non un’altra cosa. Ma allora, nel caso delle caricature avremo nuovamente che ciò per cui sono raffigurazioni non sono ciò per cui sono rappresentazioni, perché ciò che è visto nella caricatura (la deformazione di Berlusconi o quella di Blair) non è ciò su cui la caricatura verte (Berlusconi o Blair medesimi). Il che come già sappiamo è implausibile, perché anche nel caso delle caricature vogliamo che quanto è visto nella caricatura sia proprio il soggetto che si vuole prendere caricaturisticamente in giro (Berlusconi, Blair), non una sua opportuna deformazione. La caricatura infatti riesce in quanto si può vedere in essa l’individuo che ne sta all’origine, ciò che il suo autore vuol far vedere in essa.

L’unica strada per Hopkins per liberarsi da questi problemi con la sua interpretazione del caso delle caricature è svincolare decisamente tale interpretazione da quella di Peacocke e fornire piuttosto una rilettura dell’interpretazione di Budd allo stesso problema. Ciò comporta il far collassare la sua seconda soluzione al caso delle caricature sulla prima: anche nel caso di una caricatura la sua figuratività consisterà nel vederla come simile al suo soggetto inteso, anche se di fatto non lo è. Come abbiamo visto, per Budd una caricatura non raffigura un soggetto non inteso – il soggetto distorto – ma raffigura in modo distorto il soggetto inteso. Dal momento che Hopkins non è più vincolato a dover rendere conto, come Budd, di come una raffigurazione distorta può determinare una somiglianza di esperienza con l’esperienza del soggetto inteso, egli può riformulare questa interpretazione nei termini che la caricatura è un mero caso in cui la raffigurazione è una cattiva rappresentazione, cioè rappresenta il soggetto come esso

non è. Così anche nel caso della caricatura, si esperirà sempre la pittura come simile in

forma di contorno al soggetto inteso, senza che tale somiglianza in realtà ci sia. Semplicemente, grazie alle sue deformazioni, la caricatura rappresenta quel soggetto come avente tutta una serie di proprietà che esso in realtà non ha. Berlusconi è piccolo, ma non così piccolo come la caricatura lo disegna; è calvo, ma non così calvo come la caricatura lo disegna, e così via208.

Anche ammesso che caricature e raffigurazioni non realistiche non costituiscono controesempi alla teoria di Hopkins, per alcuni, come Lopes, resta che tale teoria non fornisce comunque condizioni necessarie di raffigurazione. Ci sono casi in cui facciamo esperienza della somiglianza-come in forma di contorno dell’immagine al suo soggetto

solo dopo aver già riconosciuto il valore figurativo dell’immagine. Si pensi al caso già

ricordato (capitolo II) dell’immagine del dalmata. Improvvisamente, in un certo intrico di linee e macchie in bianco e nero riconosciamo un dalmata e quindi il valore figurativo dell’immagine. Ma certo è solo dopo questo riconoscimento che esperiamo quell’intrico come somigliante in forma di contorno ad un dalmata. Ora, indubbiamente, l’immagine del dalmata è un’immagine. Ma, in base a quanto si è appena detto, non è un’immagine in virtù di una particolare esperienza di somiglianza209.

Hopkins può però sbarazzarsi agevolmente di questo preteso controesempio. Per vedere ciò, occorre considerare due elementi. In primo luogo, ritorniamo al fatto che anche Hopkins si pone come altri il problema di render conto nella propria teoria della teoria del vedere-in di Wollheim. Per Hopkins, l’esperienza di vedere-come che costituisce secondo questa versione della teoria della somiglianza soggettiva la condizione necessaria di raffigurazione è proprio il modo corretto di intendere l’esperienza fenomenologicamente sui generis di vedere-in difesa da Wollheim, un’esperienza percettiva che ha però una sua specificità fenomenologica tale da distinguerla dalle percezioni ordinarie, nella fattispecie tanto da una mera percezione del veicolo dell’immagine quanto da una mera percezione del soggetto dell’immagine. In altri termini, vedere un soggetto in un’immagine è per Hopkins esperire l’immagine come simile in forma di contorno a quel soggetto, come abbiamo visto al punto i) della sua precedente definizione di raffigurazione. In secondo luogo, a differenza che in altre, già ricordate interpretazioni del vedere-in (vedi III capitolo), questa teoria non vuole spiegare in termini di vedere-come in che cosa consiste l’aspetto riconoscitivo del

