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La taylorizzazione del lavoro in Inps

Ripercorsa la storia organizzativa di questo grande ente statale, approfondite le dinamiche di funzionamento interne e il loro impatto sulla condizione del lavoro, è giunto il momento di ritessere il filo con il discorso più generale che sto conducendo. Si tratta di rileggere quanto fin qui esposto alla luce dei principi tayloristici, per capire se permangano o meno in questa esperienza, ovvero in cosa divergano. La scelta di questo studio di caso non nasce solo dalla «significativa casualità» di un’esperienza biografica, ma è dettata anche dall’opportunità di cogliere in esso il passaggio dal taylorismo-fordista al neotaylorismo contemporaneo. Lo spaccato diacronico ci riconsegna, infatti, l’eco del sentiero tortuoso che le organizzazioni contemporanee hanno dovuto percorrere, dismettendo il modello classico, per fondare, attraverso lo sforzo del suo superamento, le basi per la sua evoluzione.

Quando le opportunità normative e finanziarie lo consentono, l’Inps avvia la dismissione del modello piramidale e fortemente parcellizzato del lavoro: il processo lavorativo era farraginoso e poco accorto all’utenza. Si opta per dinamiche lavorative più «friendly». Se il macro modello è il

137 frutto dell’elaborazione di professionisti esterni, la sua definizione viene data: da un lato, mediante la costituzione sempre più corposa di personale interno che di lì in avanti si occuperà dell’organizzazione; dall’altro, attraverso tavoli «con i migliori dipendenti a livello nazionale» per analizzare i macro processi lavorativi e specificare il disegno delle attività. L’intervento sulle macroaree produttive per snellirne i flussi, però, non esaurisce del tutto l’esigenza di un andamento lavorativo sempre «più teso, senza ridondanza, e sempre più essenziale»: erano infatti «necessari nuovi studi». Dal 2002 parte, quindi, una fase sperimentale. Come mi dice Patrizia: «La via vincente della semplificazione delle procedure di lavoro è stata possibile perché il percorso è stato quello di coinvolgere i migliori che avevamo sul territorio chiamarli a dei tavoli di lavoro, […] e loro hanno disegnato passo dopo passo tutto quello che accadeva […] nascono i flussi standardizzati di processo».

Come il saper-fare di Schimdt nella posa dei mattoni, anche qui, e ancora una volta, sono i migliori dipendenti che debbono essere coinvolti perché, sulla base della loro esperienza operativa, si possa dar luogo all’estrapolazione/espropriazione della conoscenza. I flussi standardizzati di processo sono l’evidente e immateriale concretizzazione del comando del lavoro morto sul lavoro vivo: la conoscenza dell’aristocrazia lavorativa, infatti, mediante il processo di studio e sperimentazione di cui sopra, si cristallizza nel supporto informatico e ritorna agli stessi come imposizione che procura loro «fastidio», «disagio», «malessere».

Se i dipendenti Inps sono, in prevalenza, fortemente qualificati, ciò è destinato a sgretolarsi per l’inutilizzazione di tali conoscenze e/o per la loro mancata acquisizione da parte di quanti, eventualmente, saranno assunti in futuro. È rispetto a questi ultimi che si fa riferimento alla espropriazione delle conoscenze L’«addestramento» del personale che avveniva nel modello classico riguardo alle nuove previsioni operative, si perpetua anche oggi: i corsi formativi di «due giorni» ne sono un esempio e danno la misura della «qualità» e della «difficoltà» di acquisizione di tale sapere, a fronte degli anni che «ci volevano per formare un liquidatore di pensioni»! Ma molto più spesso la declinazione contemporanea di tale previsione si concretizza nell’autoapprendimento mediante lettura del manuale relativo ad una procedura informatica, ovvero nella semplice esecuzione quotidiana del lavoro, e cioè nel lasciarsi «guidare» dalla procedura. Ragione, tanto osannata, per cui, si darebbe la «emancipazione dell’operatore dalla condizione di dipendenza dai superiori e dai colleghi per l’apprendimento del lavoro».

