• Non ci sono risultati.

La storia falsificata di Renzo Rosso

LA STORIA COME INTRIGO DI POTERE

3.6 La storia falsificata di Renzo Rosso

Lo schema delineato per questa famiglia di romanzi storici opera anche ne Il trono della bestia169 di Renzo Rosso, dove appare però inglobato all’interno di un organismo più complesso e sofisticato. Rimangono saldi gli elementi strutturali di fondo: esiste un personaggio di invenzione, dotato di caratteristiche che lo rendono in qualche modo portatore di istanze della modernità, che vive una personale lacerazione interiore, in questo caso di natura spirituale; si assiste poi all’allontanamento dalla sua dimora abituale e al suo ingresso all’interno delle stanze del potere, a stretto contatto con personaggi storici molto noti; nel corso del romanzo avviene il suo apprendistato, che lo porta al

superamento della crisi e alla maturazione di una visione della realtà sostanzialmente anacronistica, in quanto lascia trasparire evidenti tratti di una sensibilità moderna; la storia è osservata attraverso il suo angolo visuale: è dunque la storia del potere, che viene esercitato attraverso relazioni di natura personale: alleanze familiari, trame, congiure, corruzione. Il giudizio che tale personaggio esprime sugli eventi storici di cui è diretto testimone è strettamente correlato alla sua condizione di crisi interiore, nella quale le ragioni del distacco e quelle dell’immedesimazione convivono in un impasto contraddittorio e sofferto: egli può restituire così del passato un quadro in chiaroscuro, che gode agli occhi del lettore di una propria autorevolezza e credibilità. La prospettiva della quale si fa portatore appare funzionale all’autenticazione della ricostruzione del passato.

Nel Trono della bestia170 questa struttura fondamentale si integra in un meccanismo più articolato, che restituisce una maggiore complessità alla rappresentazione del passato: lo scrittore triestino si preoccupa infatti di inscenare all’interno della finzione il processo di costruzione della memoria storica, avviando così una riflessione di natura metastoriografica. Ciò non comporta tuttavia il ricorso ad una architettura organizzata su più livelli, con una cornice nettamente separata dal corpo della narrazione. Al contrario, la narrazione è condotta dall’inizio alla fine da un narratore eterodiegetico che tende ad assumere sistematicamente il punto di vista del protagonista.

Nella diegesi viene introdotto il motivo della redazione di una cronaca fondata sul racconto testimoniale di fatti storicamente rilevanti: essa è collocata al centro della rappresentazione romanzesca e si compone nella forma di epistole inviate a scadenza regolare ad un destinatario

170

Renzo Rosso, Il trono della bestia, Piemme, Casale Monferrato, 2004. Il romanzo è ambientato all'inizio dell'anno Mille. Vilderico da Sutri vive nel monastero di Farfa, in Umbria. È uno studioso, e la sua abilità nella scrittura l'ha portato a diventare un amanuense di valore. Ma la serenità della sua esistenza viene sconvolta il giorno in cui l'abate decide di inviarlo a Roma con l'incarico di compilare la cronaca delle vicende dei papi. All'improvviso, l'ingenuo Vilderico viene sbalzato in un mondo dove potere, corruzione, denaro regnano sovrani. Benedetto IX, il crudele e depravato papa ragazzino, è assurto al soglio pontificio all'età di soli quattordici anni. Vilderico osserva e registra sgomento le lotte per la supremazia fra le diverse casate romane, le lotte fra papato e impero.

interno alla finzione. Questo espediente lascia emergere in modo naturale l’evoluzione del punto di vista di un personaggio dinamico, che nel corso degli anni matura una propria sofferta visione della realtà. La rappresentazione della storia tende, inoltre, a sdoppiarsi: accanto alla cronaca epistolare del personaggio-testimone si colloca infatti la narrazione condotta direttamente dal narratore eterodiegetico. Si assiste così all’accadere di un fatto storico e alla sua immediata traduzione in scrittura memoriale.

Vi è infine un altro piano che complica il gioco di rifrazione, testimoniando della maggiore complessità dell’operazione tentata da Rosso: accanto alla cronaca privata in forma epistolare, il protagonista è costretto a redigere una seconda cronaca destinata agli archivi storiografici ufficiali. A questo livello il personaggio di invenzione è costretto dal potere ad operare una sistematica falsificazione della verità, che viene ulteriormente sottoposta ad una censura precauzionale.

Il lettore assiste così ad una triplice rappresentazione del passato ed è indotto a dubitare delle ricostruzioni dei fatti offerte dagli organismi ufficiali a favore di versioni minoritarie e clandestine, trasmesse attraverso un circuito privato sul quale il potere tenta comunque di esercitare la propria censura. Ciò non coincide con l’assunzione di un atteggiamento rinunciatario nei confronti dell’attingibilità della verità, che pare invece esistere concretamente sebbene minacciata per questioni relative all’autoconservazione del potere stesso.