vedere-in, l’esperienza indiretta del soggetto dell’immagine, ma vuole dare in quei termini una spiegazione dell’esperienza di vedere-in nel suo complesso. Infatti, secondo Hopkins, a parlare propriamente, nell’esperienza di vedere-in i due aspetti postulati da Wollheim, quello riconoscitivo e quello configurativo, non ci sono. Se ci fossero davvero, poiché il contenuto che è loro attribuito è radicalmente differente – l’aspetto configurativo è una percezione diretta del veicolo dell’immagine, l’aspetto riconoscitivo è un’esperienza indiretta del soggetto dell’immagine – non sarebbe possibile che l’esperienza di vedere-in avesse quel carattere fenomenologicamente unitario che Wollheim le attribuisce210.

Con questi due elementi in mano, Hopkins può allora trattare facilmente il caso dell’immagine del dalmata. Il riconoscimento del dalmata che porta a cogliere il valore figurativo dell’immagine in questione altro non è che un vedere un dalmata nel dipinto. Improvvisamente, l’immagine innesca quel tipo di esperienza che abbiamo normalmente e immediatamente guardando fotografie e quadri; la sua superficie viene a un tratto esperita in modo trasfigurato entro quella che è un’esperienza fenomenologicamente sui generis di vedere-in. Questo improvviso vedere-in significa esattamente che il dipinto è improvvisamente visto come simile in forma di contorno a un dalmata, perché quest’esperienza di similarità è ciò in cui il vedere-in per definizione consiste. Probabilmente, un individuo che riconoscesse il dalmata nel dipinto non sarebbe disposto a dire che vede il dipinto come simile in forma di contorno a un dalmata. Ma ciò che conta è quello in cui l’esperienza di vedere-in consiste, non che cosa coloro che hanno quell’esperienza direbbero al riguardo.

I controesempi però non finiscono qui. Fornire condizioni necessarie di raffigurazione nei suddetti termini di vedere-come vuol dire, lo si è detto, fornire condizioni necessarie e sufficienti di pittorialità, del valore figurativo di un’immagine. Ora, la risposta appena considerata di Hopkins può ben mostrare che vedere un’immagine come simile in forma di contorno al suo soggetto fornisce condizioni necessarie di pittorialità. Ma, si può obiettare, non fornisce condizioni sufficienti. Si può esperire un’immagine come simile a qualcosa in forma di contorno e tuttavia non è questo quel che fa dell’immagine l’immagine di un tale qualcosa. Torniamo al caso delle immagini ambigue considerato nel capitolo precedente, il caso in cui certe figure possono essere viste ora in un certo modo, come un certo soggetto, ora in un altro modo, come un altro soggetto. In tal caso, abbiamo a che fare con un differente valore pittorico di una stessa figura nella misura in cui quest’ultima può essere vista ora in un modo, ora in un altro, in maniera tale che a tali differenti modi di vedere corrisponde uno slittamento fenomenologico – il carattere fenomenico delle due esperienze di vedere- come è diverso, le due esperienze fanno un differente effetto a chi le prova. Tuttavia, in tal caso a questo slittamento fenomenologico che determina differenti valori pittorici corrisponde sempre una e una stessa esperienza di vedere la figura come simile in forma di contorno a qualcosa. Se abbiamo a che fare con un quadro di Arcimboldo, non vediamo sempre il quadro a partire dallo stesso punto di vista, proiettando quindi a partire da esso lo stesso angolo solido sul soggetto raffigurato, sia che vediamo il quadro come un gruppo di frutta e verdura, sia che lo vediamo come una faccia?

Dunque non è l’avere un’esperienza di somiglianza in forma di contorno che cattura la pittorialità di un’immagine211.

Secondo Hopkins, però, proprio il fatto che nel riconfigurare le due esperienze di vedere-come ricostruiamo in modo diverso i rapporti di figura-sfondo rispetto al veicolo iconico che ci si pone dinanzi fa sì che possiamo in realtà dire che nei due casi abbiamo proprio due diverse esperienze di somiglianza-come. Prendiamo il caso dell’immagine ambigua del cubo di Necker in cui, a seconda di come si configurano rispetto all’immagine vista i rapporti di figura-sfondo, un individuo vede l’immagine in questione ora come un cubo con una certa faccia antistante, ora come un altro cubo con un’altra faccia antistante.

