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Job satisfaction

L’IT sector è uno degli ambiti lavorativi maggiormente pagati in India e a Bangalore, consentendo standard di vita superiori rispetto ad altri settori, anche di natura professionale. Tanto dalle conversazioni informali quanto dalle interviste, emerge un dissimulato, ma comunque malcelato, orgoglio di appartenenza al settore economicamente avanzato dell’India e

180 centrale nell’economia mondiale. Così tra gli aspetti positivi del proprio lavoro, mi viene sovente e innanzitutto riferito dell’elemento economico.

La struttura della retribuzione si compone di una paga fissa e una variabile, per tutte le categorie superiori agli Junior (tester, developer e supporter), vincolata alla valutazione ottenuta. In alcune aziende inoltre è previsto un bonus annuale in ragione della performance aziendale.

A parte il dato economico, di solito vengono accordate, in misura maggiore o minore, a seconda dell’azienda e/o del ruolo ricoperto, una serie di benefici ulteriori: in particolare, abbiamo trasporti gratuiti anche se in orari definiti. Questa misura è particolarmente importante in un contesto come quello di Bangalore, data la mancanza di un sistema di trasporto metropolitano e rilevanti problemi di traffico. In alcuni contesti vi sono anche pasti gratuiti ma, dati i loro orari, sembra più una misura di costrizione alla puntualità e alla permanenza al lavoro, che non un servizio aggiuntivo. Ufficialmente viene inoltre accordato un sistema di flessibilità in entrata, pressappoco dalle otto del mattino alle undici.

Se questi sono i servizi per le categorie meno elevate di dipendenti, per quelle superiori ve ne sono altri, come telefono e macchina gratuiti, rimborsi spese per gli spostamenti, ecc. Nelle realtà aziendali più grandi, è poi previsto per tutti l’accesso a campi sportivi, palestre, sale da gioco, collocate all’interno dei parchi tecnologici.

L’impressione che suscita la disponibilità di tali facilities su certe categorie di lavoratori ha un impatto ancora maggiore. La diffusa pratica della selezione presso i campus universitari consente non solo di individuare alla «fonte» i talenti più promettenti, ma anche di accedere ad una manodopera che, essendo alla prima esperienza lavorativa, risulta fortemente motivata. Ed è facilmente attratta dai ricchi universi paralleli delle multinazionali, nonché arrendevolmente permeabile ai valori e alla cultura aziendale, alle prassi e agli «stili» personali e relazionali di questi non-luoghi globali.

I giovani neoassunti sono quindi solitamente compiaciuti di potersi aggirare, muniti di badge, nei grattacieli vetrati dei parchi tecnologici, per quanto si crogiolino più della possibilità che dell’uso effettivo di palestre e campi sportivi, destinati al loro personale diletto oltre gli orari (improponibili) di lavoro. Sono allettati e adulati dal bombardamento retorico, sbandierato e simulato nelle pratiche valutative, che promette meritocratiche ascese professionali in cambio di indefesso impegno e talento naturale. La dinamica e la dimensione del gioco di squadra e la geometria dei team, rappresentano poi, in un contesto culturale come quello indiano – amicale, socievole, disponibile –, un stimolo continuo, un involucro apparentemente protettivo e rassicurante nell’immensità dei numeri, delle divisioni, della strutturazione infinita di questi giganti economici.

Oltre all’elemento retributivo, sono insomma l’ambiente lavorativo, le relazioni con i colleghi, l’importanza di aver lavorato in una data azienda per la propria crescita professionale (nella prospettiva del suo abbandono!), gli elementi maggiormente segnalati come positivi del proprio lavoro. E ciò si dà anche quando, contemporaneamente, già si prefigurano la ricerca di una azienda altra ove ottenere posizioni lavorative o paghe superiori. Questa apparente contraddizione, fortemente diffusa nelle risposte registrate, si spiega in due modi: in primis, a causa delle politiche concorrenziali tra aziende, è più facile ottenere incrementi salariali cambiando azienda che non rimanendo nella medesima e attendendo il maturare dell’anzianità lavorativa. In secondo luogo, il lavoro, per le posizioni esecutive, è vissuto come stressante e

181 anche piuttosto noioso: il gioco della valutazione e della mobilità interna mostra facilmente i limiti reali dell’ascesa professionale.

