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L’esercizio del potere nell’antichità di Emma Pomilio

LA STORIA COME INTRIGO DI POTERE

3.5 L’esercizio del potere nell’antichità di Emma Pomilio

Anche l’architettura de Il ribelle164

di Emma Pomilio è coerente con lo schema individuato: un personaggio di invenzione vive una personale

163 Ivi, pag. 122-123

164

Emma Pomilio, Il ribelle, Mondadori, Milano, 2008. Il romanzo costituisce il primo

capitolo di una iniziativa editoriale promossa da Mondadori e posta sotto la supervisione letteraria e scientifica dello scrittore e archeologo Valerio Massimo Manfredi, che è stata lanciata con il titolo Il romanzo di Roma. Si tratta a tutti gli effetti di nove romanzi indipendenti, affidati a sei scrittori diversi, e ognuno dedicato a un evento o a un’epoca della millenaria storia di Roma. Apre la collana Il ribelle di Emma Pomilio, cui seguono in rapida successione Carthago di Franco Forte, Spartaco di Mauro Marcialis, Il mago e

l’imperatrice di Claudia Salvatori, L’aquila di sabbia e di ghiaccio di Massimo Pietroselli, Danubio rosso di Alessandro Defilippi, Roma in fiamme di Franco Forte, Il sangue dei fratelli di Emma Pomilio.

crisi interiore che lo porta ad allontanarsi dalla propria terra d’origine e dalla propria cultura, rimettendo in discussione il suo stile di vita e le sue certezze; entra in contatto con una cultura diversa, apparentemente più arretrata, dalla quale si sente però potentemente attratto e con la quale finisce per identificarsi, pur mantenendo verso di essa un distanziamento critico che costituisce per il lettore una garanzia di attendibilità; stringe una relazione di fiducia e amicizia con personaggi storici che detengono il potere, occupano il centro della scena narrativa, e determinano con le loro scelte svolte storiche di importanza capitale, le cui ripercussioni giungono fino al presente; è portatore di una visione della realtà e di una sensibilità così moderne da risultare incoerenti con il periodo storico rappresentato; esercita sui personaggi storici la propria influenza, spingendoli ad assumere quei provvedimenti che innescano le svolte sopra menzionate; è testimone della vera natura del potere, che consiste in un precario equilibrio di interessi contrapposti, sempre pronti ad alimentare una trama di congiure eversive.

Nello specifico, protagonista del romanzo è il comandante della cavalleria della città di Tarquinia, un nobile etrusco che uccide la bellissima moglie e nipote del re, dopo averne scoperto l’ennesima infedeltà. Abbandona così gli agi di una condizione privilegiata e le raffinatezze di una civiltà progredita e opulenta per fuggire dalla vendetta del suocero. Il suo gesto estremo cela in realtà un disagio più profondo: il suo temperamento scettico, la sua cultura modernamente incline a rimettere in discussione la gerarchia tradizionale dei valori, la sua abitudine alla freddezza e al calcolo testimoniano di uno strappo violento avvenuto dentro Come recita il sottotitolo, Il ribelle narra «l’avventura della fondazione» della città di Roma e con essa «l’alba di un mondo nuovo»: il romanzo si muove dunque su un terreno per il quale non si dispone di una solida documentazione, un’epoca per così dire sospesa fra storia e leggenda, che lascia, almeno in teoria, ampio margine alla componente immaginativa. In realtà, l’opera appare sin dalle prime pagine protesa nel tentativo di ricostruire uno scenario storico realistico e affidabile, limitando al massimo gli sconfinamenti nel territorio del mito. A conferma di questa impostazione, la Nota dell’autrice precisa puntigliosamente le fonti storiche utilizzate, che spaziano dalla storiografia classica alle informazioni desunte dalle campagne di scavo archeologico condotte sul territorio romano, ed argomenta la verosimiglianza della propria ricostruzione storica alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche.

di lui. Nel corso del romanzo emergono le motivazioni profonde che hanno originato la sua crisi esistenziale (la ribellione cui allude il titolo) e che sono ben sintetizzate da questo frammento di dialogo:

«Qui da voi tra gli uomini non ci sono distinzioni molto nette. Noi, invece, siamo ricchi da molti decenni di più. Le distinzioni si sono radicate e un uomo ricco da tempo è considerato superiore agli altri, è diventato nobile.

