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La taylorizzazione nell’industria informatica

In questo capitolo ho proceduto alla ricostruzione del processo di produzione del software, tratteggiandone i vari step, dall’avvio alla realizzazione finale. Al di là della focalizzazione sulla fase esecutiva da un punto oggettivo, non ho omesso di accennare alla molteplicità di figure coinvolte, e alle relative responsabilità ricoperte da ciascuna figura nel dispiegarsi complessivo

190 del processo. Ho altresì tentato di riferire delle dinamiche di gestione della forza lavoro che vi si intrecciano inestricabilmente. È ora giunto il momento di procedere all’analisi critica di tale dinamica lavorativa e alla verifica della rintracciabilità di una qualche forma tayloristica della produzione.

Nell’introduzione e descrizione della metodologia del «ciclo di vita del progetto», se non propriamente esplicitata, era comunque facilmente rilevabile la distinzione di una fase progettuale e di programmazione da una esecutiva e di realizzazione del lavoro, cui faceva eco conseguentemente una divisione netta tra un’aristocrazia del lavoro, chiamata a sovrintendere alla prima, e una sorta di manovalanza, preordinata all’attualizzazione della seconda. Nei colloqui con le figure manageriali o tecniche superiori si evince sempre con chiarezza, infatti, il discrimine rilevante tra lavoratori «professionisti», chiamati a partecipare alle fasi preliminari della costruzione del progetto e della sua programmazione, e quelli che, coinvolti solo nella fase esecutiva, ricevono alcuni moduli, li sviluppano e si devono accertare che siano funzionanti (posizioni che corrispondono a quelle di sviluppatori e tester, tra l’altro sempre più contraddistinte tanto dal carattere di temporaneità dell’impiego, che dal progressivo scivolamento verso il basso dei titoli di studio posseduti). Così, la forte parcellizzazione del lavoro e la consequenziale mancanza di visione d’insieme del progetto, per questi soggetti, sono considerati scontati e non problematizzati, pacificamente dati come elementi consolidati e indiscussi nella gestione dell’attività lavorativa. Come per gli operai-massa anche per gli informatici in posizione esecutive «dato il proprio ruolo, si conosce solo quanto concerne il proprio modulo», e non l’intero progetto, di cui si dispone solo di elementi di massima. L’intero progetto, quindi, nell’esperienza concreta e quotidiana del singolo, è circoscritto alla produzione portata avanti nel proprio modulo.

Ma sebbene votati alla realizzazione di un pezzetto del lavoro complessivo, e a differenza dell’applicazione storica del taylorismo, qui un’idea d’insieme risulta essenziale per svolgere il proprio lavoro. Detto altrimenti, nel settore informatico, si dà il coinvolgimento dei lavoratori esecutivi nella misura necessaria, ma con una marcata enfatizzazione retorica che faccia da contraltare all’effettiva esclusione di una forza lavoro, prevalentemente laureata, da qualsiasi ambito decisionale, rispetto a quanto chiamata a svolgere. Ma la separazione tra programmazione ed esecuzione del lavoro e la parcellizzazione della produzione, non sono i soli elementi di continuità con il taylorismo. La programmazione e gli strumenti informatici che la comunicano ai sottoposti, non ti dicono solo su cosa lavorare, il come (tecnologia, programmi, tools) e il quando, ma definiscono esattamente anche il quantum: viene cioè specificato il numero di linee di codice quotidiane e il tempo esatto entro cui rispedirle indietro.

Così, il lavoro intellettuale nell’industria informatica non costituisce, per la stragrande maggioranza di coloro che lo fanno, un reale ambito di espressione di libertà – un universo di creatività, discrezionalità e autonomia. L’esperienza decennale, la dimensione di massa della produzione di centinaia di progetti e la forte similarità tra i diversi tipi di software prodotti, nelle imprese di servizio, infatti, ha consentito la semplificazione dei meccanismi della loro produzione: il lavoratore esecutivo è spesso posto allo sviluppo delle medesime funzionalità, «copiando» e modificando solo leggermente linee di codice elaborate in passato per progetti analoghi, ovvero precostituite nelle metodologie adottate. D’altra parte, pure nelle imprese di prodotto, si dà la scomposizione del lavoro in moduli da completarsi in tempi rigorosamente definiti. Nell’uno come nell’altro caso, allora, e al di là della parcellizzazione estrema del lavoro,

191 viene fatta corrispondere una stima dei tempi di produzione che classifica le funzioni in ragione della loro complessità, incrociate con il livello di competenza per ciascun lavoratore, in base alla sua minore o maggiore esperienza.

Le stime, poi, non sono date una volta per tutte, ma riviste in ragione degli incrementali miglioramenti della produttività relativi tanto agli sviluppi tecnologici che metodologici. Così il monitoraggio continuo e la registrazione quotidiana delle mansioni svolte, con relativi tempi, consentono di fare, in modo progressivo e continuativo, quelle sperimentazioni che Taylor svolgeva solo a monte del processo di riorganizzazione su base scientifica.