I più, tra le posizioni non manageriali, sembrano però nutrire una sorta di atteggiamento ambivalente, di amore-odio verso la propria impresa: da un lato è vissuta come centro di assorbimento del proprio tempo di vita e delle proprie energie, dall’altro è sentita come luogo privilegiato, a fronte degli scenari di miseria e povertà che caratterizzano il contesto urbano circostante.

In generale, potrei sintetizzare che mentre i «disillusi», alla domanda circa gli aspetti positivi estrinseci del proprio lavoro, «battono» sull’elemento economico, qualcun altro insiste anche sulla presunta flessibilità degli orari di ingresso al lavoro e sulle opportunità di telelavoro; quelli maggiormente entusiasti fanno riferimento agli elementi sopra enucleati.

Il lavorare in un settore economico dinamico e importante, oltre a rappresentare per le sue propaggini estrinseche un elemento positivo – settore meglio pagato, settore centrale dell’economia, ecc. –, può essere fonte intrinseca di piacere. Quando vengono centrati i fattori sostanziali, gli aspetti positivi professionali, tra le posizioni lavorative superiori, Mark e Sivukumar (rispettivamente, Technical lead e Technology architect), segnalano l’essere a contatto con la tecnologia, quindi con qualcosa in continuo mutamento: l’essere aggiornato sull’ultima innovazione rappresenta quindi qualcosa di stimolante e coinvolgente che li fa sentire al passo coi tempi.

Ma dalla maggior parte degli intervistati, quelli in posizioni gerarchicamente inferiori, mi viene sovente detto – con frasi e formule sempre uguali che lasciano alquanto perplessi proprio per la loro dimensione «standard» e dopo aver parlato genericamente dell’ambiente lavorativo e della cultura aziendale – che «si imparano sempre cose nuove». Ora, vuoi per la ripetitività e similarità delle espressioni con cui si rende tale concetto, anche tra figure professionali gerarchicamente molto dissimili, vuoi per quella che mi appare istintivamente come una contraddizione rispetto al ruolo ricoperto e all’organizzazione del lavoro di cui mi hanno raccontato poco prima, vuoi, infine, per quanto affermato nell’approfondimento della questione, ritengo che l’idea di crescita e di apprendimento continuo sia meno veritiera di quanto, per naturale propensione e buona fede, si sia propensi a credere.

Vorrei rilevare, infatti, che tali espressioni ricalcano il leit-motiv tanto dei sostenitori e apologeti dell’economia della conoscenza, dell’apprendimento continuo, quanto il «mantra» della cultura aziendale di qualunque realtà incrociata. Allora mi sembrano, piuttosto, una meccanica e reattiva riproposizione di frasi interiorizzate in modo più o meno acritico o, in altri casi, la volontaria riproposizione del messaggio prêt-à-porter – certamente giusto, facile, immediato – sovente ripetuto come verbo aziendale (soprattutto per quelli intervistati tra le mura dell’azienda).

Il forte turnover del settore – intorno al venti per cento delle assunzioni –, motivato prevalentemente dalla mancata crescita professionale (altrimenti decodificabile come insoddisfazione per il proprio lavoro), ci sembra inoltre poco conciliabile con posizioni lavorative che accordano una «continua crescita professionale», benché non parimenti gerarchica.

Succede così che i miei dubbi vengano avallati e coltivati da chi come Amir, Team lead di Comtech, durante la registrazione dell’intervista, sostiene che il suo lavoro gli piace perché «impara ogni giorno qualcosa», salvo confessare ridendo, a margine della stessa, che «nel settore IT a Bangalore nessuno è soddisfatto ma nessuno lo ammetterà mai». Alle mie pressioni per

182 comprendere cosa significasse esattamente ciò che stava dicendo, lui e un suo collega presente ridono imbarazzati, si guardano intorno, ripetono e ribadiscono quanto affermato e lasciano intendere che il posto non era quello più adeguato per esprimere un approfondimento della questione, sebbene sembrassero incerti sul desiderio di aggiungere dell’altro.

Rafforzata anche dalle risposte analoghe di altri, la mia opinione è che ci sia il timore di esprimere, o finanche in alcuni casi di confessare a sé stessi, la natura reale delle cose, preferendo quindi affidarsi a più comode versioni ufficiali, come se, temendo che anche i muri abbiano orecchie, non ci si volesse esporre.