Quell’uomo si arroga dei privilegi, crede di poter fare quello che vuole con chi è meno ricco. Si circonda di sgherri e, poiché contro la forza la ragione non vale, lui può pretendere che il povero lavori le sue terre senza avere nemmeno la possibilità di andarsene da un’altra parte a trovarsi un altro ricco. Gli può violentare la moglie, tanto il povero non ha difensori.

Io comandavo un drappello di cavalleria della mia città, eppure molte volte non sono stato chiamato a difendere la città, ma a costringere i poveri a fare quello che volevano i ricchi»165.

Larth (questo è il nome che l’etrusco adotta nella sua nuova vita) vive dunque una propria crisi esistenziale e di identità: portatore di una anacronistica visione egualitaria e democratica, disprezza se stesso per la propria condizione di privilegio e per il suo ruolo di stampella ad un potere oppressivo, che legittima un modello sociale ingiusto. Non a caso la sua fuga, originariamente diretta verso le ricche città della Magna Grecia, si arresta sui colli romani: è qui, infatti, che Larth si imbatte in una comunità di pastori certamente arretrata, ma non ancora segnata dalle profonde contraddizioni del suo mondo e dinamicamente proiettata verso il futuro sulla base di una solidità morale ormai scomparsa dalla società etrusca. Qui entra in contatto con Romolo e Remo, capipopolo riconosciuti dalla comunità alla quale appartengono per le naturali doti carismatiche e di leadership, e di cui accompagnerà l’astro nascente in mezzo agli intrighi orditi dai sovrani confinanti e da mestatori in cerca di opportunità di arricchimento personale.

È Larth che guida Romolo verso il compimento del suo destino, anche a prezzo della contrapposizione frontale con Remo e dello spargimento di sangue fraterno. Se infatti l’etrusco ha ammirato fin da subito in lui le doti ideali di un re (la capacità cioè di ragionare con freddezza, di deporre la violenza a favore della diplomazia, di anteporre il bene collettivo a quello personale), Romolo ha a sua volta assorbito da Larth il progetto utopico di una città giovane, aperta, fondata sul consenso, sulla partecipazione dal basso, sull’uguaglianza delle opportunità, sull’assenza di rigide barriere tra le classi sociali: una comunità che rimette al centro l’uomo e che ha tratti di somiglianza con il moderno sogno americano, come ben testimonia il seguente passo:

Nelle campagne e nei pascoli spargevano la voce di una comunità che accoglieva gente senza protezione e desiderosa di cambiare, dove c’era posto per tutti e la possibilità anche per i servi e gli schiavi, che non erano considerati degni delle armi, di combattere come uomini liberi e proprietari delle loro terre. Dunque possibilità per tutti di mettersi in luce e di cambiare la propria vita.166

L’avventura della fondazione di Roma è rappresentata come la faticosa tessitura di una rete di alleanze per realizzare un progetto comunitario fondato su valori egualitaristici: un progetto assorbito dall’esterno e calato dall’alto, sempre in equilibrio instabile, per il ciclico riproporsi di controffensive reazionarie da parte di isolati gruppi di potere, sulle quali peraltro il romanzo si chiude.

Se più accurata, rispetto ad altre opere di questa famiglia, è la rappresentazione delle condizioni socio-economiche, degli interessi commerciali in gioco, del profilo culturale dei popoli considerati, nondimeno tutti questi aspetti rimangono proiettati sullo sfondo: in primo piano sono collocate le figure dei sovrani e dei capitribù, e la storia appare essenzialmente il frutto di un progetto concepito dall’alto, nelle menti di pochi personaggi dotati di una visione lucida del futuro e delle virtù

indispensabili per tradurlo in realtà. Anche in questo romanzo si assiste dunque al tramonto di una concezione della storia come processo necessario, intrinsecamente dotato di senso, logos; ad essa si sostituisce l’idea di una storia come esito di circostanze occasionali (la fuga di Larth) e di individui eccezionali (Romolo), capaci di concepire progetti profetici puntualmente osteggiati da gruppi di potere tesi alla conservazione dei propri privilegi.

