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spazio ai sostenitori di Zhao Ziyang e tanto meno all’area conservatrice del PCC, decise di affidare il compito di continuare il processo di riforma al poco conosciuto e relativamente neutrale segretario del Partito comunista di Shanghai, Jiang Zemin. Jiang Zemin, divenuto segretario generale del Partito nel 1992 e successivamente presidente della RPC, si delineò quale personalità in grado di riprendere il programma di riforme che venne effettivamente rimesso in moto a partire dal 1992. La tecnocratica e decisionista figura posta alla guida della cosiddetta seconda fase delle riforme economiche delegò il progetto al suo fedele collaboratore Zhu Rongji, il quale pose l’accento sulla necessità di consolidare l’economia di mercato e di portare avanti un’effettiva ristrutturazione delle imprese di stato. Attraverso un approccio molto meno gradualista rispetto a quello prevalso nella fase iniziale delle riforme, il governo si propose di rendere le Soe soggetti effettivamente attivi nel nuovo tessuto economico che, oltre alla presenza di medio-piccole imprese, avrebbe dovuto essere sempre più popolato da grandi imprese commerciali. Questa nuova fase, durante la quale prese piede un acceso dibattito tra le alte sfere del Partito in merito al ruolo dello stato e della presenza pubblica nel settore economico, si caratterizzò per l’implementazione di modifiche in ambito formale, giuridico ed economico, indirizzate ad un rafforzamento del sistema di mercato. Tali scelte politiche si tradussero, nella realtà, in un generale mantenimento della presenza statale nella sfera economica, ma nel completo smantellamento delle strutture di protezione sociale e nell’incontrollata liberalizzazione del sistema dei servizi, provvedimenti configuratisi quali principali cause della esponenziale crescita delle disuguaglianze in Cina.

Nel 1992, con il viaggio di Deng Xiaoping nel sud del paese e con la proclamazione, a seguito del XIV congresso del Comitato centrale del PCC, della Cina come “economia socialista di mercato”, ebbe ufficialmente inizio la seconda fase riformista, guidata dalla “terza generazione” (Samarani, 2010, 11) di Jiang Zemin e Zhu Rongji.

La nuova leadership del Partito si concentrò, innanzitutto, sull’eliminazione del sistema a “doppio livello”, con l’obiettivo di ridurre il più possibile gli elementi strettamente legati al sistema di pianificazione e di rendere le imprese in grado di

operare secondo le leggi dell’economia di mercato. La ristrutturazione definitiva delle imprese statali, in preparazione ad una progressiva privatizzazione di quest’ultime, venne quindi a configurarsi quale obiettivo prioritario del governo che affidò tale compito, principalmente, a governi locali e manager delle imprese. Concentrarsi sulla trasformazione organizzativa e proprietaria delle grandi imprese, abbandonando il modello dell’impresa creativa nata dalla riforma agricola (Huang, 2008), venne stabilita quale priorità dell’agenda politica. Al fine di portare a termine tale obiettivo, la leadership cinese, nel 1994, affiancò ai progetti di chiusura delle imprese più vecchie ed inefficienti e di ridimensionamento occupazionale, l’introduzione di una legge sulle società, secondo la quale le Soe avrebbero dovuto trasformarsi in imprese di stato in forme societarie (Musu, 2011), nelle quali era contemplata una parziale partecipazione dei privati. Secondo il provvedimento del ’94, che diede il via al processo di ristrutturazione proprietaria delle aziende, le imprese statali avrebbero, progressivamente, dovuto essere trasformate in società a responsabilità limitata e in società per azioni nelle quali l’azionista di maggioranza era rappresentato dallo stato o dai governi locali. La graduale riduzione della quota in mano pubblica avrebbe poi permesso di raggiungere un guidato e progressivo processo di privatizzazione del soggetto commerciale. La privatizzazione delle imprese cinesi, in particolare di quelle statali e di quelle di medio-piccole dimensioni appartenenti alla categoria delle imprese di città e villaggio, può essere definita quale processo di “insider privatization” (Musu, 2011), dal momento che la tendenza alla base di tale fenomeno fu quella di cedere, ai manager dell’azienda, le quote azionarie precedentemente detenute dallo stato. Se da un lato l’aspetto positivo di tale operazione può essere riscontrato nel fatto di aver incentivato i dirigenti delle imprese ad essere più efficienti, dall’altro tale struttura del processo di privatizzazione portò ad avere minore trasparenza e controlli, oltre che all’emergere di casi di corruzione (Naughton2007, 301-304). Al fine di rendere più trasparente il sistema di privatizzazione delle imprese e di arginare gli effetti negativi dell’insider privatization (Musu, 2011), la Sasac (国国国国务务务务院 国 有院 国 有院 国 有院 国 有资资资资资资资资资资资资督 管 理 委督 管 理 委督 管 理 委督 管 理 委员员员员会会会会), una commissione speciale del RPC, sotto il diretto controllo del Consiglio di stato, ha posto una serie di