Accanto ai reticenti e ai condiscendenti verso la cultura aziendale, ci sono molti altri per i quali la lontananza dalla sede di lavoro, la politicizzazione ovvero lo statuto di ex dipendente, consente aperture maggiori. Ci sono quindi testimonianze come quelle di Amit, ex tester di Sappert «prelevato» dal campus universitario, che sostiene appunto, come si diceva sopra, che il lavoro all’inizio è bello perché è semplice, consente di guadagnare i primi soldi, e ti fa stare in un’azienda importante. Rispetto alle sue mansioni specifiche mi racconta di averle apprese nei primi sei mesi sul posto di lavoro e che sembravano interessanti, data la sua giovane età e la mancanza di pregresse esperienze. Altri aspetti positivi erano il poco lavoro e il fatto che non dovevi pensare troppo: se osservavi potevi imparare in una settimana e finire il lavoro presto. Ma poi, subito dopo, aggiunge che in poco tempo tutto diventava ripetitivo. Nel descrivere il suo lavoro in modo più dettagliato ribadisce ancora, per la terza volta nei pochi minuti di intervista, che il lavoro era ripetitivo e noioso, «il lavoro era piuttosto monotono, piuttosto noioso». Sebbene utilizzasse diversi tipi di software, di cui doveva apprendere il funzionamento, le conoscenze e le tecniche risultavano essere sempre le stesse.

Alle posizioni di critica al lavoro così nette, si affiancano poi altre che potremmo definire inconsapevoli e indirette. Come quelle di chi, a livello superficiale e come adesione emotiva, sostiene di apprezzare il proprio lavoro e l’azienda, ma che, quando si scandaglia la sua soddisfazione per la concreta e quotidiana esperienza di lavoro, finisce per dichiarare, come per la Senior tester Revathi, il gradimento solo per aspetti assolutamente marginali dello stesso. Accade allora che la parte preferita del lavoro si ha quando, prima della consegna dell’applicazione (ormai prodotta e validata), l’intero suo team dà luogo a una specie di gioco- lavoro, testando tutti insieme il software nella sua versione finale. Oppure il meeting in cui il team (alcuni Senior tester) socializza le richieste del cliente prima della messa in esecuzione della fase di validazione vera e propria. E, sebbene si dichiari soddisfatta, felice, aggiunge di volere di più per sé: sì, c’è un buon clima, ha molti amici, ma non vuole lavorare sempre nove- dieci ore al giorno, mi e si confessa.

L’aspetto più interessante della sua risposta circa la job satisfaction è l’alternanza di frasi di soddisfazione con frasi di insoddisfazione: registro cioè un atteggiamento sclerotico che sembra confermare le tensioni tra l’interiorizzazione del discorso aziendale e le sensazioni (più che le percezioni) delle fatiche quotidiane, tra le promesse, le potenzialità, la grandezza di quel mondo, e poi la sua declinazione reale, effettiva, pratica, che non ne riflette affatto il bagliore.

Così, ascoltando e lasciando che le idee im-mediate lascino il posto alle sensazioni più profonde, Revathi, che al principio lodava ogni cosa del suo mondo lavorativo e che è evidentemente orgogliosa di quell’appartenenza, finisce poi per confessare a sé stessa più che all’interlocutore che ad un certo punto il Testing diventa noioso. E come Amit, critico e disilluso, ammette anche

183 lei che all’inizio il lavoro è interessante perché devi imparare le applicazioni nuove di cui non si conosce nulla, ma che poi diventa sempre uguale a sé stesso.

Al principio, insomma, c’è lo stimolo indiretto del lavoro: non il suo contenuto specifico ma i suoi elementi strumentali, procedurali, che impegnano e stimolano la partecipazione mentale. Ma quando si permane per un anno nella stessa posizione lavorativa, ammette Revathi, si finisce per conoscere tutto e tutto diventa noioso, niente cambia. Ma lei, a differenza di Amit, permane nel suo lavoro, attendendo fiduciosa e paziente l’avvento della tanto promessa ascesa professionale. Vorrebbe infatti diventare Business analyst, accantonando in pratica la formazione informatica in favore di una economico-manageriale, così cambiando nettamente tipologia di lavoro: di consulenza e/o ausilio per, più che l’effettivo sviluppo di prodotti informatici.

