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Renzini alta Norcineria e Gastronomia

5.6. Scenari futur

Ciò che è stato interessante constatare è l’apertura che l’ultima generazione a capo della famiglia ha mostrato di avere nei confronti dei cambiamenti attuati. Un investimento a titolo di debito in genere è meno destabilizzante per un’impresa familiare rispetto ad un investimento in equity in quanto non si ha l’entrata di un socio terzo nel capitale sociale e di conseguenza la sua influenza sulle decisioni finali non è diretta. Ciò non significa che gli obiettivi futuri non siano ambiziosi, tutt’altro. Significa fare il primo grande passo in

138 avanti consci del proprio passato e con le idee chiare su quali sono le prerogative per far perdurare ancora negli anni avvenire il valore dell’azienda. Significa non rimanere ancorati ai soli successi passati ma partire da quelli per affermarsi in un mercato in continua evoluzione e che non lascia spazio a chi invece non ha l’ingegno di guardare al domani.

La Renzini S.p.A. è sempre stata un’azienda familiare padronale che guarda al futuro. L’affermazione che ha avuto fino ad oggi è dovuta all’acuto spirito imprenditoriale e di iniziativa promosso dalla famiglia che, seppur basandosi sul suo intuito e sulla sola esperienza nel settore, ha saputo cogliere ogni buona opportunità che gli si presentava davanti anticipando spesso la mossa vincente.

Sarebbe un’utopia dire che non ci sia stato alcun trauma nel passaggio dall’azienda di tipo padronale ad una ti tipo manageriale, soprattutto da parte di Dante che, nonostante la sua età, è ancora parte integrante dell’organizzazione ed ha, forse, vissuto questo cambiamento come un indietreggiamento rispetto alle sue convinzioni. Nonostante questo, da buon imprenditore quale è sempre stato, lascia piena autonomia ai figli, consapevole che sono loro il futuro della Renzini e che spetterà a loro un giorno seminare e raccogliere il frutto del tanto impegno prestato negli anni.

Quando si è presentata l’opportunità di avere un sostegno da parte di un investitore c’è ovviamente stato un confronto familiare nel quale si è preso consapevolezza che una volta realizzata l’operazione, la gestione sarebbe stata condivisa secondo criteri metodici. Le decisioni che fino ad allora venivano prese nei corridoi aziendali sarebbero dovute essere filtrate, decantate e condivise. Ma questo non scoraggia affatto, anzi, viene visto come un’occasione da portare a proprio vantaggio; un aiuto che avrebbe consentito di intraprendere un cammino diverso, aperto al confronto con professionisti in grado di offrire competenze concrete, stimoli, punti di vista diversi e più avveduti. Renzini fa parte di quelle imprese familiari di successo, leader di mercato che lavora a livello internazionale e vive la cultura dell’innovazione. Per sopravvivere ad avere successo nel tempo Renzini ha imparato a sviluppare ed aggiornare le proprie strutture ed arrivata a questo punto della sua storia ha compreso quanto sia indispensabile dotarsi di elevatissime competenze manageriali che non si possono trovare in famiglia. Sia Franco che Federico, come lo stesso Dante, hanno maturato la loro esperienza professionale solo all’interno dell’azienda. L’esperienza è sicuramente un buon mezzo

139 di traino ma essendo limitata al solo contesto aziendale/familiare rischia di non essere più abbastanza. La consapevolezza della necessità del cambiamento è il primo segnale di una gestione corretta e fortunatamente questo requisito è presente in Renzini. Franco e Federico non si sono mai mostrati contrari ai cambiamenti suggeriti dall’investitore, al contrario, hanno accettato ogni proposta avanzata senza riserve. Questo non deve in alcun modo sorprendere. Renzini è un’azienda sui generis e dato che l’obiettivo ultimo è la quotazione in Borsa non è in alcun modo pensabile che gli effetti di questa operazione potessero procurare qualche scompenso. Ovviamente la strada da percorrere è ancora molta. Nonostante i contatti tra le parti siano state presi da tempo ormai, l’investimento è stato effettuato a febbraio del 2016, pertanto non si possono ancora mostrare i benefici che questa operazione ha apportato e sta tutt’ora apportando alla gestione.