In qualsiasi realtà aziendale, grande, media o piccola che sia, infatti, viene dedicato molto tempo alla ideazione, codifica e registrazione del lavoro da compiere e compiuto, oltre che alla sua effettiva realizzazione. La definizione della documentazione ex ante di carattere generale e di dettaglio, assume un ruolo molto ampio e significativo nell’intersezione tra il lavoro di programmazione e quello esecutivo, occupando fino alla metà del tempo globale del progetto e per velocizzarne la realizzazione. Questo corposo e ingombrante processo di documentazione non risparmia né le funzioni alte né quelle basse nella scala gerarchica, ponendosi non solo come attività propedeutica all’esecuzione progettuale, ma anche (nella sua dimensione ex post) come funzione rilevante per il meta-processo organizzativo nel suo insieme. E ciò proprio perché la documentazione delle attività nel lavoro immateriale assume una doppia funzione: non solo serve ad imporre e controllare le modalità di esecuzione del lavoro, ma anche, contemporaneamente, ad effettuare quel processo continuo di acquisizione delle conoscenze sui processi lavorativi per il loro miglioramento nel tempo, che si tradurrà in una ulteriore formalizzazione e standardizzazione dei ruoli esecutivi, coinvolgendo anche quelle figure manageriali e tecniche che nel primo taylorismo erano i fautori della codificazione del lavoro altrui e che qui, pur continuando ad esserlo, finiscono per diventarne parimenti, e a loro volta, vittime (sommando ad un controllo verticale, dall’alto verso il basso, interno all’azienda, anche un controllo orizzontale, tra azienda cliente e azienda a cui è esternalizzata l’attività).

Se ciò attiene agli aspetti oggettivi del lavoro, sotto il versante soggettivo, un articolato complesso di attività, istituzionalizzata nei Dipartimenti della Gestione delle Risorse umane, si esercita sull’intero corpo lavorativo e sui singoli che lo compongono: dal momento della ricerca di questi ultimi fino alla risoluzione dei relativi rapporti di lavoro. La selezione investe l’aspirante collaboratore nella sua totalità: non solo la preparazione tecnica, ma anche la sua personalità e le attitudini interpersonali, comunicative ed estetiche debbono coincidere con le predefinite prescrizioni della Job description. La retorica della formazione continua e dell’investimento nel capitale umano, al di là dei roboanti proclami, non trova però applicazione concreta nella prassi aziendale: un addestramento informale affidato ai Senior per i neoassunti o, più diffusamente, scaricati sulla pratica on the job. Il loro veloce apprendimento è facilitato dalla forte motivazione di partenza e dalla non particolare complessità dei compiti da svolgere.

Una gestione incessante del Lavoro sotto il profilo relazionale pervade poi la vita aziendale: impegno, rendimento, ma anche disposizione interpersonale e umori di ciascun dipendente sono fatti oggetto di rilevazione, annotazione e immediato intervento, da parte del personale HR di Frontline, dei Team lead e del Management di linea, al fine di scongiurare dimissioni sgradite – implicanti rallentamento del lavoro e costi aggiuntivi per la selezione delle risorse sostitutive. Riunioni, conversazioni individuali, eventi sociali e un ampio bacino di premi e riconoscimenti servono allora come meccanismi immediati di intervento a fronte dei preoccupanti segnali

192 relativi a cali motivazionali o comunque destinati a rafforzare il commitment. Addestramento e cooperazione propri del taylorismo classico, e formazione continua e coinvolgimento dei lavoratori enfatizzati nel contesto descritto, mostrano infatti una significativa assonanza teorica quanto pragmatica: in entrambi i casi lo spessore qualitativo dell’addestramento e della formazione (se non praticamente del tutto assente), è quanto meno insussistente, rappresentando piuttosto mera memorizzazione delle procedure e dell’uso della strumentazione collaterale. Mentre, d’altra parte, cooperazione e coinvolgimento costituiscono pratiche formali e funzionali al controllo, alla motivazione e alla corretta esecuzione del lavoro. Del resto, come potrebbero coniugarsi crescita professionale ed esecuzione del lavoro, una volta privati di discrezionalità, autonomia e varietà, nel primo come nel secondo caso?

Tanto i fattori motivanti che quelli igienici (Herzberg, 1959) mi suscitano qualche perplessità: ad una struttura della produzione per squadre, in cui il singolo lavoratore e il suo cronometrista vengono sostituiti da team di due/cinque persone guidate da un lead, fanno da contraltare ben affilati strumenti di disarticolazione di classe: una sofisticata individualizzazione del corpo lavorativo giocata intorno ad una contrattazione individuale e ad un’elaborata messa in competizione quotidiana e permanente nei sistemi di Performance appraisal, la cui centralità nella vita organizzativa e lavorativa si esprime propriamente nell’elevato numero di dimissioni che di solito vi fanno immediatamente seguito.

Eppure la percezione della soddisfazione circa il proprio lavoro presenta caratteri ambigui e discordanti. A descrizioni poco allettanti di esso, si fanno seguire, a domande dirette, commenti non consequenziali, che attribuiscono ad altro noia e ripetitività (che pure qui qualcuno ha additato: così chi lavora nelle imprese di servizio verso quelle di prodotto, i tester rispetto ai coder, e viceversa). Risulta molto difficile riconoscere a sé stessi e a terzi gli aspetti problematici della propria condizione lavorativa. E ciò perché non se ne ha propriamente consapevolezza, o perché, se la si possiede, istintivamente viene comunque di operare una sorta di «auto- ovattamento» della quotidianità in cui si è installati, o perché si fatica tra la percezione soggettiva e il bombardamento retorico esterno, dell’ambiente lavorativo (delle cui frasi e slogan, spesso, si diviene meccanici messaggeri).

Così tutto sommato, a ben vedere, negli alti tassi di turnover più che un’effettiva mania individualistica verso l’autorealizzazione e l’accrescimento professionale, si ravvisa la condizione miserrima in cui versa il Lavoro, ed è questa a rappresentare la molla per il suo abbandono. Ci si esprime e scherma dietro le altisonanti parole del capitalismo della conoscenza, ma di fatto si reagisce alle prassi più becere di organizzazione e sfruttamento del lavoro.

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TERZA PARTE