Come Revathi anche Arpana è una dipendente che ama la compagnia per la quale lavora e vuole permanerci. Anche sostenendo che il Testing non è noioso e le piace come lavoro, ambisce a svolgere funzioni manageriali: anzi, chiarisce che normalmente si è tenuti a svolgere questo lavoro per cinque o sei anni prima di poter muovere verso posizioni manageriali o almeno di Team leading. Nel suo caso la parte del lavoro che preferisce non è la pianificazione (alla quale non è chiamata a partecipare!), né la scrittura di test script, bensì la fase di Testing vera e propria, perché, mi dice, può usare la sua conoscenza del mondo reale. Mentre ciò che ama di meno è la fase di reporting dei bug, in quanto «prende molto tempo, non è interessante, non devi usare la testa e ti stanchi facilmente».

Ma nessun rimpianto per le scarse conoscenze informatiche da attivarsi nel lavoro di Testing? E per la sua ripetitività? Sì, anche lei ammette che è ripetitivo e mi spiega che, a differenza degli sviluppatori che terminano un modulo e procedono allo sviluppo di sempre nuove funzionalità, per i tester ogni nuova funzione presuppone sempre il passaggio preliminare della verifica delle precedenti. Ma allora, a ben vedere, più che il gradimento del lavoro in quanto tale, è proprio la convinzione della sua temporaneità e la sua modificabilità in virtù dell’ascesa professionale che consentono una buona tolleranza dall’attualità lavorativa.

Quando si passa a chiedere apertamente degli aspetti meno piacevoli del lavoro, un coro unanime, trasversale ad ogni contesto e ad ogni gerarchia, ci rimanda ai ritmi di lavoro incalzanti e allo stress che comportano; al ricorso sistematico allo straordinario, causato, secondo le figure lavorative inferiori, da una programmazione non realistica dei tempi del progetto, ovvero, per quelle superiori, dalla necessità di soddisfare i clienti, di consegnare il prodotto quanto prima, per colpa di un mercato locale e globale molto competitivo. Le otto/dieci ore di lavoro medie, con punte di dodici nelle fasi più concitate della codifica e della validazione dei codici, per la responsabile Sales Bhavana si spiegano anche alla luce dei tratti culturali indiani, in ragione dei quali non si vuole deludere il cliente.

Gli eccessivi orari di lavoro significano ovviamente mancanza di tempo libero, di spazio per la vita privata e per quella sociale. Spesso anche nel weekend si verificano sessioni di lavoro: agendo sul senso del dovere, sulla lealtà verso il gruppo, sulla perentorietà della programmazione, sulla discrasia oggettuale, ci si sente impossibilitati a rifiutare. Neanche i weekend, allora, sono momenti di riposo certi.

Altri aspetti del lavoro criticati, anche se più marginalmente e tra i soggetti politicizzati, sono le inadeguate strumentazioni per la sicurezza sul lavoro. Al di là di un buon computer non vengono assunte misure per la salute.

184 Sebbene possa suonare bizzarro, non è solo il lavoro manuale che può arrecare danni. Per l’esperienza storica e per l’immaginario collettivo che ne consegue, è cosa assai scontata che il lavoro fisico, in particolare quello pesante, venga ricondotto a qualcosa di fortemente stancante, usurante e, talvolta, pericoloso per la salute dei lavoratori, tanto da giustificare e legittimarne la tutela. Non altrettanto immediata è invece l’associazione del lavoro cognitivo con disturbi fisici più o meno gravi. Eppure non sono infrequenti né irrilevanti tra i lavoratori del settore informatico di Bangalore. Come più volte ricordato, le lunghe giornate lavorative, corollate da frequenti ricorsi allo straordinario, non mancano di provvedere a dispensare malori fisici anche ai più fortunati lavoratori intellettuali: dolori alla schiena, tendiniti alle mani, problemi alla vista, sono tra i più diffusi effetti collaterali del lavoro d’ufficio davanti a un computer. Per ogni ora di lavoro sarebbe necessario un riposto di almeno cinque minuti; ma, essendo sempre nel mezzo di un qualcosa, tali interruzioni non sono neanche contemplabili: l’eventuale pausa comporterebbe la necessità di recuperare il filo perduto con la sospensione, mi suggerisce un informatore, e questo chiaramente non è né desiderabile, né proponibile.