I cambiamenti maturati fino ad ora sono stati, lo ripetiamo, in termini organizzativi, intraprendendo un processo di managerializzazione che prevede l’attribuzione di deleghe specifiche e dettagliate su funzioni di particolare rilevanza oltre alla creazione di un comitato esecutivo di direzione a cui vengono attribuiti incarichi e autorizzazioni da parte del consiglio di amministrazione.

Il consiglio, come la proprietà, sono rimasti immutati, ma la famiglia non ha avuto riserva alcuna ad accetta il diritto di veto da parte dell’assemblea degli obbligazionisti su decisioni di particolare rilevanza. È quindi auspicabile pensare che i cambiamenti futuri saranno ancora più marcati. Il consiglio di amministrazione assume ancora la strutturazione chiusa e limitante tipica delle piccole imprese familiari, ma a questo si provvederà presto. Sebbene la quotazione su AIM Italia non preveda requisiti formali e stringenti di corporate governance, deve essere prerogativa dell’impresa che intende quotarsi avere una governance robusta, trasparente ed equilibrata al fine di migliorare il processo di direzione e controllo della società. In altre parole potremmo dire che non esiste una formula di corporate governance standard per le società che intendono quotarsi su AIM Italia, ma spetta all’impresa, con l’aiuto dei propri advisor, e confrontandosi costantemente con il Nomad90, ricercare la soluzione più adatta

90 Il Nomad (che deve essere scelto dall’Emittente tra coloro che risultano iscritti in un apposito registro presso Borsa Italiana) è una figura centrale per AIM Italia avendo, tra l’altro, il compito di valutare

140 considerando le proprie peculiarità e la necessità di massimizzare l’efficienza e l’efficacia della gestione aziendale.

Se la corporate governance è un abito tagliato su misura, quello indossato adesso dall’azienda Renzini è un modello di prova, che andrà sicuramente rifinito e migliorato, ma che al momento permette di stendere basi consolidate per ritagliare in seguito un modello organizzativo e culturale appropriato alla specifica mission aziendale.

Concludo dicendo che la crescita di un’azienda non può basarsi solo su un’attenta politica di contenimento dei costi, su un ammodernamento della linea prodotti e su una continua innovazione produttiva; sono prerogative queste fondamentali per la creazione del valore ma che da sole non bastano, quanto meno non per raggiungere posizioni di leadership e di eccellenza. La crescita dell’azienda familiare deve passare da un’attenta e mirata evoluzione del rapporto famiglia-impresa, dove si tutela la continuità e dove la governance, la managerializzazione, l’ottimizzazione della strategia divengono tematiche centrali da cui non si può prescindere.

l’appropriatezza della società ai fini dell’ammissione al mercato, di supportarla nel mantenere un profilo adeguato di trasparenza informativa nei confronti degli investitori e di stimolare l’attenzione da parte della società al rispetto delle regole derivanti dall’essere quotata su AIM Italia, massimizzandone i benefici

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Conclusioni

Siamo arrivati al termine di questa trattazione. Di cosa abbiamo parlato? Di aziende familiari, di evoluzione del rapporto famiglia-impresa, di potenzialità di crescita, di capacità di saper sfruttare tali potenzialità per crescere e svilupparsi concretamente. L’Italia, non è certo una novità, è un paese a forte vocazione imprenditoriale, costituito in massiccia parte da imprese a prevalente controllo familiare. I dati Istat confermano queste congetture. Il 95% delle unità produttive italiane sono infatti microimprese (meno di 10 dipendenti) che impiegano 7,9 milioni di addetti. Nel 70% dei casi il controllo è esercitato da una persona fisica o da una famiglia, che gestisce l’impresa sulla base di una governance estremamente semplificata.

Il nostro tessuto industriale è quindi costituito in prevalenza da aziende caratterizzate dall’intersezione di due istituti chiave, la famiglia e l’impresa. Il passaggio da un’impresa di tipo tradizionale, caratterizzata da un maggior grado di chiusura nei confronti di soggetti esterni, ad una complessa non sempre è dato per scontato. Le best practice delle imprese familiari dovrebbero infatti prevedere la convivenza di tre istituti al loro interno, ovvero famiglia, proprietà e management. È del tutto comprensibile ed accettabile che un’impresa appena costituita o gestita dalla generazione immediatamente successiva veda l’esistenza di una certa confusione tra questi istituti oltre ad una duplicazione delle autorità e una sovrapposizione di ruoli. Al contrario, le generazioni successive non possono permettersi la stessa miopia organizzativa, è necessario invece che i tre sottosistemi inizino a distinguersi l’uno dall’altro divenendo quasi completamente indipendenti seppur fortemente correlati. Un’impresa aperta a competenze esterne di valore apportate da consiglieri indipendenti piuttosto che da management esterno, avrà sicuramente maggiore probabilità di realizzare una transizione (e quindi un passaggio da un’impresa tradizionale ad una complessa), di successo.