Il modulo impiegato ne Il trono della bestia appare dunque funzionale a dare espressione ad una sensibilità tipica del nostro tempo, in cui l’invadenza della comunicazione tende a coincidere, nella mente di chi ne è destinatario, con una sistematica falsificazione della verità e a rovesciarsi in un vuoto comunicativo da colmare attraverso l’accesso ad una controinformazione incontrollata e non mediata dagli strumenti di comunicazione tradizionali.

La familiarità ideologica, tonale e strutturale di quest’opera con gli altri romanzi qui raggruppati appare evidente: protagonista è Vilderico da

Sutri, giovane monaco amanuense dell’abbazia di Farfa nell’anno 1032. Su di lui l’autore proietta una sensibilità tanto moderna da apparire anacronistica: a differenza degli altri monaci, Vilderico è un curioso osservatore della natura e degli uomini, un avido lettore di libri antichi, sui quali si interroga alla ricerca della verità; è animato da una fede pura che lo spinge a praticare i più umili con uno spirito di carità autentica; si interroga problematicamente sul significato della sua vita monastica, di cui vive l’isolamento dal mondo con perplessità: da un lato esso costituisce un fattore di protezione e di tranquillità interiore, dall’altro gli appare come un tradimento di una vocazione pienamente vissuta. Nelle prime battute del romanzo prevale in lui un atteggiamento di chiusura rinunciataria, legato ad una misteriosa tragedia familiare che viene recuperata in analessi attraverso frammenti di ricordi ed incubi. Ben presto, tuttavia, egli è costretto ad affrontare le proprie paure e a mettere alla prova la propria fede sofferta: è infatti inviato dall’abate del convento, Ugo da Celano, a Roma, con l’incarico di redigere la cronaca delle vicende dei papi, il Liber dei Pontefici, che da quasi quarant'anni nessuno più compilava. Accanto a questa mansione ufficiale, che lo costringe alla menzogna sistematica, Vilderico intrattiene con l’abate una fitta corrispondenza in cui rende conto in modo veridico di quanto accade, confida le malefatte delle alte gerarchie ecclesiastiche, comunica i propri turbamenti, i propri dubbi spirituali, la propria angoscia nei confronti della storia e del ruolo che la fede può giocare in essa.

L’allontanamento da un mondo chiuso e protetto innesca in lui un processo di formazione: progressivamente rifiuta una concezione della vita meramente contemplativa a favore di un impegno testimoniale sofferto, ma sempre ben radicato nel mondo, proprio là dove – nell’esercizio del potere – il bene e il male si avvicinano fino a confondersi.

Anche dal punto di vista storiografico le sue ricostruzioni variano sensibilmente nel corso del romanzo: al resoconto scandalizzato dei vizi di corte, si sostituisce una comprensione sempre più profonda delle dinamiche politiche, dei perversi giochi di potere che dominano il palazzo.

Al centro della scena narrativa è collocato il giovanissimo Teofilatto dei conti di Tuscolo, il prepotente e prevaricatore papa Benedetto IX: quando Vilderico gli viene affiancato in qualità di precettore, la sua vicinanza agisce sul pontefice radicalizzandone i comportamenti scandalosi, come se fra i due si innescasse una sfida alla reciproca conversione.

La maturazione di Vilderico subisce un’accelerazione a contatto di un altro personaggio storico: Ildebrando di Soana, il futuro papa Gregorio VII. Egli è portatore di un progetto di rinnovamento della Chiesa, che viene avversato dalle potenti famiglie romane, impegnate a contendersi la successione al soglio pontificio. Nell’interpretazione di Rosso si tratta di un progetto destinato a rimanere minoritario e ad essere sconfitto sul piano della storia, e non è dunque un caso che il pontificato di Gregorio VII rimanga escluso dal romanzo. La storia della Chiesa appare la somma di secoli di falsificazioni, ammassate a ricoprire la feroce ambizione del potere, di cui Benedetto IX rappresenta l’immagine emblematica.

Nei resoconti epistolari di Vilderico, egli è rappresentato come un individuo soggiacente alle pulsioni più basse e sfrenate, esponente di un paganesimo perverso che esercita un potere assoluto attraverso una rete di protezioni e clientele con l’unica finalità del soddisfacimento dei propri appetiti più animaleschi. Roma a sua volta appare una sorta di Babilonia, una città paganeggiante, immorale e blasfema, dove grandezza e rovina, palazzi sontuosi e cloache convivono annullandosi le une nelle altre. A contatto con questa realtà Vilderico, che è e rimane un uomo di fede, passa attraverso diverse fasi: il rifiuto, la crisi spirituale, la perplessa interrogazione sui disegni divini, la testimonianza di una fede autenticamente vissuta e libera dalla sudditanza nei confronti dell’istituzione ecclesiastica.

Il romanzo vede nella Chiesa l’espressione esasperata ed estrema della struttura del potere in sé: un potere opaco, distaccato da Dio e dagli uomini, che corrompe e falsifica, che si autoalimenta e si autoregola in base a leggi separate dal corpo sociale. Ad esso contrappone l’idea di una

religiosità svincolata da qualsiasi struttura istituzionale, vissuta come momento personale ed interiore: una concezione privata della fede, che risente fortemente di una moderna sensibilità.