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L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE ITALIANE

A partire dagli anni novanta l’economia mondiale, con lo sviluppo dei trasporti, delle telecomunicazioni e con la progressiva caduta delle barriere commerciali tra i paesi, ha vissuto un forte processo di integrazione internazionale. A seguito dei cambiamenti innescati dal processo di globalizzazione, i soggetti commerciali delle diverse economie hanno dovuto sempre più ripensare le proprie strategie operative.

La necessità di espandere le attività commerciali su scala mondiale e di trovare efficaci soluzioni per sopravvivere nell’iper-competitivo contesto globale hanno posto notevoli sfide alle imprese. Esse hanno reagito diversamente ai cambiamenti innescati dallo strutturale e irreversibile processo di integrazione economica; la capacità di adeguarsi o meno ai nuovi meccanismi economici mondiali ha determinato il successo di alcuni soggetti economici piuttosto che di altri.

Le imprese italiane, a causa di peculiarità strutturali del sistema, hanno presentato difficoltà nel reagire ai mutamenti economici degli ultimi decenni e nel mantenere stabile la propria posizione di mercato a fronte dell’aumento della pressione competitiva sui prodotti nazionali (Saccomanni, 2012). La reazione delle imprese è stata eterogenea: quelle di piccole e medie dimensioni, poco dinamiche e legate alla domanda del mercato interno, si sono dimostrate poco propense all’innovazione ed all’espansione internazionale, mentre quelle più grandi si sono maggiormente proiettate verso i mercati esteri. Tuttavia, nonostante alcuni soggetti siano riusciti ad inserirsi con più efficacia nelle mutate dinamiche globali, il grado di internazionalizzazione delle imprese italiane ed il livello degli investimenti diretti all’estero rimangono di molto inferiori rispetto agli standard europei e mondiali. Le principali difficoltà, riscontrate dai soggetti commerciali nell’avviare attività di internazionalizzazione, possono essere identificate nella ridotta dimensione delle imprese italiane, nelle limitate capacità manageriali e nella mancanza di risorse necessarie per l’espansione delle operazioni commerciali. In riferimento al problema delle dimensioni delle aziende è possibile constatare che la ridotta dimensione dei soggetti commerciali del nostro paese si è rivelata un ostacolo enorme per il reperimento di fondi necessari ad avviare attività sui mercati internazionali. La possibilità di sostenere gli elevati costi connessi all’avvio di operazioni di esportazione o produzione all’estero, al reperimento di informazioni sui nuovi mercati e al finanziamento di progetti di ricerca e sviluppo è stata fortemente limitata dalle dimensioni dei soggetti commerciali italiani. Il fatto che la composizione settoriale della produzione italiana sia ancora fortemente incentrata sui cosiddetti settori tradizionali e a basso contenuto tecnologico si è poi rivelato quale ulteriore problema

(Saccomanni, 2012). La mancata crescita dei settori high tech, ovvero dei settori meno esposti alla concorrenza dei mercati emergenti, ha portato la produzione italiana ad essere maggiormente attaccata dai nuovi competitors entrati nel mercato. Infine la semplificata struttura organizzativa delle imprese italiane, tendenzialmente gestite a livello familiare, ha determinato l’impossibilità del sistema industriale di sviluppare adeguate e complesse forme di internazionalizzazione. Attualmente la maggior parte delle imprese italiane ha avviato processi di espansione commerciale tradizionali, quali l’esportazione o la stipulazione di accordi di sub-fornitura con controparti estere, modalità di internazionalizzazione che sebbene contribuiscano positivamente allo sviluppo dell’economia nazionale non permettono di inserirsi stabilmente nei nuovi mercati (Saccomanni, 2012). Volendo poi approfondire come le imprese italiane si approcciano ai mercati esteri è possibile rifarsi al recente studio dell’ISTAT, il quale ha permesso di comprendere più dettagliatamente tipologie e caratteristiche del processo di internazionalizzazione italiano. L’analisi in questione, riferita a due anni (2007 e 2010), ha innanzitutto rilevato che forme più complesse di internazionalizzazione si associano a soggetti di dimensioni più grandi, la cui produttività è più elevata e la cui offerta è maggiormente diversificata. In secondo luogo è stato riscontrato che nella maggior parte dei settori produttivi prevalgono attività di import-export, ovvero forme intermedie di internazionalizzazione, mentre sono numericamente più limitate le tipologie di espansione più evolute. Gli unici due comparti che possono effettivamente essere definiti “globali” sono quello delle componenti di macchinari e quello farmaceutico. Le imprese operanti in questi due settori hanno stabilito relazioni commerciali con i paesi dell’Unione Europea e con almeno cinque aree extra-europee.