È sulla base di questi tratti caratterizzanti che le aziende che costituiscono il tessuto imprenditoriale italiano hanno il compito di favorire il doveroso processo di sviluppo e

142 cambiamento che deve vedere protagonista l’intero sistema economico nazionale, e per farlo potrebbero rivolgersi ad operatori specializzati quali gli investitori istituzionali. La sfida al cambiamento delle azienda familiari dovrebbe prevedere:

- Il mutamento della formula imprenditoriale che, se rimane immutata negli anni tra le varie generazioni, il rischio corso è quello che l’impresa venga gestita secondo un approccio di family first anziché di business first.

- Non radicare una cultura familistica; i modelli di governance più familiari, infatti, hanno un impatto positivo sulle performance soltanto laddove i legami familiari siano orientati al merito. Spesso l’imprenditore familiare tende ad inserire in azienda familiari che non detengono le adeguate attitudini per proseguire l’attività d’impresa quando invece quello che sarebbe necessario fare è “potare l’albero genealogico”.

- Aprire gli assetti di governance a soci e/o professionisti esterni, in quanto un’azienda familiare che vive una situazione di chiusura potrà svilupparsi solo se ha le risorse finanziarie e umane per cogliere le opportunità che il mercato le offre.

È indispensabile, quindi, la consapevolezza da parte della famiglia proprietaria dell’importanza di avviare un processo di managerializzazione che prevede sia l’inserimento nelle funzioni gestorie di manager professionisti esterni, sia l’adozione di strumenti manageriali.

- Cambiare l’approccio di gestione del rischio, che nelle aziende familiari tradizionali è improntato a caratteri di informalità e di scarsa programmazione/previsione. Domina il ricorso all’intuito e soprattutto all’esperienza del fondatore, spesso restio ad ascoltare idee di soggetti terzi, estranei alla famiglia. Il rischio che corrono spesso le aziende familiari è quindi quello di continuare ad assumere decisioni esclusivamente basate sull’esperienza passata. Quando un imprenditore ritiene di aver raggiunto un grado soddisfacente di risultati i processi di apprendimento non vengono più perseguiti dall’azienda. A ciò si aggiunge spesso una cultura aziendale forte, una tradizione e una storia che non vogliono essere scalfite né da manager esterni, né da eredi con ambizioni sulle attuali modalità di governo.

143 - Optare per forme alternative di finanziamento.

L’argomentazione sulle fonti di finanziamento di cui si avvalgono le imprese familiari può essere relativamente articolata e merita il dovuto approfondimento.

Generalmente le imprese familiari tendono, idealmente e psicologicamente, a preferire le tradizionali forme di finanziamento, quali immissione di capitale proprio (da parte dei membri della famiglia) e l’autofinanziamento, per l’esigenza di continuare a gestire l’impresa a livello familiare senza perderne il controllo. Queste due modalità, oltre a non essere sufficienti a coprire il fabbisogno finanziario di un’impresa, in particolare di una società che vuole intraprendere un percorso di crescita e sviluppo, in quanto le risorse dovrebbero avere una consistenza tale da finanziare tanto gli interventi di mantenimento quanto quelli di sviluppo, rischiano, in un’azienda familiare di apportare più problemi di quanti, in realtà, ne possono risolvere. Dal lato del capitale proprio, non sempre tutti i familiari sono disposti ad inserire risorse nel sistema, e questo potrebbe generare degli squilibri nella ripartizione delle quote di partecipazione, generando a sua volta, conflitti e tensioni. Inoltre, dal lato dell’autofinanziamento mediante una politica di ritenzione degli utili, non sempre questi sono sufficientemente elevati per raggiungere gli obiettivi previsti e, nel caso in cui la proprietà sia ripartita tra soci familiari attivi e non attivi, questi ultimi potrebbero pretendere la loro distribuzione alla chiusura dell’esercizio.