Con La notte di Roma167 Pomilio esplora un periodo diverso della storia romana, l’età aurea del principato augusteo, ma la struttura impiegata rimane la stessa già illustrata a proposito degli altri romanzi di questa famiglia, con una precisazione che riguarda la crisi vissuta dal personaggio di invenzione: se ne Il ribelle della stessa Pomilio il percorso del protagonista poteva essere considerato una forma di avvicinamento ad una cultura diversa, ed in effetti l’incipit descriveva un personaggio estraneo a quella cultura, che però poco per volta imparava ad apprezzare identificandosi con essa, pur senza perdere una lucidità di giudizio che derivava dalla propria diversità, ne La notte di Roma sul momento dell’avvicinamento sembra prevalere quello opposto di allontanamento del personaggio dalla cultura d’origine. Ciò dipende in larga misura dalla scelta prospettica: il giudizio ed il punto di vista di quel personaggio non vanno infatti ad illuminare la nuova civiltà nella quale viene accolto, bensì, con un movimento retrospettivo, esercitano il proprio sguardo critico sulla civiltà d’origine. Essa viene osservata con uno sguardo nuovo, ormai incapace di piena identificazione.

La rappresentazione del principato augusteo, l’età aurea della storia romana, è dunque condotta secondo una prospettiva inconsueta e

167 Emma Pomilio, La notte di Roma, Mondadori, Milano, 2009. Il titolo allude alla sconfitta subita dai Romani nella battaglia di Teutoburgo del 9 d.C., alla quale la storiografia generalmente imputa la mancata espansione romana in territorio germanico al di là del fiume Reno, nell’Europa centro-orientale. Il romanzo si concentra su di un arco temporale molto limitato, di soli due anni, dall’8 al 10 d.C. Come già nel precedente Il

ribelle non vengono sfruttate a fondo le potenzialità epiche di un evento tanto evocativo,

per lasciare maggiore spazio all’indagine di ciò che avviene nelle sfere in cui il potere è detenuto e concretamente esercitato.

minoritaria. Ciò avrebbe potuto essere conseguito anche adottando il punto di vista di un personaggio appartenente ad una civiltà decisamente avversa a quella romana, e tuttavia va riconosciuto che questa scelta avrebbe comportato una perdita di complessità e di problematicità. All’opposto, la prospettiva adottata consente di rappresentare la realtà storica in modo ambiguo, attraverso un groviglio di sentimenti e di emozioni (appartenenza ed estraneità, amore e odio, nostalgia e disprezzo) difficilmente razionalizzabili e spesso contraddittori.

Il protagonista è Lucio Cornelio, un esponente di una delle famiglie aristocratiche più in vista della città, che conduce una vita oziosa e dissoluta, dedita alle corse di cavallo e alle avventure extraconiugali. Sospettato per i suoi rapporti con Giulia, nipote di Augusto, di essere coinvolto in una congiura contro il principe, decide di allontanarsi da Roma e si trasferisce presso le truppe romane di stanza in Germania. Qui entra in contatto con il primo personaggio storico di una certa notorietà, il barbaro romanizzato Arminio, che sta organizzando una sommossa. Unico tra gli ufficiali, oscuramente intuisce la sua volontà di tradire gli alleati romani, unendo le popolazioni germaniche per scongiurare il rischio di una futura conquista. Ridotto in schiavitù insieme ai pochi superstiti, è rinviato in patria su mandato di Arminio per recuperare un gioiello che riappare continuamente nei sogni della giovane profetessa Hilda, ispiratrice della rivolta.