I risultati di tale studio, raccolti attraverso la combinazione di dati riguardanti le forme di internazionalizzazione di oltre 90.000 imprese, quelli relativi alle loro caratteristiche strutturali (settore di attività economica, localizzazione, dimensione) ed alle principali voci del conto economico (fatturato e produzione, costi del lavoro e intermedi, valore aggiunto), hanno permesso di suddividere le imprese italiane in sette classi. Al primo cluster (“Solo esportatori”) (ISTAT, 2011) appartengono le

imprese che svolgono solo operazioni di esportazione e il cui raggio operativo si limita alle nazioni dell’UE e al massimo ad altri quattro paesi extra-europei. Alla seconda e terza classe appartengono le imprese che svolgono solo attività di importazione, sia essa di beni intermedi o di altri beni e servizi.

Il quarto gruppo è costituito da aziende “esportatrici-importatrici” (ISTAT, 2011) ed il quinto dalle esportatrici globali, le quali vendono in almeno cinque aree extra-europee. Gli ultimi due clusters si riferiscono ad imprese che hanno internazionalizzato almeno una parte del processo produttivo: esse controllano impianti all’estero (“MNE”), o sono stabilite sul territorio italiano, ma sono a “controllo estero” (ISTAT, 2011).

Secondo l’analisi dell’ISTAT, che prende in considerazione gli anni più acuti della crisi economica tra il 2007 e il 2010, il 30,3% delle imprese ha operato modifiche nelle modalità di internazionalizzazione ed in particolare il 12,3% è transitato verso una forma espansiva più semplificata, mentre il 18% verso una più evoluta (ISTAT, 2011). Poiché la grave crisi economica del 2008-2009 ha profondamente colpito l’economia mondiale e del nostro paese e limitato notevolmente le capacità produttive e di crescita dei soggetti commerciali, le imprese hanno dovuto trovare soluzioni ai problemi ed alle difficoltà legate alla contrazione della domanda internazionale. Gli effetti negativi della recente recessione hanno colpito la maggior parte dei settori economici e provocato forti scompensi e disagi nel sistema economico mondiale. In riferimento al sistema industriale italiano è possibile affermare che la crisi globale ha inciso marcatamente sulle performance e capacità produttive delle imprese, le quali stanno sempre più trovandosi nella posizione di dover mutare e ripensare le proprie strategie.

A seguito dei cambiamenti nelle modalità di espansione commerciale si è andato definendo il seguente scenario.

La maggior parte delle imprese italiane (30,8%) rientra nella classe “Importatori-esportatori”; esse sono principalmente impegnate nei settori tradizionali (tessile, abbigliamento e articoli di pelle), nella produzione di carta e nei settori manifatturieri. La seconda categoria per importanza è data dai “Soli

esportatori”; essi rappresentano il 26,4% delle aziende italiane e sono operanti nei comparti delle bevande, della fabbricazione di prodotti di metallo, dei mobili e della riparazione e manutenzione di macchinari. L’internazionalizzazione produttiva è limitata al 4,7% delle imprese a “controllo estero” ed al 3,4% delle “MNE” (ISTAT, 2011). Tali soggetti si caratterizzano per le maggiori dimensioni dell’impresa e per livelli di produttività superiori. Come accennato in precedenza essi operano nel settore farmaceutico e della produzione di macchinari.

In termini di performance le imprese con forme meno evolute stanno registrando risultati peggiori in termini produttivi e occupazionali, mentre quelle che hanno adottato modalità di internazionalizzazione più complesse hanno potuto sperimentare un upgrading.