Il sistema economico italiano, abbiamo detto più volte, è in realtà costituito da aziende che sono eccessivamente dipendenti dall’indebitamento bancario quale unica fonte di finanziamento per promuovere la loro crescita ed il loro sviluppo, a discapito della patrimonializzazione d’impresa che non risulta quasi mai sufficiente a soddisfare le esigenze di finanziamento e che renderà a sua volta più rischiosa la posizione dei finanziatori. Questo contesto è aggravato dalla crisi finanziaria internazionale che ha avuto origine negli Stati Uniti, e che tutt’oggi contribuisce a marcare le criticità finanziarie delle PMI italiane a causa del conseguente fenomeno del credit crunch e delle regole Basilea che, nel regolare i rapporti tra banca e impresa, hanno disposto che per ottenere un finanziamento, una società deve avere determinati parametri di struttura del bilancio contabile. Sotto questo aspetto, se le imprese che sino ad oggi hanno

144 promosso il loro sviluppo ricorrendo all’indebitamento bancario, si vedono chiuso il rubinetto del credito, in assenza di un piano concreto di cambiamento nel reperire risorse finanziarie, la loro capacità di sopravvivenza sarà messa, sensibilmente, a repentaglio.

Tra i percorsi istituzionali più efficaci a risolvere il problema della inadeguata diversificazione delle fonti di finanziamento delle PMI italiane rientrano quelli che coinvolgono gli investitori istituzionali. L’intervento di un investitore istituzionale rappresenta una svolta cruciale nella vita aziendale grazie a rilevanti effetti che tali operatori sono in grado di produrre ai fini dello sviluppo e della managerializzazione del governo d’impresa. Il ruolo di questi soggetti è destinato a crescere significativamente nei prossimi anni, dato che le imprese cominciano ad apprezzare e ricercare l’importante apporto di risorse (manageriali, organizzative, commerciali, finanziarie, relazionali) che queste strutture sono in grado di fornire. Le imprese familiari, rompendo i tradizionali schemi di transizione imprenditoriale che in passato hanno portato a privilegiare forme di chiusura e di concentrazione del potere all’interno del clan familiare, stanno sempre più acquisendo la consapevolezza che lo sviluppo d’impresa e la governance aziendale sono fattori che vanno di pari passo e una loro inadeguata evoluzione può penalizzare, nel lungo andare, la creazione del valore.

Operatori di private equity e di private debt posso dare, quindi, un contributo determinante e costituire una valida alternativa al tradizionale indebitamento bancario da cui la PMI italiana è dipendente, soprattutto per quelle imprese che per volontà decidono di intraprendere un percorso che potrebbe consentirgli di toccare punte di eccellenza. Si parla di volontà e non di necessità perché un’impresa, soprattutto familiare, che è disposta ad intraprendere questo cammino è un’impresa che volontariamente decide di abbattere resistenze culturali e barriere psicologiche e di essere “addestrata” ad un modo diverso di fare impresa. È vero che un operazione di private equity e/o di private debt è utile, per non dire indispensabile, ad ottenere capitali e risorse finanziarie per rimanere competitivi sul mercato sia nazionale che globale (dato che non sempre le risorse finanziarie interne si dimostrano sufficienti a realizzare un processo di sviluppo) ma d’altra parte, è vero anche che un’azienda familiare è disposta a cambiare il proprio assetto strutturale, organizzativo e gestorio e sarà disposta allo

145 stesso tempo a condividere informazioni, idee e decisioni strategiche con soggetti esterni al proprio nucleo familiare o con soggetti diversi rispetto a quelli in cui ripongono un’assoluta fiducia, solo se hanno una maturità adeguata ad accettare il trauma e il cambiamento che verrà messo in atto. In particolare, ci deve essere una maturità culturale da parte dell’imprenditore (o degli imprenditori) che deve essere risoluto nel passare da “operatore diretto” a “leader di un team manageriale.” Avere questa maturità non significa aprire la struttura organizzativa aziendale a soggetti che, pur non avendo legami di sangue con la famiglia, vantano da anni con questa una relazione di fiducia, come un amico di famiglia o del fondatore, piuttosto che il commercialista o l’avvocato che da anni seguono le pratiche dell’azienda. Il raggiungimento di questa maturità presuppone la comprensione della vera essenza della managerializzazione, che non si manifesta solo distinguendo proprietà e management, ma consiste nell’introduzione di pratiche e strumenti orientati a nuovi metodi di gestione, già sperimentati da imprese di maggiori dimensioni, servendosi allo stesso tempo di manager dirigenti provenienti da altre realtà, diverse da quelle in cui opera l’impresa, che possono dare, con la loro esperienza tecnica e la loro professionalità, un forte apporto allo sviluppo e alla crescita aziendale.

