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L’accertamento del presupposto soggettivo

L’art 96, 3° comma c.p.c.

2.4. L’accertamento del presupposto soggettivo

Una particolare attenzione è riservata, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, al presupposto dell’accertamento dell’elemento del dolo ovvero della colpa grave. Se l’abrogato art. 385, 4° comma c.p.c., infatti, richiedeva espressamente che la parte soccombente avesse proposto ricorso o vi avesse resistito anche solo con colpa grave, la norma introdotta nel 2009 omette alcun riferimento al riguardo.

Secondo alcuni autori, la fattispecie, in quanto autonoma rispetto a quella contenuta all’interno del 1° comma, prescinderebbe dall’accertamento del presupposto a carattere soggettivo, essendo sufficiente l’esistenza di un contegno sanzionabile130. Questa sorta di

responsabilità processuale aggravata oggettiva è criticata da una diversa parte della dottrina, ad avviso della quale la soluzione potrebbe portare a ipotesi estreme di condanna della parte soccombente per aver semplicemente esercitato il diritto di agire o difendersi in giudizio con esiti negativi, così comportando una possibile lesione dell’art. 24 Cost.131. Alcune pronunce di merito hanno, inoltre, ritenuto che l’art. 96, 3° comma c.p.c., pur costituendo un rimedio di natura sanzionatoria

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Bucci A.-Soldi A.M., Le nuove riforme del processo civile. Processo di esecuzione,

processo di cognizione, procedimenti sommari di cognizione, ricorso per cassazione. Commento alla legge 18 giugno 2009, n. 69, Padova, 2009, p. 78;

Carratta A., L'abuso del processo e la sua sanzione: sulle incertezze applicative

dell'art. 96, comma 3, c.p.c., in Fam. dir., 2011, p. 809.

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Porreca P., Il governo delle spese processuali dopo la legge n. 69 del 2009, relazione tenuta presso il corso di formazione per magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura sul tema “Governo delle spese processuali e ambito di applicazione dell’art. 614-bis c.p.c.”, Napoli, 29 settembre 2010, p. 16.

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che non richiama espressamente nessun elemento psicologo, necessiterebbe, nondimeno, di un accertamento della violazione del principio di lealtà e probità ai sensi dell’art. 88 c.p.c.132 Un altro

indirizzo, accolto tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, reputa sufficiente una rimproverabilità del contegno fraudolento al sol titolo di colpa lieve, in quanto la disposizione sarebbe legata a forme di abuso del processo meno gravi rispetto a quelle considerate dal 1° comma133.

Questa tesi è suscettibile di valutazioni critiche, nella misura in cui andrebbe a limitare eccessivamente l’esercizio del diritto sancito dall’art. 24 Cost., in vista della possibilità di andare incontro a condanna anche in presenza della sola culpa levis. La posizione prevalente in dottrina134 e nella giurisprudenza di merito135, attualmente confermata dai giudici di legittimità, propende per il necessario accertamento dell’elemento subiettivo del dolo ovvero della colpa grave, quale presupposto indispensabile sia della pena privata che della tutela riparatoria. In questo senso, qualora siffatto stato soggettivo venisse tralasciato, sarebbe integrata una violazione del principio della responsabilità personale e dell’imputabilità e sarebbe, peraltro, riconosciuto un potere praticamente arbitrario in capo al giudice136. La

132 Cfr. Trib. Catanzaro, 18 febbraio 2011, in Giur. mer., 2011, 2698.

133 Cfr. Trib. Terni, 17 maggio 2010, in Giur. it., 2011, 143; Trib. Torino, 16 ottobre

2010, in Giur. mer., 2011, 2701; v. anche Graziosi A., Alcune prime notazioni sulla

riforma del 2009, in Giur. mer., 2010, p. 1347; Tallaro F., Condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata ex art. 96 comma 3 c.p.c., in Giur.

mer., 2010, p. 1988.

134 Balena G., La nuova pseudo-riforma della giustizia civile, cit., p. 769; Briguglio

A., Le novità sul processo ordinario di cognizione nell’ultima, ennesima riforma

in materia di giustizia civile, in Giust. civ., 2009, p. 270; Scarselli G., Il nuovo art. 96 3° comma c.p.c.: consigli per l’uso, cit., p. 2237.

135 Cfr. Trib. Padova, 10 novembre 2009, in Giur. mer., 2010, 1858; Trib. Bari, 28

aprile 2010, in Foro it., 2011, 2171; Trib. Oristano, 17 novembre 2010, in Foro it., 2011, 2200; Trib. Foggia, 28 gennaio 2011, in Giur. mer., 2011, 2698; Trib. Verona, 12 gennaio 2012, inDir. fall., 2012, 729.

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Corte di Cassazione ha confermato quest’ultimo indirizzo, nel 2012, ravvisando che «l'art. 96 comma 3 c.p.c. […] indubbiamente presuppone il requisito della mala fede o della colpa grave, non solo perché è inserito in un articolo destinato a disciplinare la responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che alla fine si rileva infondata non costituisce condotta di per sé rimproverabile»137. Gli ermellini, invero, avevano già percorso questa

strada, nell’interpretare la previsione di cui all’art. 385, 4° comma c.p.c., e avevano affermato che la condanna potesse essere pronunciata ove la parte soccombente avesse agito, se non mediante dolo, almeno con colpa grave138.

