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Performance appraisals

La valutazione della performance rappresenta un elemento imprescindibile della realtà aziendale di Bangalore, piccola, media, grande, di prodotto o di servizio. Con cadenza quadrimestrale, semestrale o annuale, si consuma quello che, come avrò modo di raccontare, rappresenta un elemento drammatico e cruciale della vita lavorativa. Cruciale perché, a seconda della votazione ottenuta, esso determina l’entità della paga variabile, nonché l’eventuale ascesa lavorativa, con l’ottenimento della promozione agognata ovvero la permanenza per un altro anno nella medesima posizione lavorativa. Drammatico perché si può subire un giudizio inferiore all’auto- percezione della propria performance e in contraddizione con gli sforzi profusi o, ancora più

175 drasticamente, si subisce l’umiliazione di dover frequentare una sorta di corsi di recupero o dover sostenere veri e propri esami.

Lo stress che accompagna questo momento travolge quasi tutte le posizioni lavorative; sviluppatori, tester, Team lead, manager e lo stesso personale HR: insomma, fatta eccezione per le persone poste in ruoli apicali o semiapicali, tutti, ma proprio tutti, sono oggetto e soggetto della valutazione. Non solo, cioè, si è obbligati a subire una «etero-valutazione» e a formulare una «auto-valutazione», ma si è anche contemporaneamente costretti ad esprimere giudizi su superiori, colleghi e subordinati.

L’ipotesi di valutare terzi riguarda infatti: a) i manager chiamati ad esprimersi circa i propri diretti subordinati; b) il dipartimento delle Risorse umane investito dell’analisi di ciascun manager e lavoratore sotto il profilo della personalità e delle relazioni interpersonali; c) lo stesso personale HR riceve, a sua volta, valutazioni circa il proprio operato; d) gli stessi lavoratori, chiamati ad esprimere giudizi sul proprio manager e sui colleghi. In quest’ultimo caso, naturalmente, non si dà piena e assoluta espressione alle proprie personali considerazioni: vista la condizione di subordinazione insita nel proprio ruolo, unita al fatto che, di solito, dati i ristretti numeri dei team, risulta facilmente identificabile chi dice cosa sul capo, una sorta di autocensura può rappresentare il comportamento, se non più nobile, di certo più conveniente.

Tuttavia, al di là dell’impegno mentale che un momento concitato come questo può rappresentare, quando al lavoro quotidiano si affianca una mole di documenti da compilare e ci si deve sforzare, con la «ponderazione dovuta», di esprime giudizi su di sé e sugli altri, proprio per la sua importanza e drammaticità, questo porta con sé per qualche tempo alcuni lasciti negativi.

Le relazioni tra colleghi, che, sorprendentemente nel contesto indiano, sembrano sempre essere molto buone, subiscono infatti qualche frizione solo in occasione di tale peculiare evento.

Frizione dettata a mio avviso principalmente dalla competizione forzosa che esso implica, più che per il fatto di non vedersi riconosciuto un giudizio soddisfacente o di non aver ottenuto la promozione desiderata.

Le valutazioni infatti non sono assolute, ma relative: la propria performance è comparata a quella di chi occupa posizioni analoghe. Ma ciò non avviene solo per la distribuzione di eventuali promozioni – come sarebbe ovviamente comprensibile data la limitatezza delle posizioni da occupare – ma anche per l’attribuzione della paga variabile. E cioè, anziché dividere i soldi disponibili tra tutti, in ragione di una valutazione oggettiva, si stabiliscono aprioristicamente un dato numero di persone che possono ottenere i vari tipi di giudizio, così di fatto creando un’obbligatoria gerarchizzazione anche tra performance, fondamentalmente, analoghe. Ma non solo. La Performance appraisal rappresenta anche il momento X che spinge e legittima a compiere da parte di lavoratori insoddisfatti l’abbandono dell’azienda, magari lungamente covato e/o meditato.

Fin qui si è detto di chi fa e subisce una certa cosa e che effetti produce, ma occorre addentrarsi nel dettaglio delle modalità di predisposizione del sistema di valutazione. Altrove ho sottolineato la centralità del dipartimento delle Risorse umane nella sua costruzione, implementazione e gestione, ai fini dell’erogazione delle politiche retributive e di promozione. Ma va certamente sottolineato che la valutazione del singolo si fonda su una definizione degli obiettivi annuali predisposti a livello centrale, concordati individualmente con il proprio manager e oggetto di riscontro del loro raggiungimento a posteriori. Al dato oggettivo degli obiettivi, si affiancano

176 giudizi relativi al comportamento del soggetto verso colleghi e superiori, la predisposizione al lavoro di gruppo, la dedizione al lavoro, la capacità di risolvere problemi, ecc.