Se quest’ultima è una prima differenza del taylorismo postfordista, ve ne sono altre ben più significative. La sperimentazione di tayloriana memoria in questo caso è avvenuta in due tempi: prima si è costruito il come lavorare (quale sequenza di operazioni mediante la costruzione dei tavoli nazionali) e poi si sono andati a definire i tempi medi per ciascun prodotto: «È venuto materialmente un funzionario della DC pianificazione ha preso un campione di pratiche casuale, sufficientemente ampio; ha preso un certo numero di addetti del reparto su cui si faceva il test e ha misurato quanto tempo impiegavano a lavorare quelle pratiche, materialmente. Cioè ha visto che per fare quel campione di dieci pratiche hanno impiegato, non lo so…153 minuti. A quel punto quello è stato suddiviso per il numero di pratiche, è stato considerato il tempo medio. In quel tempo c’è tutto: c’è la consultazione della base normativa, c’è l’andare in archivio a prelevare un fascicolo, c’è fare una consultazione in più; c’è tutto, c’è chiamare all’utente, etc.». A dire il vero la tempificazione delle attività non si esaurisce in un’unica rilevazione: man mano che i programmi informatici velocizzano l’esecuzione di certe operazioni , i tempi medi vengono

138 rivisti al ribasso e controllati poi, in maniera globale, mediante la loro sofisticata traduzione nelle prescrizioni «qualitative» del cruscotto.

Mi spiego meglio: in primo luogo, il controllo dell’esecuzione del lavoro nei tempi previsti non è demandata all’esercizio fisico del cronometraggio (che la storia organizzativa insegna essere economicamente dispendioso), bensì affidato al sistema del cruscotto. Non il «singolo pezzo di produzione», ma una certa produzione media viene imposta e quindi valutata nel suo effettivo o mancato raggiungimento. Il sistema del cruscotto consente, mediante un complesso ed articolato sistema di indicatori ed indici, di misurare infatti, su una media mensile ed annuale, nonché globale, ciò che nel modello classico era giornaliero e singolare.

Se l’ampliamento dell’orizzonte temporale del monitoraggio e della valutazione si dilatano, anche la somministrazione di premi e punizioni segue la stessa sorte: il cartellino quotidiano bianco o giallo di Taylor (indicanti il raggiungimento o meno dello standard produttivo imposto e, quindi, l’ottenimento o meno dell’incentivo economico), si trasla sulla retribuzione annuale integrativa ordinaria e straordinaria. Quest’ultima, poi, rappresenta un vero e proprio salto qualitativo per il taylorismo contemporaneo che si arricchisce dei contributi culturali e ideologici del neoliberismo e della sua costituenda soggettività, edificata sulla continua messa in competizione degli individui e delle strutture sociali che abitano. Abbiamo allora che, risultando difficile o impossibile, per ragioni intrinseche ed estrinseche di cui parlerò oltre, stabilire e prescrivere il limite massimo possibile dello sfruttamento del lavoro, si lascia fermo un livello elevato di produzione certificabile e poi si fa in modo che, mediante la «carota» del premio e il «sale» della gara, siano i gruppi a spingersi sempre più in là collaborando al proprio auto- sfruttamento. Ciò avviene come in una morsa, la cui presa, tenda inesorabilmente a stringersi sempre di più. Il cruscotto, infatti, registra prima e rimanda come obbligatori in seguito (l’anno successivo) certi livelli di performance, dai quali non si può più tornare indietro. Concretamente, il livello delle prestazioni più elevate, non sono altro che incrementi progressivi di natura organizzativa: cioè miglioramenti incrementali, che sono il pane quotidiano di un folto gruppo di figure organizzative. Queste concorrono, in maniera molecolare e permanente, alla definizione di prassi lavorative sempre più efficienti, tirate ed essenziali che divengono poi trasversali, man mano che l’efficiente «originalità» di una linea-prodotto, o di una sede, si diffonda per emulazione, formale o informale, nel sistema generale. Tale effetto è garantito indirettamente dal cruscotto, in quanto meccanismo di messa in competizione al rialzo delle performance. Altrimenti detto: questo meccanismo di valore relativo e non assoluto della performance, che il sistema prende a riferimento per l’elargizione di retribuzione accessoria, fa sì che i più bravi raggiungano il premio. Ma questi, l’anno successivo, per continuare ad ottenerlo devono migliorarsi ancora, non possono andare indietro. Per essere i più bravi allora, quotidianamente si industriano a trovare le soluzioni più celeri, economiche ed efficienti possibili. E dato che ciò emergerà dai dati sintetizzati nel sistema di monitoraggio, è probabile che verranno contattati da altre strutture che cercheranno di emularli. Così una buona pratica viene diffondendosi in maniera informale. Ovvero fatta propria, prima dal livello regionale e poi nazionale, da quest’ultimo viene resa formalmente obbligatoria