Fig.2 – Cubo di Necker

Ora non c’è dubbio che, se i due cubi in questione esistessero davvero come distinti oggetti tridimensionali, essi avrebbero forme di contorno differenti; dati i differenti rapporti tra le loro rispettive facce prospicienti e non prospicienti, da uno stesso punto di vista si potrebbero tracciare ad essi differenti angoli solidi. Ebbene, secondo Hopkins questo legittima il dire che nel caso dell’immagine ambigua del cubo di Necker vediamo la figura in questione ora come simile in forma di contorno al primo cubo, ora come simile in forma di contorno al secondo cubo. Certo, al cambiamento fenomenologico legato ai due modi di vedere la figura corrisponde un cambiamento di valore figurativo dell’immagine. Ma tale cambiamento fenomenologico è effettivamente catturato dalle due differenti esperienze di ‘somiglianza-come’212.

Il problema è che questa risposta non sembra valere in tutti i casi. Prendiamo la seguente terna di immagini. In questa terna, vediamo senz’altro l’immagine a sinistra come una faccia. Ma, data la differente distribuzione lungo la superficie di macchie bianche e nere e di linee di contorno, altrettanto certamente non vediamo l’immagine a destra come una faccia (casomai, la vediamo come un arcipelago); non è chiaro che cosa succeda con l’immagine centrale (forse la vediamo ora come una faccia, ora come un arcipelago). Ebbene, dal momento che relativamente alle tre immagini i rapporti figura-sfondo restano costanti, in tutti e tre i casi facciamo la stessa esperienza di somiglianza: se vediamo la prima immagine come simile in forma di contorno a una faccia, questo vale anche delle altre due. Abbiamo così uno slittamento fenomenologico

tra il vedere la prima figura come una faccia e il non vedere così la terza figura che è responsabile della loro differenza in valore figurativo; ma l’esperienza di somiglianza in forma di contorno resta la stessa per quelle figure. Dunque, la pretesa esperienza di somiglianza non rende conto del valore figurativo di un’immagine213.

Fig. 3 – Versioni positiva, negativa e di contorno di un modello chiaroscurale Certamente, Hopkins potrebbe anche qui negare che vi sia una stessa esperienza di ‘somiglianza-come’ che resta costante nei tre casi, ma non è chiaro come potrebbe trattare una simile differenza esperienziale. Certo questa differenza non può essere imputata a pretese differenti forme di contorno proprie dei soggetti rappresentati che indurrebbero differenti esperienze di somiglianza in forma di contorno, come nel caso delle immagini ambigue visto in precedenza. La differenza dovrebbe stare allora dal lato delle immagini, ma non è chiaro quale differente caratteristica delle tre immagini possa essere qui pertinente.

D’altronde, sembra difficile negare che caratteristiche proprie delle immagini devono essere rilevanti ai fini delle esperienze di ‘somiglianza-come’ che le coinvolgono. Se le immagini non ponessero alcun vincolo al riguardo, si darebbero casi che, analogamente a quanto visto nel capitolo II a proposito dell’esperienza di vedere- in, renderebbero del tutto arbitraria l’esperienza di somiglianza-come che qualcuno avesse in relazione all’oggetto visivamente disponibile in tali casi. Di conseguenza, l’avere una siffatta esperienza difficilmente garantirebbe l’attribuzione di un carattere figurativo a tale oggetto; detto altrimenti, ancora una volta tale esperienza non è condizione sufficiente di pittorialità. Lopes fa un esempio di questo tipo. Supponiamo che qualcuno, in seguito all’ingestione di droghe, posto di fronte ad una spirale abbia un’esperienza allucinatoria in cui vede questa spirale come simile in forma di contorno a Enrico VIII. Certo non vorremmo dire che tale spirale è un’immagine di Enrico VIII, e neppure lo diremmo qualora l’individuo in questione volesse effettivamente trattare quella spirale come immagine di Enrico VIII perché, conformemente alla condizione ii) di raffigurazione di Hopkins, vuole che si veda Enrico VIII in essa214. Ma quali sono

allora le caratteristiche dell’immagine che devono porre vincoli a ciò per cui essa può essere esperita come simile (in forma di contorno) al suo soggetto? O questi vincoli

hanno piuttosto a che fare, come alcuni sostengono, con le capacità percettive degli individui che percepiscono immagini?

VI capitolo

Nel documento Immagine (pagine 61-68)