regolamentazioni, quali l’aver fissato, come prezzo minimo per l’acquisto, il valore netto dell’impresa, l’aver posto dei limiti alla concessione dei prestiti ai manager da parte delle banche per l’acquisto delle azioni dell’azienda e l’aver richiesto che la compera delle quote avvenisse tramite l’organizzazione di aste competitive. Il processo di privatizzazione ha inoltre fortemente preso piede, grazie alla decisione della governance politica di permettere ai governi locali di acquistare imprese statali, ad esclusione di quelle identificate quali soggetti strategici, tramite la cessione di azioni, secondo una procedura molto simile a quella sopra descritta. Molte imprese statali, a seguito della privatizzazione, hanno potuto ristrutturarsi e riorganizzarsi, operazioni che hanno permesso loro di affermarsi sui mercati internazionali, mentre molte altre non sono riuscite a raggiungere livelli di produttività tali da permettere loro di confrontarsi con la competizione globale.

In merito alla ristrutturazione delle imprese di stato, è inoltre possibile affermare che i mercati e le imprese finanziarie internazionali hanno giocato un ruolo di forte rilievo in tale processo, dal momento che il governo procedette alla quotazione, sulle borse internazionali, delle imprese di stato considerate strategiche. Infine, in relazione alla transizione cinese da un’economia pianificata ad una di mercato, il ruolo degli investimenti esteri si confermò di strategica importanza, permettendo questi, la creazione di imprese e attività commerciali private.

La riforma fiscale introdotta in Cina nel 1994, si rivelò inoltre funzionale a tale progetto di riorganizzazione delle grandi imprese: dopo l’eliminazione del sistema di ripartizione dei profitti tra imprese e autorità locali, definito “contratti a responsabilità”, venne creato un modello di prelievo fiscale centralizzato. Secondo questo nuovo sistema, ciascuna azienda era costretta a pagare una tassa sul valore aggiunto uniforme del 17% ed un’imposta sui profitti del 33%. Tale ristrutturato sistema fiscale permise al governo centrale di avere un maggior controllo sul gettito fiscale e di redistribuire ai governi locali, responsabili di strutture pubbliche e servizi sociali nelle diverse aree del paese, parte delle entrate raccolte tramite le aliquote fiscali. La riforma fiscale venne inoltre attuata con l’obiettivo di mitigare le disuguaglianze territoriali, progressivamente emerse nel corso del periodo riformista,

in particolare stanziando fondi a favore delle zone rurali, rimaste più emarginate nella fase di transizione economica. Nella realtà, il progetto non si tradusse in un effettivo successo, dal momento che, oltre ad incrementare il fenomeno della corruzione, parte dei fondi centrali vennero indirizzati ad aree tendenzialmente già sviluppate, aumentando quindi i già presenti disequilibri territoriali. La necessità dei governi locali di reperire maggiori fondi, spinse inoltre questi ultimi ad introdurre nuove imposizioni fiscali a livello territoriale e a sviluppare progetti di urbanizzazione, dai quali essi potevano trarre risorse, a scapito dei terreni coltivabili.