Essendo la produzione suscettibile di modificazione sia in ragione di fattori esterni, come l’evoluzione normativa, sia grazie allo sviluppo intrinseco tecnologico ed organizzativo (che, contraendo e semplificando le procedure e le prassi, incide positivamente in termini di contrazione dei tempi e aumento della produttività del lavoro), abbiamo che l’oggettivazione del

139 controllo sul lavoro - flussi standardizzati e cruscotto - tende a modificarsi, inasprendosi sempre più, in un moto intensivo ed estensivo. Cioè, da un lato si accorciano i tempi e si snelliscono gli adempimenti; dall’altro, contemporaneamente, il sistema tende verso aspetti che ora ne sono appena lambiti: le attività meno standardizzate, cioè quelle professionali e di supporto. L’affannosa corsa dei vari responsabili ad una sempre maggiore efficienza, se nell’immediato si traduce nel raggiungimento dell’incentivo, nel medio-lungo termine si ripercuoterà sui loro margini di manovra.

Con la nuova organizzazione la proliferazione di questa categoria di dipendenti, non solo è finalizzata a concorre al miglioramento continuo del sistema, mediante affinamenti minimali dello stesso, ma anche a svolgere un’importante funzione motivazionale. Rappresentando una equivalenza postfordista dei cronometristi, tali dipendenti sono quindi chiamati a stare, in questo caso amichevolmente, con il fiato sul collo dei loro collaboratori-colleghi (!) . Amichevolmente, perché si è compresa l’importanza, tanto rilevante nel taylor-pensiero (quanto poco nella sua determinazione storica), della capacità di strumentalizzare la leva relazionale in modo da volgerla all’intensificazione dello sforzo del singolo e, quindi, all’incremento della produttività. Salendo un po’ la scala gerarchica, la scarsa autonomia che connota oggi questi soggetti ci dice, poi, qualcosa di nuovo: essi stessi sono sempre più privati di reali poteri decisionali. Formalmente incastonati nella gerarchia del potere, sono sostanzialmente destinati a concorrere alla propria ulteriore sottomissione ad un comando, che si fa tanto più stringente e pervasivo, quanto più diviene invisibile e oggettivato. Talvolta disillusi, qualche altra imbambolati o rigonfi per l’essere collocati un gradino sopra a qualcun altro, questi sono, e saranno sempre più, un’autorità senza potere, votata al proprio auto-asservimento.

Per quanto attiene all’antropologia tayloriana, al di là di professionisti degradati a meri esecutori e quadri paternalistici (equipaggiati di buone maniere e immolati al buon esempio, per riscattare all’uopo il sacrificio altrui), ritroviamo, salendo ancora la scala gerarchica - ovvero percorrendo il sentiero che dalla città ci porta al capoluogo regionale, e da questo alla capitale - l’affermazione di uno storico e nutrito nugolo di professionisti dell’organizzazione, della pianificazione e controllo, e dell’informatica i quali, nella struttura nazionale e regionale, si sono accaparrati la progettazione, il controllo e la costrizione sempre più stringente del lavoro altrui. In precedenza, ho sottolineato come la definizione delle attività discenda dal centro, mediante l’affinamento del cruscotto; e che sia sempre tale centro a spingere in avanti il processo di irrigidimento del sistema, mediante nuove procedure informatiche .

Se il primo, terzo e quarto principio sono ben presenti ed operativizzati, nella loro declinazione contemporanea, nel nostro studio di caso, per quanto attiene alla selezione e gestione scientifica della forza lavoro, il sistema qui incontra ancora le incrostature del passato. Mi spiego meglio. Trattandosi di una pubblica amministrazione, fin qui la normativa ha imposto una selezione del personale mediante procedure concorsuali che non hanno potuto distaccarsi dall’ambito strettamente tecnico (ossia dalla preparazione normativa) dei partecipanti. Fin qui, valutazioni attitudinali e psicologiche non sono state praticabili. Ma non è detto che non lo siano in futuro. Se la selezione in ingresso ha scontato il retaggio del passato, nella mobilità interna, quando le risorse economiche l’hanno consentito, si sono sperimentate metodologie articolate sull’elemento psico-attitudinale per la scelta del personale da destinare a posizioni di responsabilità. Resta da verificare se l’attualizzazione della riforma Brunetta, introducendo la valutazione individuale della performance, inserirà o meno, elementi di natura soggettiva

140 nell’attribuzione della pagella ai dipendenti, per la loro valutazione. Indicata come precipitazione contemporanea dei taciti insegnamenti del padre dell’organizzazione aziendale (disattesi, ma corretti), ritroviamo come leva produttiva il lavoro di gruppo. Più che per la sua valenza strettamente organizzativa e materiale, anche qui tale entità viene esperita per la dimensione intrinsecamente emotiva che riesce a mobilitare in due direzioni opposte e complementari. Da un lato, agisce in termini positivi sulla lealtà di gruppo, dall’altro, infiamma le passioni tristi della competizione. Il team diviene allora dispositivo di catalizzazione delle energie lavorative, attivando dinamiche soggettive di solidarietà e appartenenza verso l’interno; ma anche di competizione verso l’esterno più o meno prossimo (della stessa sede e delle altre); rafforzato, questa volta, anche dall’elemento oggettivo del premio retributivo accessorio, oltre che della dinamica della gara.

