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L’evoluzione storica della tutela della vittima

Capitolo I: “La vittima del reato, questa dimenticata”

3. L’evoluzione storica della tutela della vittima

La posizione delle vittime ha destato, fino a pochi anni fa, uno scarso interesse non solo nell’ambito degli studi penalistici, ma ancora di più nelle teorie criminologiche, che hanno tradizionalmente assunto quale compito fondamentale quello dell’individuazione dei tipi predisposti al comportamento criminale, senza occuparsi del dovuto collegamento con la vittima27.

Lo stesso percorso storico-culturale che ha portato a ridefinire la natura e la finalità del processo penale, spostandone organismi e competenza in ambito integralmente pubblico, ha contribuito a distogliere sempre più l’attenzione sociale dalla figura della parte lesa. È quello che il norvegese Christie ha definito lo “scippo di competenza” operato dallo Stato ai danni della vittima, privata del diritto ad una piena partecipazione processuale28.

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È stato detto che il diritto in un’accezione pubblicistica nasce con la neutralizzazione della vittima, circostanza che, unitamente alla generalizzazione degli interessi lesi, è sintomatica del sorgere di un diritto penale statale29. Con la piena affermazione dell’autorità dello Stato, il delitto è

apparso soprattutto come un’offesa di natura pubblicistica, e la pena è divenuta una risposta statale a questa offesa, relegando la vittima in posizione subalterna30.

In realtà, nessuna delle grandi correnti di pensiero protagoniste del lungo cammino di riforma dei sistemi di giustizia penale, a partire dagli Illuministi per giungere alla Scuola Positiva ed oltre, ha mai realmente approfondito le problematiche inerenti alla vittima. Essa è stata, anzi, percepita come un soggetto ingombrante, da esorcizzare più che da accogliere.

Per anni, in nome del progresso, è stato ritenuto più logico occuparsi del reo – ritenuto pericoloso – ed ignorare la vittima, considerata inoffensiva, escludendo ogni spazio di intervento privato nel processo e nell’esecuzione della pena.

Gli antichi sistemi giuridici, oggi ritenuti per lo più barbari e violenti, possono considerarsi molto più attenti nei riguardi dei diritti della vittima di quanto non lo siano le moderne strutture della giustizia penale, tese prevalentemente a tutelare la posizione dell’imputato in applicazione dei principi garantistici di stampo liberale, recepiti in numerose Carte Costituzionali moderne, tra cui quella italiana (cfr. art. 24, comma 2, Cost.). La figura della vittima-accusatore privato corrisponde ad un concetto arcaico di giustizia penale, nell’ambito del quale è difficile distinguere in modo netto l’illecito civile da quello penale, e l’uno e l’altro dalla violazione del precetto religioso31.

In tali risalenti sistemi, gli organi protogiudiziari rivestono ruoli limitati, operando per lo più su iniziativa della vittima, e affidando sovente la definizione della ragione e del torto a fattori non razionali.

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Progressivamente, con il processo di laicizzazione del diritto penale, nelle strutture processuali penali comunque imperniate sull’iniziativa privata è emersa un’iniziativa pubblica, dapprima con la creazione di giurie permanenti in età classica (le quaestiones perpetuae) poi, in modo accentuatamente inquisitorio, con la cognitio extra ordinem dell’età imperiale32.

La caduta dell’Impero Romano segna l’affermarsi della civiltà giuridica medievale, dai caratteri estremamente diversi da quelli dell’ultima Romanità, decisamente influenzata dal diritto germanico e dalla cultura giuridico-religiosa della Chiesa Cattolica Romana, espressa dal diritto canonico.

In questo momento si assiste al passaggio da una giustizia incentrata sulla tutela privata ad una giustizia fondata sullo Stato, che perde ogni connotato trascendente ed universale: il potere pubblico diviene il padrone del processo penale, gestendone la promozione, lo svolgimento e l’esecuzione. Il reato perde il proprio connotato immediato di lesione alla sfera dei diritti di un soggetto per divenire la violazione del “buon ordine” del Sovrano, posto super partes, di fronte al quale il danno diretto subito dalla vittima si riduce forzatamente ad una mera pretesa risarcitoria.