Non deve affatto sorprendere che gli investitori preferiscono investire in imprese dinamiche, con tassi di crescita prospettivi e con obiettivi strategici ben definiti ed esplicitati. Tra le varie analisi condotte, quella delle risorse umane non è certo la meno importante. Nonostante l’impresa abbia un valido progetto di sviluppo e una struttura economico-finanziaria solida, se non dimostra la capacità di realizzare i cambiamenti tecnici e culturali richiesti dall’investitore, il rapporto fallirà sul nascere.

Possiamo quindi dedurre che la strategia di crescita e sviluppo realizzata da un’azienda può derivare da due diverse situazioni. Può scaturire dalla volontà dell’imprenditore, quindi dal suo impegno e dalla sua ambizione, oppure può essere una necessità imposta da condizioni esterne.

Nell’attuale contesto ambientale, dinamico e in continua evoluzione, segnato, oltre che dalla crisi finanziaria, anche dalla crescita e dal declino dei mercati, dalla crescita dei concorrenti e dei clienti, dal processo di globalizzazione, molte imprese si sono viste costrette ad imporsi lo sviluppo come condizione di sopravvivenza. Di fronte a tale

146 esigenza, esistono anche situazioni in cui la crescita non è una condizione imposta, quanto piuttosto un’opzione che l’impresa decide di perseguire. È il caso di imprese in cui il progresso viene visto come un valore aziendale e come tale ne guida l’operato, e le decisioni relative riguardano principalmente tempo e modalità di attuazione.

Nella realtà aziendale presa in considerazione, ripercorrere le orme della sua storia e comprendere la filosofia di fondo che dalle origini accompagna la famiglia proprietaria, permette di affermare con viva e ferma convinzione che la scelta di avvalersi della collaborazione di un investitore finanziario è stata presa, non nell’intento di sopravvivere in un mercato in cui non si era più in grado di emergere ma, al contrario, per continuare a promuovere il suo valore e la sua differenza, nella piena consapevolezza che i processi di sviluppo dell’azienda sono intimamente legati ai propri assetti proprietari e di governance e possono da questi essere fortemente favoriti o penalizzati.

Sulla base di quanto esposto nell’intero elaborato ed estremamente sintetizzato nelle righe appena sopra, poniamoci una domanda: “l’investitore istituzionale costituisce una minaccia o opportunità per la famiglia proprietaria?”. Sulla base delle assunzioni di fondo la risposta a questa domanda è facilmente intuibile; tuttavia, cercheremo di dare qualche motivazione ulteriore a supporto di quanto affermato fino ad ora.

Focalizziamoci sull’investimento a titolo di private equity considerando che le basi di quanto andremo ad evidenziare valgono anche per l’investimento a titolo di private debt, fermo restando che in questo secondo caso non è previsto cambiamento alcuno nella compagine sociale dell’impresa target.

Il private equity in Italia presenta modalità di azione diverse rispetto a quelle statunitensi e inglesi; in particolare per quanto riguarda le operazioni di sviluppo, l’operatore di private equity interviene acquisendo una partecipazione di minoranza lasciando il controllo in mano all’imprenditore familiare o ai suoi eredi. L’idea che un investitore istituzionale possa sfruttare l’azienda solo per il suo interesse personale non è verosimile. L’operatore di private equity (e in alcuni casi di private debt) guadagna solo se viene creato valore per l’impresa e questo lo porta, inevitabilmente, a difendere gli interessi della società facendo tutto ciò che è indispensabile per massimizzare il suo valore e il suo sviluppo. Un comportamento egoistico da parte dell’investitore potrebbe

147 essere riscontrato in un contesto più grande in cui gli operatori acquisiscono il controllo di un’impresa spesso quotata in Borsa, con obiettivi di ritorni elevati e in tempi alquanto brevi. Nel nostro paese, ribadiamo, questa tipologia di operazione è rarissima.