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Dal 1949, con la presa al potere di Mao e con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, la Cina ha sperimentato fasi alterne di accelerazioni e fallimenti per l’implementazione di strategie finalizzate ad una rapida industrializzazione e alla creazione di un sistema economico pianificato di stampo sovietico. Nei primi anni successivi alla creazione della RPC, il Partito comunista cinese si trovò a dover far fronte ad una situazione economica disastrosa, ereditata dai lunghi anni di guerra e dalla crescente inflazione, alla quale si decise di porre rimedio tramite l’attuazione di pragmatiche strategie economiche. Nella fase iniziale del socialismo cinese si optò

per la creazione di un modello economico misto, mantenendo un certo grado di capitalismo: la nazionalizzazione delle maggiori industrie e banche del paese, l’esproprio delle proprietà giapponesi e straniere, si combinarono all’incoraggiamento, dei proprietari cinesi, ad espandere la produzione. Alla riduzione dell’inflazione, attuata tramite politiche monetarie caratterizzate da un rigido controllo dell’offerta di moneta, seguì l’attuazione di una più radicale riforma agricola basata sulla redistribuzione della terra ai contadini che comportò la ripartizione dei terreni in maniera più equa, ma non la totale abolizione della proprietà privata (Musu, 2011). L’approccio gradualista giunse al suo termine a partire dal 1953, quando il Partito comunista cinese decise di transitare in toto verso un’economia di tipo pianificato. L’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione sancita nella Costituzione del 1954, l’introduzione della pianificazione economica centralizzata e l’approvazione del primo Piano quinquennale (1953-1957), segnarono in via definitiva il cambiamento di rotta della leadership cinese.

In questa fase le scelte economico-politiche si concentrarono, in particolar modo, sulla ridefinizione del rapporto agricoltura-industria, a favore di quest’ultima. La creazione di diversi impianti industriali, grazie al supporto di tecnici e macchinari sovietici, ed il tentativo di dar vita a progetti d’industrializzazione nelle zone più interne del paese, si delinearono quali perni della strategia economica socialista nella sua fase iniziale. Nel 1955-56 si aprì un periodo caratterizzato dalla brusca accelerazione del processo di collettivizzazione economica che portò alla totale eliminazione della proprietà privata. Negli stessi anni, a seguito della rottura con l’Unione Sovietica, legata alla denuncia dei crimini di Stalin da parte di Chruscev, ed all’apertura di quest’ultima ad una rivisitazione dei principi socialisti, la Cina decise di correggere la strategia industriale, fino ad allora implementata e dimostratasi troppo rapida e squilibrata, optando per l’attuazione di programmi di “moderazione economica” e ripristinando, marginalmente, qualche ruolo del sistema di mercato. La relativa fase di apertura, tradottasi a livello politico nel periodo dei “cento fiori”, giunse al suo termine nel 1958, quando Mao spostò la propria attenzione sulla realizzazione del “grande balzo in avanti”, una sorta di peculiare radicalizzazione del