In merito a queste ultime riflessioni e considerati gli elementi esposti precedentemente, posso concludere che anche presso l’Inps si verifichi una sorta di approfondimento del taylorismo, in ragione della rilevanza accordata alla strumentalità della relazione interpersonale; nonché dell’abilità tecno-organizzativo mediante la quale si costruisce una comunità di interessi tra i lavoratori e i loro sovraordinati.

Il neotaylorismo costituisce anche un’estensione del modello originario per il suo allargamento alle attività cognitive, che nella versione originaria erano state, sì immaginate, ma appena abbozzate. Della sua declinazione contemporanea sorprende, quindi, non tanto la capacità di riproporre a queste ultime forme stringenti di controllo, e cioè l’aspetto oggettivamente (para)scientifico dell’organizzazione; quanto la potenza e l’efficacia, da un lato, della de- soggettivazione del controllo nella sua traduzione informatica e, dall’altro, del livello di sofisticazione, in questo caso scientifico, con cui vengono abilmente mossi i fili della soggettività lavorativa.

L’altro elemento che maggiorente qualifica la sua declinazione attuale è, inoltre, il passaggio dall’espropriazione rigida delle conoscenze ad una loro estrapolazione dinamica, e per tale via progressiva. Nel caso di studio in questione: l’evoluzione normativa e, quindi produttiva, insieme con quella tecnologica ed organizzativa, comporta un incessante mutamento della componente «macchinica». Alla fissità ingombrante della «macchina dedicata» fordista per la produzione di massa sempre uguale a sé stessa corrisponde, allora, la leggiadria immateriale di software adattati a produzioni mutevoli.

Come per la tempificazione, anche il processo di assoggettamento del lavoro non si risolve una volta per tutte. Al contrario esso, come una inondazione che avanzi in profondità ed estensione, travolge attività che prima lambiva, erodendone sempre più i margini di autonomia. Alla dimensione ferma e rigida del controllo sulla conoscenza e sul lavoro di matrice classica, insomma, corrisponde ora una sua versione progressiva e mutevole.

Che tale sistema comporti una dequalificazione del lavoro, poi, è evidente nella più volte sottolineata - tra l’altro come fortemente positiva - possibilità per il personale, tecnicamente non qualificato, di introdursi rapidamente in una materia (cioè di essere adibito senza difficoltà alla produzione di un diverso servizio). Nonché, nelle tante auto-riflessioni di responsabili sui margini della propria autonomia, o sulla necessità di nuove competenze tutte focalizzate sull’abilità di suscitare la motivazione dei subordinati.

Per concludere sull’apertura: l’Inps è davvero un caso emblematico. L’organizzazione per processo è stata una parentesi di grandi aspettative, entusiasmo, partecipazione per il Lavoro.

141 Ma, all’elevazione professionale con il controllo dell’intero ciclo produttivo, fa seguito una nuova ed ulteriore frammentazione delle competenze; riflettente la logica binaria dell’informatica e dell’arcipelago di procedure, in cui la produzione globale è nuovamente scomposta in micro operazioni. L’organizzazione per processi è stata, allora, l’interludio tra il prima e il dopo, l’inframmezzo tra il taylor-fordismo e il neotaylorismo. E’ stato il momento in cui il comando doveva riorganizzarsi alla luce di un riscoperto «sapere lavorativo» e del tumultuoso sviluppo tecnologico. Quest’ultimo, con le sue allettanti opportunità di concentrazione senza centralizzazione del potere, ne ha consentito, infatti, una pervasiva diffusione de-soggettivata. Per tale via anche i gangli della gerarchia si sono decimati e hanno cambiato pelle, e le maniere vellutate che hanno assunto hanno aperto varchi impensabili per il comando sul lavoro, scendendo fino in fondo, interiorizzato, fin dentro le pieghe delle fragili identità di un corpo lavorativo addomesticato.

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