Si diffonde un modello processuale di stampo inquisitorio che finisce per privare la vittima di ogni ruolo significativo, essendo le parti principali esclusivamente lo Stato ed il delinquente33. La vittima è vista come una mera

circostanza dell’azione delittuosa, la realtà materiale su cui quest’ultima si è riversata.

Tale nuova focalizzazione del sistema penale sulla pace pubblica – assicurata dal re tramite l’uso della forza, piuttosto che dalla comunità mediante la restituzione di quanto sottratto alla vittima – comporta, con il trascorrere del tempo, l’attribuzione di un nuovo primario obiettivo alla pena, quello di ridurre

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il rischio che vengano commessi ulteriori crimini, e ciò attraverso la deterrenza, la neutralizzazione e, solo successivamente, la rieducazione34.

Neanche l’Illuminismo riesce a mutare tale prospettiva. Anzi, la rivalutazione dei motivi di libertà dell’individuo sortisce l’effetto di approfondire la tutela del colpevole e dell’incolpato, a scapito della tutela della vittima35.

Più recentemente, soprattutto dagli anni ’60 in poi, penalisti, operatori del diritto, criminologi, sociologi, giornalisti ed intellettuali in genere hanno focalizzato l’attenzione degli addetti ai lavori – ma anche dell’opinione pubblica – esclusivamente sulle caratteristiche, sui diritti e sui bisogni del reo, contribuendo a creare un clima culturale indifferente, talvolta addirittura ostile nei confronti delle istanze poste dalle vittime del crimine, collocate anzi in una posizione ideologicamente sospetta. Occuparsi di queste ultime poteva apparire

politically uncorrect, poteva esporre all’accusa di alimentare campagne

reazionarie, di speculare su riprovevoli sentimenti di vendetta e di rivalsa per finalità repressive.

Sul piano speculativo, la criminologia della reazione sociale e ancor più la criminologia critica degli anni ’70, negando oggettività alla condotta antisociale, considerata come frutto di stigmatizzazioni selettive, hanno annichilito ulteriormente la figura della vittima, rendendola quasi complice inconsapevole di processi di esclusione e criminalizzazione.

Una peculiare interpretazione, frutto della rivalutazione dell’intervento privato in materia penale, è quella associata alla teoria della “vittimo- dommatica”36. Intorno agli anni ’80 del secolo scorso, alcuni autori tedeschi (tra

gli altri, Amelung, Beluke, Blei, Schünemann) hanno prospettato, con sfumature diverse, un nuovo indirizzo dottrinale, secondo cui bisognerebbe escludere il reato quando la vittima, con i mezzi a propria disposizione, avrebbe potuto evitare il risultato lesivo. Infatti, in questi casi, l’intervento penale sarebbe ingiustificato sulla base dei principi di sussidiarietà e di extrema ratio. Inoltre,

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secondo tale visione, chi si difende realizzerebbe sé stesso in quanto uomo: perciò lo Stato ha l’onere di intervenire unicamente qualora le forze della vittima risultino insufficienti per la difesa. Queste regole dovrebbero valere non solo de iure condendo, ma anche nell’interpretazione delle fattispecie penali vigenti.

Si tratta di opinioni davvero singolari, che possono costituire un esempio di come una dogmatica cieca rispetto alle componenti teleologiche del diritto possa produrre risultati nefasti. Un principio di sussidiarietà inteso in tal modo condurrebbe, inesorabilmente, proprio a quella auto-giustizia che il diritto ha cercato di delimitare. Esso implica, infatti, che l’intervento penale vada evitato se è possibile sostituirlo con un altro intervento pubblico meno invasivo37.

Il processo di marginalizzazione della vittima viene, quindi correttamente riferito alla progressiva pubblicizzazione del diritto e della procedura penale.

Nel momento in cui si impone la figura del criminale, la vittima diviene un personaggio secondario in una vicenda imperniata sulla “partita a due” tra Stato e reo: essa diviene «poco più di un normale testimone»38, «una semplice

carta, per quanto importante, nel mazzo della pubblica accusa»39, la cui

drammatica realtà esistenziale viene pressoché ignorata dall’ordinamento giuridico.