Come si diceva in apertura di paragrafo, il giudizio sulla performance ha almeno carattere annuale, ma la sua edificazione, nella pratica, avviene mediante sistematiche, accurate e pervasive misure di carattere quotidiano. La valutazione viene cioè a fondarsi su un controllo/autocontrollo sia umano che tecnologico. Rispetto a quest’ultimo abbiamo sì un monitoraggio diario che la edifica oggettivamente, ma che, parimenti, consente di registrare, ed eventualmente riorientare, le prestazioni e il lavoro quotidiano e settimanale, ponendosi, pertanto, anche come strumento di gestione del processo lavorativo e di esecuzione ordinata della pianificazione progettuale.

Mark mi spiega che nella sua azienda ogni giorno si devono registrare in un timesheet le attività svolte il giorno precedente. Settimanalmente vengono poi confrontati quelli che erano gli obiettivi del lavoro per quell’arco di tempo determinato e i risultati progressivi del lavoro quotidiano. La corrispondenza ovvero lo scarto tra i due determina un primo livello di valutazione/autovalutazione della performance che potremmo definire etero-determinata e auto- oggettivata.

Etero-determinata perché gli obiettivi settimanali sono il risultato della pianificazione unidirezionale del proprio manager, coadiuvato o meno dal Team lead; auto-oggettivata perché è il lavoratore medesimo che deve ricapitolare, inscrivendole in appositi documenti informatici, le attività svolte, quindi di fatto confrontandosi o scontrandosi con la pianificazione imposta. Non solo, quindi, il management ha uno strumento continuo di rilevazione della piena attualizzazione o meno delle attività programmate (utile per eventuali correttivi in itinere), ma gli stessi lavoratori sono obbligati a un continuo e puntuale esame delle proprie prestazioni, che non potrebbe non ingenerare di per sé stress, laddove si riscontrino discrasie rispetto al dovuto. Al di là del carattere giornaliero di questa rilevazione e delle sue implicazioni pratiche per la più o meno regolare esecuzione della programmazione progettuale, perché possa darsi una valutazione risulta necessario a monte – cioè all’inizio di un nuovo anno lavorativo o di un nuovo progetto – la fissazione per ciascun soggetto degli obiettivi con il proprio manager o superiore, di cui il monitoraggio e il tracciamento informatico quotidiano forniranno il materiale necessario per il loro riscontro finale.

Come ci spiega la tester Arpana, è in base a standard internazionali che ogni lavoratore ha, per alcuni ambiti tematici chiave (key resources area), determinati obiettivi in funzione del ruolo ricoperto. Alla valutazione individuale segue poi la «normalizzazione» rispetto ai lavoratori di pari livello che svolgano le medesime mansioni, consentendo così di pervenire alla definizione del voto soggettivo.

Rispetto alla produzione concreta di quest’ultimo, nella stragrande maggioranza dei contesti analizzati, si produce il seguente iter: quando si apre la fase di valutazione, i lavoratori sono chiamati a compilare un format nel quale si riepiloga tutto quello che si è fatto nell’arco dell’anno; il manager, quindi, autonomamente o mediante confronti con i suoi pari, attribuisce un voto (A, B, C, D, che stanno rispettivamente per Overstanding, Above aspectation, Mid aspectation, Below aspectation, le cui relative quote sono predeterminate). Raccolti i giudizi da parte del personale HR, questi procede agli ulteriori dettagli per la parte di sua competenza, producendo infine i supporti informativi per la loro comunicazione agli interessati. Le comunicazioni ai lavoratori circa il voto, gli incrementi salariali ed eventuali promozioni,

177 avvengono di solito mediante e-mail e a fine aprile. Ma non c’è naturalmente un legame meccanico tra performance e promozioni, dipendendo queste ultime dalle posizioni che si liberano e dalla scelta dell’azienda di rimpiazzare i posti vacanti attraverso promozione interna ovvero assunzione esterna. In Samsung, ad esempio, il turnover è al 10 per cento annuo, ma interessa generalmente le posizioni di Technical lead e di Senior e Junior engineer, cioè fino a sei anni di esperienza, anche perché, specifica Mark, quando si è sposati diventa più complicato il cambio di lavoro per via della famiglia (scuola, figlio, casa). Inoltre, a lasciare il lavoro sono soprattutto le persone che percepiscono valutazioni inferiori.

Questo, per sommi capi, è il processo, a cui aggiungerei la seguente considerazione. Rispetto ai primi due momenti (compilazione del format e attribuzione votazione «relativa»), a me sembra che in entrambi i casi si dia luogo all’implementazione di tecniche volte a costruire la percezione della propria auto-imprenditorialità e singolarità lavorativa e a creare competizione tra i lavoratori. Producendo al tempo stesso il non secondario risultato di creare spaccature e divisioni tra il corpo lavoratore, favorendone la sua frammentazione e divisione.