2.5. La domanda

La condanna per responsabilità processuale aggravata ex art. 96, 3° comma c.p.c. può essere disposta su istanza di parte ovvero d’ufficio. La terminologia adottata dal legislatore, con la novella del 2009, secondo la quale «il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente», non significa, infatti, che sia preclusa l’istanza proveniente dalla parte.

Secondo parte della dottrina, la pronuncia ex officio si porrebbe in possibile contrasto con i principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Tale tensione si appalesa soprattutto ove si consideri che beneficiario della condanna sia pur sempre la parte vittoriosa, non invece lo Stato. La violazione dei suddetti principi si

137 Cfr. Cass., 30 novembre 2012, n. 21570, in Foro it. Rep, 2012, 54. 138 Cfr. Cass., 18 gennaio 2010, n. 654, in Giur. it. Mass., 2010.

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manifesterebbe ogniqualvolta il vincitore si vedesse attribuire un vantaggio patrimoniale, pur non avendolo richiesto139. Alcune problematicità derivano dal fatto che, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, come in precedenza argomentato140, non sia possibile constatare un’univocità di opinioni in ordine alla natura e alla portata dell’art. 96, 3° comma c.p.c. e, in particolare, nel ricondurre o meno la previsione nell’alveo della responsabilità civile; un’eterogeneità di convincimenti che non prospetta soluzioni esaustive. Qualora la fattispecie fosse letta come una sanzione a rilevanza esclusivamente pubblicistica, ne deriverebbe una difficoltà nel coordinarne il contenuto con la previsione di un ristoro del danno riconosciuto alla parte privata. Un diverso orientamento ravvisa nella disposizione, oltre a interessi pubblici diretti a garantire le funzionalità del sistema, esigenze privatistiche volte a tutelare il vincitore. Le conseguenze consisterebbero in una riparazione del danno in via presuntiva, sulla base del principio id quod plerumque accidit, in ragione del presumibile nocumento che la parte patisca dalla celebrazione di un processo irragionevole. In tal caso, la liquidazione potrebbe avere ad oggetto il solo danno riscontrato dal giudice durante lo svolgimento del processo. Un’ulteriore questione problematica, strettamente connessa, deriverebbe dalla delimitazione dei poteri riconosciuti al giudice. Sul punto, è necessario partire dalla constatazione offerta da parte della dottrina e volta a prospettare una vicinanza tra la pronuncia ex art. 96, 3° comma c.p.c. e la condanna alle spese di lite, la quale deve essere

139 Mocci M., Il punto sulle spese processuali alla luce della riforma, cit., p. 924. 140 Sul punto si rimanda alla trattazione contenuta nei paragrafi 2.3. e 2.3.1.

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comminata dal giudice, anche ex officio141. Una diversità tra i due istituti sarebbe in ogni caso riscontrabile, poiché mentre la statuizione sulle spese è una condizione imprescindibile della decisione nel merito, la condanna avente ad oggetto il pagamento di una somma equitativamente determinata non necessariamente segue la suddetta pronuncia142. Questa non perfetta sovrapposizione evocherebbe la

mancanza di un potere del giudice basato su rigidi parametri di valutazione, e sarebbe piuttosto riscontrabile una discrezionalità ogniqualvolta il danno non possa essere provato nel suo esatto ammontare. Siffatta conclusione non precluderebbe la lettura della norma in termini di rimedio risarcitorio, non escludendo, invero, l’accertamento dell’esistenza di un pregiudizio causalmente collegato al comportamento temerario. La valutazione della ricorrenza dei presupposti della fattispecie è affidata al giudice, e l’effettiva cognizione consentirebbe di tracciare i confini tra un potere discrezionale ovvero arbitrario.

Infine, in relazione all’applicabilità dell’istituto nei confronti del convenuto che sia rimasto contumace, la posizione prevalente esclude che l’assenza di un contegno processuale riconducibile alla parte possa comportare la condanna ai sensi dell’art. 96, 3° comma c.p.c.143. Tale

orientamento muove dalla considerazione secondo la quale la scelta di non costituirsi in giudizio abbia carattere neutro, non incidendo specificamente sull’accoglimento o sul rigetto della domanda144. Ad

avviso di un diverso e minoritario indirizzo, in mancanza di un espresso

141Giordano R., Spese del processo. Nel procedimento ordinario, di esecuzione,

sommario e in camera di consiglio, Milano, 2012, p. 87.

142 Trapuzzano C., La responsabilità processuale aggravata, cit., p. 355. 143 Cfr. Trib. Varese, 16 febbraio 2011, in Giust. civ., 2011, I, 2969. 144 Trapuzzano C., La responsabilità processuale aggravata, cit., p. 361.

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riferimento alle parti costituite, la fattispecie potrebbe essere applicata anche nei confronti del convenuto contumace, rilevando talune condotte abusive tenute al di fuori del processo, che siano dimostrate in giudizio145.