Prime osservazioni sulla sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale
1. La damnosa hereditas del referendum del 1995
Senza ovviamente voler ricostruire tutti gli antefatti della sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale, qualche osservazione preliminare può essere utile alla comprensione della sentenza medesima.
È stato recentemente sostenuto (da Franco Carinci) che il peccato originale della Corte, dal quale sono poi derivate le non sempre appaganti sistemazioni della rappresentanza sindacale in azienda, sta nella pronunzia numero 1 del 1994 di ammissibilità del referendum sull’art. 19 Stat. lav., nel senso che la probabile incostituzionalità della norma di risulta avrebbe dovuto indurre la Corte stessa a bloccare il referendum. Non sono d’accordo su questa lettura, perché la Corte solo raramente dichiara l’inammissibilità del referendum per quella ragione, e ciò fa allorché ci si trovi di fronte a norme a costituzionalità fortemente necessitata, nel senso che la loro modifica ad opera del referendum determinerebbe un pesante vulnus al sistema. Con riguardo all’art. 19 Stat.
lav., invece, si trattava solo di un problema di ragionevolezza del criterio selet-tivo di ammissione all’area dell’attività sindacale privilegiata, senza che l’eventuale accesso libero (come effetto del quesito referendario c.d. massima-lista) o costruito su diverse basi (come per gli altri quesiti) potesse essere con-siderato con certezza contrario a Costituzione. Da ciò, a mio parere, la inevita-bilità del referendum.
Piuttosto, se un peccato originale c’è in questa materia, esso va ricondotto, a mio parere, proprio al referendum del 1995 e ai suoi esiti, che hanno creato una serie di cortocircuiti pagati poi a caro prezzo in termini di incertezza circa
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necessariamente si riflettono anche nella sentenza n. 231/2013. Mi pare che gli effetti in qualche modo destrutturanti (s’intende, rispetto scelta statutaria d’origine) del referendum siano sostanzialmente due. Il primo, “politicamente”
più significativo anche se nell’immediato meno percepibile (e percepito), è quello dello sdoganamento del livello della rappresentatività solo aziendale, prima rigorosamente irrilevante. L’allineamento fra ambito di applicazione dell’attività sindacale privilegiata (l’impresa o la singola unità produttiva) e ambito di misurazione della rappresentatività del sindacato cui l’iniziativa dei lavoratori deve collegarsi, ha appunto legittimato anche associazioni sindacali a rilevanza solo aziendale, estranee all’orizzonte solidaristico (e confederale) posto a base della legislazione di sostegno del 1970. Il secondo effetto sta nell’inversione del rapporto tra diritto di associazione e diritto di azione, cioè di gestione e tutela degli interessi collettivi che sfocia soprattutto nel contratto, che da sempre ha caratterizzato il riconoscimento del fenomeno sindacale. Lo stesso art. 39 Cost., in fondo, è costruito sulla base di una sequenza abbastanza precisa: il diritto di organizzazione e di associazione viene prima, non tanto perché è inserito nel primo comma, quanto perché esso rappresenta il fonda-mento su cui si può costruire poi il diritto all’azione sindacale, e dunque anche al contratto. L’associazione è il prius, il contratto è un posterius; la prima è il mezzo attraverso il quale può essere raggiunto l’obiettivo, che sono la tutela e la gestione dei rapporti di lavoro, cioè il contratto; ma il referendum ha com-pletamente rovesciato questa sequenza logica, imponendo in un certo senso il raggiungimento dell’obiettivo (contratto) per poter usufruire del normale mez-zo per realizzarlo (l’associazione). Questo è un corto circuito che ha pesato sulla successiva applicazione dell’art. 19, perché il contratto, rectius, la sotto-scrizione del contratto è criterio di rappresentatività più concreto, ma assai meno significativo e talora ambiguo sul piano sistematico ai fini della selezio-ne e del privilegio. Un corto circuito, si può aggiungere, messo a fuoco dalla stessa sentenza n. 231, la quale sottolinea come sia sbagliato fondare la rap-presentatività sul rapporto tra associazione sindacale e datore di lavoro anziché su quello, precedente e prioritario a questi fini, fra sindacato e lavoratore.
Ecco allora gli “sbilanciamenti” messi in evidenza dalla Corte come effetti di-rettamente riconducibili al referendum: quello per eccesso, nel senso che non qualsiasi sottoscrizione di qualsiasi contratto può garantire una adeguata rap-presentatività e dunque l’accesso al titolo III Stat. lav.; quello per difetto, nel senso che la mancata sottoscrizione del contratto collettivo non necessaria-mente esclude la rappresentatività ai medesimi fini. Il tutto, si badi, sul pre-supposto che l’art. 19 sia comunque norma volta a fornire criteri di rappresen-tatività: un presupposto in realtà non più esplicito, perché l’art. 19 nella
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sione di risulta non ne fa menzione, ma necessariamente implicito. Quanto allo sbilanciamento per eccesso, esso è stato corretto dalla ben nota sentenza n.
244/1996 della Corte costituzionale, che ha arricchito – se si vuole appesantito – il requisito della sottoscrizione del contratto medesimo, che da un lato deve essere preceduta dalla effettiva partecipazione alle trattative, e dall’altro lato deve riguardare un contratto che abbia una valenza che si afferma normativa, ma che più che altro deve essere di carattere generale, donde appunto la resi-dua discussione sul cosiddetto contratto gestionale, che ben può essere anche normativo, ma che normalmente non ha carattere di generalità. Per lo sbilan-ciamento per difetto, invece, non si è proposta alcuna cura immediata, ed anzi la questione è stata toccata in modo piuttosto rapido e pragmatico. Ed infatti, con l’ordinanza n. 345/1996 (uscita anch’essa, come la sentenza di poco pre-cedente, dalla penna di Luigi Mengoni), lo sbilanciamento per difetto – cioè la negazione dell’accesso al titolo III per il sindacato che non abbia sottoscritto il contratto in ragione del deliberato rifiuto di sottoscriverlo – è stato superato con un rinvio alla libera scelta del sindacato e alla valutazione da parte di quest’ultimo del rapporto costi/benefici, dove i costi sono quelli della sotto-scrizione di un contratto che non si condivide, cioè della rinunzia alla libertà sindacale negativa, e i benefici sono quelli dell’accesso al titolo III.
Ora, quale è la differenza fra la situazione oggetto della pronuncia n. 345/1996 e quella che ha dato luogo alla sentenza n. 231/2013? Da un punto di vista pra-tico, ma sarebbe meglio dire polipra-tico, la differenza è abissale, perché allora si discuteva del diritto a costituire RSA di un comitato di base di una provincia pugliese, mentre ora si discute dello stesso diritto rivendicato dalla Fiom, cioè dal sindacato metalmeccanico maggioritario. Dal punto di vista teorico, inve-ce, non sembrerebbe esserci alcuna differenza. Ma poiché è difficile che la Corte costituzionale ammetta di avere dimenticato qualcosa o addirittura sba-gliato, la questione è stata posta – opportunamente da parte del giudice remit-tente – come questione di incostituzionalità sopravvenuta in ragione del muta-to contesmuta-to delle relazioni sindacali, e in particolare del fenomeno, non nuovo ma certo ora ben più evidente, della contrattazione separata. Se si preferisce – lo ha suggerito in modo raffinato Arturo Maresca in un recentissimo commen-to alla sentenza – come questione di incostituzionalità “disvelata”, cioè di una incostituzionalità presente già subito dopo il referendum ma resa evidente solo ora, in relazione alla qualità e all’importanza degli attori.
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