primo Piano quinquennale, conclusasi in un disastroso esperimento economico. La politica del “grande balzo in avanti” portò innanzitutto alla creazione delle “comuni”, unità operative addette alla produzione agricola ed all’approvvigionamento dei servizi sociali per gli appartenenti alla “comune”, e diede luce ad una strategia nazionale basata su decentralizzazione, a livello locale, delle funzioni amministrative e centralizzazione, a livello nazionale, delle strategie politico-economiche. Tali scelte, combinate alla volontà di attuare piani d’industrializzazione accelerata attraverso l’uso di modelli sperimentali, quali la creazione delle “fornaci da cortile”, portarono nel giro di due anni, al completo fallimento del “grande balzo in avanti” e fecero sprofondare la Cina in una gravissima situazione economica ed in una drammatica carestia. Tra il 1961 e il 1964 la leadership cinese, al fine di riparare i disastri del “grande balzo in avanti”, decise di attuare una centralizzazione delle funzioni amministrative e di riorganizzare l’economia nazionale riabbracciando politiche economiche relativamente moderate, simili a quelle della prima fase d’industrializzazione degli anni ’50. Con l’obiettivo di arrivare all’indipendenza strategica della Cina, data la crescente pressione dell’invasione americana in Vietnam ed il costante deterioramento delle relazioni con l’Unione Sovietica, nel 1964 Mao avviò un programma di ingenti investimenti industriali nelle zone interne del paese, progetto funzionale alla realizzazione del cosiddetto “terzo fronte” (Musu, 2011). Nel 1966 Mao decise poi di lanciare la Rivoluzione culturale, una fase politica, durata dieci anni, che determinò sconvolgenti risvolti dal punto di vista socio-politico, che provocò la morte di migliaia di persone e la distruzione del capitale umano cinese, ma che, dal punto di vista economico, non determinò sostanziali rallentamenti della produzione e degli investimenti. Al termine del Rivoluzione culturale, Mao si propose di raggiungere l’effettiva implementazione del progetto del “terzo fronte”, finalizzato al consolidamento dell’autonomia politica ed economica della RPC, dando vita a progetti d’industrializzazione dell’agricoltura, di sviluppo dell’industria militare e conferendo un ruolo di sempre maggiore importanza all’Esercito di Liberazione del Popolo, ai cui ufficiali venne spesso affidato il compito di dirigere imprese ed attività economiche.

Tuttavia, la necessità di riammodernare il sistema economico e di riequilibrare le strategie internazionali della Cina, portando avanti una progressiva riapertura delle relazioni commerciali con le potenze mondiali, spinsero Mao ad affidare a Deng Xiaoping il compito di attuare tale processo. La presa al potere della “banda dei quattro” e la conseguente emarginazione di Deng Xiaoping rallentarono questo progetto di ammodernamento economico, il quale venne nuovamente riavviato solo alla morte di Mao, avvenuta nel 1976. Il nuovo leader Hua Guofeng, appartenente all’ala moderata del partito, cercò di attuare strategie finalizzate al risanamento dell’economia cinese e a tal proposito diede il via a numerosi progetti industriali ed infrastrutturali, la cui effettiva realizzazione venne ostacolata dalla mancanza di risorse economiche nelle casse di stato cinesi. Sarà solo a partire dal 1978, con i sostanziali cambiamenti avvenuti all’interno della dirigenza del partito, che la Cina inizierà ad intraprendere la strada verso la modernizzazione economica e verso il sistema capitalista.

Traendo le conclusioni dall’analisi storico-economica del periodo maoista, è possibile giungere ad una serie di valutazioni di carattere generale, quali il fatto che l’economia cinese del periodo maoista abbia sperimentato strutturali cambiamenti, non solo dal punto di vista del sistema, ma anche in termini settoriale. Il peso dell’agricoltura sul PIL nel 1952 era del 60%, mentre nel 1978 era solo del 34%; l’industria, al contrario, dopo aver determinato nel ’52 solo il 10% della produzione aggregata cinese, nel 1978 costituiva una componente del 37% del prodotto interno lordo cinese (Madison, 2007, 60).

Secondo Madison, questo mutamento strutturale può essere ricondotto al fatto che nel periodo maoista si è assistito ad un forte aumento del capitale per lavoratore, ma ad una generale diminuzione della produttività totale dei fattori, a causa delle inefficienze del sistema pianificato e dei continui cambiamenti strategici, in ambito politico. Al termine del maoismo, la risoluzione delle inefficienze economiche e la transizione verso un’economia di mercato mantenendo l’equilibrio sociale raggiunto in termini di riduzione delle disuguaglianze, si determinarono quali principali sfide della classe politica, la quale ha raggiunto, nel corso dei decenni successivi, l’obiettivo

della crescita economica, senza però riuscire a mantenere invariati i livelli di uguaglianza sociale.