Accanto a questioni che in qualche modo esulano dalle responsabilità aziendali, ve ne sono altre che invece le colgono appieno. Molto spesso la strumentazione non è adeguatamente rispettosa dei precetti ergonomici: la distanza del monitor, l’altezza di scrivanie e sedie, la mancanza di una base inclinata di appoggio per i piedi. Come palliativo, allora, alcune imprese mettono a disposizione dei dipendenti un medico generico una volta al mese per consultazioni. Misura la cui efficacia induce qualche perplessità. Così anche talvolta la disponibilità di palestre presso l’azienda, il cui uso è possibile solo dopo gli orari di lavoro. Peccato che di fatto nella quotidianità questi siano talmente prolungati da rendere poco probabile l’utilizzo di tali servizi. Mentre su questi temi qualche lavoratore mostra atteggiamenti critici verso l’azienda, che potrebbe fare certamente di più per prevenire e attenuare i problemi di salute, qualche altro non riesce proprio a scorgerne la responsabilità. Cosi per Revathi, che prima dell’intervista mi confidava di non riuscire mai a prepararsi pasti decenti a casa, dopo il lavoro, stremata dalla fatica. A fine intervista sostiene che eventuali problemi di salute sono da attribuirsi unicamente alla responsabilità individuale del singolo lavoratore, che non approfitta della gentile concessione aziendale di campi sportivi e palestre, messi premurosamente a sua disposizione dall’azienda.

Nel farle notare la contraddizione, aggiunge però che, a ben vedere, in effetti, qualche peso sulla salute dei lavoratori l’azienda ce l’ha e tira fuori allora un tema molto delicato: quello della depressione. A seguito della valutazione della perfomance, mi dice Revathi, un suo caro amico, uno in gamba, un hardwork guy, era sprofondato in una depressione acuta da cui, dopo mesi, non riusciva ancora a riemergere.

A quanto sostengono diversi informatori, questa costituisce una malattia abbastanza caratteristica del settore. E neppure troppo lieve dato che, in diversi casi, ha condotto giovani informatici, come anche affermati professionisti, al gesto estremo del suicidio. E questo non solo a causa di uno stato depressivo connesso al giudizio negativo sulla propria persona e il proprio operato o per il mancato raggiungimento della promozione agognata, ma anche più semplicemente per lo stress connesso a ritmi di lavoro assillanti e soffocanti.

Sempre limitate tra le risposte registrate, ma comunque degne di nota, le critiche più o meno dettagliate rivolte alle politiche di riservatezza e sicurezza adottate da alcune aziende: si è controllati all’ingresso dato che non è consentito introdurre computer e strumentazione che

185 consentirebbero di acquisire e conservare file e informazioni. Secondo Mark, l’azienda mostra un atteggiamento paranoico al riguardo, specialmente rispetto alle informazioni riservate. Il fatto che non si fidino dei propri dipendenti è secondo lui controproducente, oltre che grave, dato che chi vuole rubare, riesce comunque in qualche modo a farlo; mentre chi non vuole farlo, si sente vessato e viene demotivato verso l’azienda.

Insomma, da un lato paga e facilities, orgoglio di appartenenza e prospettive di carriera, la contiguità con la tecnologia e l’innovazione e le opportunità di crescita continua; dall’altro, stress e orari impossibili, mancanza di tempo per la vita privata e fatica psico-fisica. Sono questi i principali motivi di soddisfazione e insoddisfazione verso il lavoro.

Ora è necessario però provare a categorizzare le posizioni emerse. Ho accennato appena al fatto che, rispetto agli aspetti intrinseci, contenutistici, si fa appello a generiche, vuote e uniformate frasi circa «la possibilità di imparare sempre cose nuove», di «crescita professionale», che, non solo sembravano contrastare con i ruoli ricoperti, le aspettative personali, la descrizione dei processi lavorativi, ma anche con l’alto turnover del settore. Ho attribuito questa apparente contraddizione all’interiorizzazione e alla riproposizione, consapevole, inconsapevole o difensivamente opportunista, delle idee egemoniche circolanti nell’ambito del lavoro cognitivo, e alla versione aziendale continuamente sciorinata in ogni luogo e in ogni discorso ufficiale, alla orwelliana maniera di 1984.

Tali posizioni si potrebbero definire: entusiastiche di dominanza, fiduciose a-critiche, inconsapevoli inesperte, intimorite di auto-tutela. Le prime sono proprie di chi detiene posizioni gerarchicamente elevate e, pertanto, nel definire il lavoro dei subordinati, si appella consapevolmente alla versione aziendale. Le posizioni ottimistiche si riscontrano tra le persone con qualche anno di esperienza presso l’azienda, anche se non molti, che magari hanno appena ottenuto l’elevazione a Senior o una posizione di lead, hanno la forte convinzione della possibilità continua di mobilità verso l’alto nel breve periodo e una visione ancora molto