La fase riformista portata avanti dalla “terza generazione” di Jiang Zemin e Zhu Rongji (Samarani, 2010, 2011), si concluse con l’entrata della Cina nella WTO nel 2001, alla vigilia del cambiamento della leadership politica, avvenuto nel 2002, quando la cosiddetta “quarta generazione” guidata da Hu Jintao e Wen Jiabao (Samarani, 2010, 2011), assunse il controllo del governo. L’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio ha costituito un sostanziale passo in avanti nell’implementazione di regolamentazioni atte a facilitare e rafforzare le relazioni internazionali, spingendo la RPC ad adeguarsi, in diversi ambiti, agli standard commerciali globali. La Cina, diventando membro della WTO, ha potuto avere accesso agli accordi internazionali sul commercio dei servizi, sui diritti di proprietà intellettuale e sulle misure riguardanti gli investimenti commerciali, a garanzia del fatto di procedere all’attuazione delle disposizioni previste dall’accordo. Secondo il protocollo di accessione, la Cina si è impegnata, innanzitutto, a ridurre le tariffe doganali e le restrizioni quantitative al commercio di prodotti agricoli ed industriali. In secondo luogo la RPC si è adoperata al fine di modificare una serie di condizioni legate ai servizi commerciali e delle telecomunicazioni. Tali cambiamenti legislativi hanno consentito alle imprese straniere di esportare, importare, vendere direttamente sul mercato domestico cinese e di creare servizi di riparazione, trasporto merci, e di assistenza clienti; in merito alle modifiche nel campo delle telecomunicazioni, la Cina ha autorizzato l’entrata di investimenti esteri, con un tetto massimo del 49-50%. In relazione al settore bancario, la RPC ha poi garantito alle banche straniere la possibilità di effettuare operazioni in valuta locale con imprese e

consumatori, mentre per quanto riguarda quello assicurativo, ha rimosso le restrizioni alle attività delle società straniere. In ultimo l’entrata nella OMC ha concesso alle società straniere di investire nei fondi di collocamento, con una partecipazione limitata al 49%.

In sintesi di quanto presentato, in merito al processo riformista cinese, è possibile giungere alla conclusione secondo la quale la Cina, in qualità di principale mercato emergente, ha sperimentato una lunga e travagliata serie di politiche e strategie che l’hanno portata a vivere uno sviluppo socio-economico contraddittorio, nel quale persiste la convivenza di elementi contrastanti. Secondo l’emendamento costituzionale del 1998, la RPC si definisce ancora una “economia socialista di mercato”, ovvero quale economia prevalentemente regolata dalle leggi di mercato e nella quale la protezione degli “interessi legittimi dell’economia individuale”, da parte del governo, si combina ad una forte presenza pubblica. Il controllo statale permane marcatamente in tutti i settori considerati strategici, oltre che nelle imprese di grandi dimensioni, e la realizzazione di un sistema di leggi commerciali, in grado di garantire un indipendente e trasparente funzionamento dell’economia resta ancora una lacuna nella struttura cinese. Il fatto poi di avere affidato gran parte dello sviluppo economico agli investimenti esteri, viene considerato da studiosi, quali Huang, uno dei principali fattori ad avere determinato la depressione delle iniziative imprenditoriali locali e delle piccole imprese. Ultima valutazione, in merito alla sorprendente crescita cinese dei decenni scorsi, consiste nella palese constatazione che la rapida liberalizzazione del settore sociale ha comportato gravi e profondi danni in termini di equità sociale, un problema sul quale ha particolarmente dovuto concentrarsi la “quarta generazione” di Hu Jinatao e Wen Jiabao (Samarani, 2010, 2011). Il mantenimento di costanti livelli di crescita economica e la contemporanea mitigazione degli squilibri sociali, tramite la creazione di una “società armoniosa” e più attenta alla questione ambientale, si sono identificate quali priorità del piano politico cinese, sulle quali necessita di focalizzarsi anche la nuova leadership cinese di Xi Jinping e Li Keqiang.