Nell’industria del software di Bangalore, insomma, la trasversalità tra le diverse imprese non concerne solo le metodologie di organizzazione del lavoro e le tecniche di selezione del personale, ma anche quelle della sua valutazione. Ma se è vero che si possono rinvenire forti similitudini tra imprese diverse collocate in quel dato contesto, non è altrettanto vero che nelle diverse sedi di una medesima multinazionale vigano per forza identiche regole di comportamento.

Così, mentre nelle sedi indiane di Sappert la valutazione ha carattere di obbligatorietà, altrove sembra possedere una natura facoltativa. Un informatore italiano, Carlo, mi racconta che nella sede di Milano, si poteva e non doveva partecipare alla valutazione: questa veniva presentata come l’occasione per far avanzare Sappert Italia rispetto alle altre sedi nel mondo; quanto più partecipata la valutazione, tanto più sarebbe stato attendibile il quadro emergente e quindi il risultato della sede milanese rispetto alle altre.

Così, due volte l’anno, veniva inviata una mail che riferiva dell’apertura della fase di valutazione. Il giudizio si articolava, piuttosto che in lettere come altrove, in un parere concernente tre sezioni strutturate. I punti nodali erano il lavoro proprio e del gruppo; l’impegno per il progresso di Sappert e per il cliente; la capacità di interazione con gli altri eil tempo dedicato alla propria carriera. Rispetto a quest’ultimo, il tempo speso nell’e-learning ne rappresentava un importante indicatore, in quanto espressione di motivazione e ambizione, che a propria volta faceva ben sperare l’azienda sul fatto che il soggetto fosse propenso ad un impegno intenso verso di essa. Del resto questa attitudine veniva massimamente contemplata nell’espressione, ampiamente sindacata nel questionario, circa la misura e intensità del proprio essere compliant verso l’azienda. Carlo mi dice in proposito: «Essere compliant al progetto, alle tempistiche, allo stile, a quello che accade in quel momento […] Se ci sono due mesi di ritardo, tu sei compliant se riesci a capire dov’è il problema e a stare lì per aiutare l’azienda a risolvere quel problema […] Com-pli-ant, questa parola io non me la scorderò mai […] Prima c’è la valutazione poi c’è l’aumento di stipendio o la promozione, le due cose erano separate: la promozione era all’interno dell’azienda, la strada per diventare manager, quelli dello stipendio erano gli scatti del contratto nazionale, che avvenivano regolarmente». Nel caso delle promozioni non solo dovevi essere il migliore ma doveva anche darsi che per Sappert Italia

178 fossero previste delle posizioni vacanti, altrimenti il best performer veniva ricompensato in denaro.

Sebbene Carlo facesse esattamente ciò che andava fatto e avesse spesso soluzioni personali per risolvere i problemi, sembrava non risultare troppo compliant verso lo stile Sappert per quanto concerneva l’abbigliamento e gli orari di lavoro: non amava cioè vincolarsi all’ufficio fino a tarda notte e si sottraeva ai consueti turni dalle otto del mattino alle nove di sera, più o meno esplicitamente richiesti. Vivendo da solo con il suo cane non poteva dedicarsi in maniera assoluta alle esigenze dell’azienda, anche perché l’organizzazione del lavoro non consentiva la piena esecuzione quotidiana della programmazione pianificata, per sovrastima sistematica di quest’ultima. Così, che badasse troppo al suo stile di vita, riemergeva continuamente nelle valutazioni. Ma Carlo non riusciva a considerare, ammette sospirando, che il lavoro riempisse per intero la sua esistenza, come invece Sappert avrebbe voluto. Così alla fine decise di lasciare il lavoro. Decisione che, mi giura, non è mai stata messa, nemmeno per un istante, in discussione.

Al di là di una discutibile quanto preoccupante tensione onnivora di alcune aziende rispetto alle vite dei propri dipendenti, su cui tornerò più oltre, dal racconto fatto fin qui emerge con sufficiente chiarezza che la pratica di obiettivi quotidiani, settimanali e annuali, tanto legati strettamente alla produzione, quanto ad aspetti soggettivi, comportamentali, motivazionali, ecc., rappresenta uno strumento cardine di gestione non solo del lavoro, ma anche del personale, e soprattutto uno strumento di incentivazione ad un impegno costante.