A questo punto la crisi culturale e di identità di Lucio si delinea compiutamente: fedele al concetto di impero, egli comprende le ragioni che muovono le popolazioni germaniche contro Roma; depositario di una mentalità secolarizzata, ammira il fervore religioso dei barbari; abituato al lusso e alle mollezze, riconosce nella frugalità dei nemici la radice della loro virtù. Si tratta ancora una volta di un personaggio portatore di una mentalità e di una sensibilità sbilanciata sul versante della contemporaneità: egli intuisce le contraddizioni su cui si fonda il mondo romano e l’inevitabile catastrofe verso il quale è avviato. A lacerare ulteriormente la sua personalità interviene l’atteggiamento del princeps Ottaviano che, per

ragioni di natura politica, decreta la morte di tutti i sopravvissuti alla battaglia: ciò fa maturare in lui una profonda sfiducia nei confronti dell’assetto istituzionale assunto da Roma dopo la caduta della repubblica. Lucio appare così un personaggio sospeso tra due mondi e due civiltà, incapace di voltare le spalle alle propria cultura così come di abbracciare fino in fondo quella germanica. Significativamente il romanzo si conclude con l’unione di Lucio ed Hilda e il loro trasferimento in una regione lontana sia da Roma sia dal territorio germanico.

La moderna consapevolezza maturata da Lucio si misura con le alte sfere del potere romano: di rientro nella capitale, incontra segretamente Giulia e soprattutto Livia, moglie di Ottaviano, con la quale intrattiene un lungo colloquio. La nuova sensibilità di Lucio ha modo di manifestarsi e viene recepita dalla donna più potente di Roma come una rivelazione:

«Eppure non possiamo scacciare i barbari, siamo circondati su tutti i confini»168.

Si tratta di una affermazione nella quale si coglie un repentino cambio di prospettiva: all’entusiasmo del movimento espansivo si contrappone la consapevolezza della propria fragilità, all’ideologia della conquista e della romanizzazione si sostituisce il moderno progetto di una società aperta, libera da barriere fisiche ed ideologiche, multiculturale, davvero rispettosa delle diversità.

Come in molti romanzi di questa famiglia il personaggio di invenzione si fa dunque portatore di una visione della storia profetica. Visto attraverso la prospettiva di Lucio, il principato di Ottaviano assume così le sembianze di un potere autoritario, esercitato per mezzo di informatori, clientele, reti di alleanze cementate dalla corruzione, provvedimenti ipocriti: un potere miope, proteso a conservare lo status quo e a rinviare l’inevitabile declino. La caduta di Roma sotto la pressione dei barbari appare già in nuce nella cecità politica di Ottaviano, che soffoca un progetto di riassetto sociale e culturale dell’impero. La direzione della

storia rimane saldamente nelle mani dei potenti, siano essi barbari o Romani, appare modellata dalle loro decisioni e non scaturisce mai dalla composizione delle istanze espresse da classi sociali diverse. Qui la rappresentazione del corpo sociale, delle condizioni economiche del popolo, del costume e della cultura rimane del tutto marginale, perché il romanzo si focalizza sulla vita politica, sull’esercizio del potere e sui suoi rappresentanti pro tempore.

La storia che interessa a Pomilio è quella che si sviluppa ai piani superiori della gerarchia sociale, quella che coinvolge i potenti, che indaga il loro mondo e le modalità con cui prendono decisioni destinate ad incidere sulla collettività. L’immagine che si trae dalle sue opere è quella di una storia manovrata dall’alto, nel chiuso dei palazzi, attraverso spie, torbide manovre, ricatti, congiure, tradimenti, alleanze basate su reciproche convenienze sempre suscettibili di ridefinirsi secondo nuovi equilibri. Ciò che accomuna le opere di Pomilio agli altri romanzi di questa famiglia è l’impiego del genere storico per raccontare i retroscena della storia, per smascherare le ipocrisie, le iniquità, le inquietudini connesse con l’esercizio del potere, mentre la storia degli umili o semplicemente del corpo sociale considerato nel suo insieme rimane sostanzialmente ignorata.