Ora, a me sembra che queste suddette modalità non si discostino affatto nella sostanza da quelle che muovevano la mano tayloriana che prescriveva come strategico l’impiego del compito quotidiano per educare e motivare una disciplinanda forza lavoro. Mentre, d’altra parte, si deve rilevare che i progressi tecnologici e organizzativi ne hanno certamente consentito un’evoluzione nelle forme. Abbiamo così che supervisori, cronometri, cartellini gialli o bianchi, premi o riduzioni di paga, vengono ad essere sostituiti da nuovi e più potenti mezzi. Ad esempio Simanta, ex-dipendente di Torch, mi racconta che il monitoraggio per i superiori avveniva attraverso il software «PCseven», nel quale erano registrate le mansioni e il loro relativo assolvimento: a ciascun lavoratore, dotato di un particolare user account, erano associate determinate mansioni quotidiane di cui egli era tenuto a registrare, settimanalmente, l’avvenuta esecuzione.

Queste pratiche non sono appannaggio esclusivo di grandi aziende, ma investono anche i contesti più piccoli, con le stesse identiche modalità (come nel caso di Fidware), o con formule meno strutturate e più informali. Nel caso di Roxo, ad esempio, la valutazione della performance non occupa una fase concitata e rilevante della vita aziendale: per scelta dirigenziale, cultura aziendale e dimensioni, è affidata infatti prevalentemente alle relazioni interpersonali, in virtù delle quali, come mi dice Sapna, «ognuno sa quello che fanno gli altri».

Se per lavoratrici come Sapna la valutazione non sarà «molto seccante», come era stato nella sua esperienza pregressa, per la maggior parte – dato anche il numero assoluto e relativo di persone che occupano le grandi aziende –, il risultato della valutazione può comportare non semplicemente una paga variabile non molto alta e mancate promozioni. In certi casi, come nell’ambito di Sappert, può darsi che si sia costretti a seguire una sorta di corsi di recupero, ovvero a sostenere veri e propri esami interni, per dimostrare l’adeguatezza alla posizione occupata. È chiaro che queste pratiche, sebbene possano rispondere a una logica di efficienza,

179 rappresentano anche un elemento prolifico di una costante tensione e/o potenziale umiliazione per le persone che ne risultano destinatarie. E certamente non contribuisce a creare un clima per una pacifica e serena crescita individuale.

Un altro informatore, Prasad, che ha lavorato come informatico per sei anni, mi spiega che se in tutte le aziende, dopo l’inserimento vi è un periodo di prova di alcuni mesi, superato il quale si entra a far parte dell’azienda a pieno titolo, in alcune, come Infodata, vi è un periodo di formazione che va dai tre ai sei mesi ed è finalizzato ad accertare il possesso di capacità pratiche di lavoro, oltre al dominio delle nozioni teoriche da parte dei soggetti inseriti. Alla fine di tale periodo, quindi, vengono somministrati ulteriori e impegnativi esami, il cui superamento è indispensabile per divenire propriamente un dipendente dell’azienda.

Per i lavoratori cognitivi dell’industria del software, insomma, gli esami non finiscono mai. Anzi, questi cominciano con i processi selettivi presso i campus ove ancora non conseguono un titolo di laurea, per poi proseguire nella vita lavorativa, scandita da rilevazioni e auto-rilevazioni quotidiane, e da veri e propri test annuali, che non solo hanno ad oggetto ciò che si è fatto, la propria produttività, ma anche il proprio stile, le capacità comunicative e di interazione, l’impegno verso il cliente, l’azienda e sé stessi. E ciò sotto la bandiera, ipoteticamente accessibile, della progressione di carriera.

Ma se gli esami non finiscono mai, non sempre si registra una così marcata attenzione, qualitativamente valida, alla formazione. Al di là di brevi colloqui di orientamento o di una microformazione di un paio di giorni, in molti casi, o meglio, per la maggioranza dei neoassunti, si è collocati nella propria posizione e si è lasciati apprendere il lavoro attraverso la pratica quotidiana, o ci si avvale dell’aiuto dei pari e del materiale multimediale messo a disposizione dall’azienda ai fini dell’e-learning.

Non troppo dissimile è la situazione in caso di cambio di mansioni, per le quali risulta necessaria la formazione. Questa può iniziare e concludersi con un semplice seminario di un giorno, lo one day seminar.

Ma come è possibile che un tempo così circoscritto possa essere sufficiente per assumere un nuovo incarico, in un ambito complesso di lavoro cognitivo altamente specializzato? Le possibili interpretazioni al riguardo sono due: o i lavoratori sono talmente preparati da saper imparare in breve tempo a svolgere nuove mansioni; o il nuovo lavoro, per le modalità con cui è strutturato, non è poi troppo difficile. Dato quello che è emerso dalle interviste e dalla descrizione del processo lavorativo fin qui condotta, dall’occorrenza di situazioni analoghe in ambiti lavorativi altri e anche meno complessi (come avrò modo di rilevare negli altri casi studio), propenderei per la seconda ipotesi, come articolerò puntualmente a breve.

3.3