Prime osservazioni sulla sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale
2. Il nocciolo della sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale
Al di là dell’inquadramento “storico” della questione, le ragioni sulle quali la Corte ha basato la sua decisione sono sufficientemente trasparenti. Sullo sfon-do, vi è la già segnalata necessità di considerare centrale, ai fini della rappre-sentatività, la relazione fra organizzazione sindacale e lavoratori (che vi aderi-scono o che per essa simpatizzano) e non quella fra la stessa organizzazione e il datore di lavoro (relazione che nell’art. 19 come modificato dal referendum si traduce in un contratto “necessario”). Conta la prima relazione e non è am-missibile che le organizzazioni sindacali siano discriminate in dipendenza del-la seconda redel-lazione, a seconda che abbiano prestato o meno il proprio consen-so al contratto. Non c’è un modello fisconsen-so di attività sindacale, perché occorre uscire dalla logica del contrattare a tutti i costi e il sindacato può essere anche solo “antagonista” e rifiutarsi di contrattare per una migliore difesa, dal suo punto di vista, dell’interesse collettivo. Emerge così la ragione di fondo della incostituzionalità dell’art. 19: la sua configurabilità come «forma impropria di sanzione del dissenso», in conflitto con il comma 1 dell’art. 39 Cost.
Il fatto è che non ogni dissenso assume rilievo ai fini della violazione della norma costituzionale, ma – la premessa non è esplicitata e tuttavia evidente – solo quello di cui si faccia interprete il sindacato rappresentativo. E qui, però, spunta fuori, nella logica della Corte (anche se non nelle parole della stessa), una nozione di rappresentatività che, se non può essere estratta (come a suo giudizio ora non può più) dal criterio della contrattazione, neppure rinforzata ai sensi della sentenza n. 244/1996, dovrebbe dedursi in via generale: una rap-presentatività ontologica, verrebbe da dire. Ma qui il ragionamento rischiava di avvitarsi su sé stesso, perché quella nozione generale, quasi “ordinamenta-le”, di rappresentatività aveva trovato in realtà verifica e contenuto, prima del referendum, in alcuni specifici parametri, uno dei quali era proprio l’attività contrattuale. Non che si trattasse di un parametro assolutamente affidabile, vi-sto che non sempre poteva considerarsi inclusivo come la nozione di rappre-sentatività avrebbe dovuto suggerire. Non a caso cinquant’anni fa Federico Mancini teorizzò la propensione “egoistica” del sindacato e dei prodotti della sua attività e anche oggi non mancano esempi di contrattazioni riservate agli iscritti, in una logica di rappresentanza e non di rappresentatività. In ogni caso, forse proprio per sfuggire al circolo vizioso sopra evidenziato, la Corte, pur mantenendosi nell’area di questo consolidato parametro (diversamente avreb-be dovuto dichiarare la piena incostituzionalità dell’art. 19, cancellando con un colpo solo la legislazione di sostegno), lo ha manipolato in modo non indiffe-rente, dando rilievo condizionante anche ad una fase soltanto del complessivo
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processo di contrattazione, quella delle trattative e della partecipazione ad esse da parte del sindacato.
3. I problemi lasciati aperti. In particolare, l’accesso alle trattative e il suo significato
Ma, come già molti hanno sottolineato, i problemi cominciano là dove la sen-tenza ritiene di averli risolti. Se ciò non vale anche per la vicenda dalla quale è nato il giudizio di costituzionalità, ciò è dovuto alla scelta (politicamente op-portuna) della Fiat, dopo la sentenza, di ammettere la RSA anche della Fiom, nonostante per tale organizzazione non fosse verificabile neppure il criterio della partecipazione alle trattative. Ma vale comunque per tutte le altre situa-zioni. E i problemi non sono pochi.
Per cominciare, c’è il problema del contratto collettivo c.d. gestionale. Io cre-do che – anche se qualcuno ha pensato di ritenerlo superato dalla sentenza del-la Corte, ma non vedo come – questo problema sia ancora sul tappeto e i ter-mini della questione sostanzialmente non siano cambiati. Non ci sono espres-sioni della Corte che facciano pensare che il contratto debba essere propria-mente normativo, e d’altra parte al contratto gestionale non può essere negata una anima di normatività.
Poi, ai fini della costituzione della RSA, c’è la necessità che comunque un contratto collettivo ci sia, cioè che ci sia un qualche sindacato che lo abbia sot-toscritto. Si potrebbe replicare, come taluno ha fatto, che tale presupposto era implicito anche prima della sentenza della Corte. Ma una differenza c’è. Ed infatti, prima non si poteva neppure immaginare che un sindacato potesse ac-cedere alla RSA senza aver sottoscritto il contratto collettivo, posto che la par-tecipazione alle trattative era, in base alla precedente sentenza n. 244/96, un requisito ulteriore rispetto alla sottoscrizione, che era in ogni caso scontata dal punto di vista di quel sindacato; l’impossibilità di costituire RSA poteva perciò verificarsi solo in situazioni forse marginali di aziende che non applicassero alcun contratto nazionale e che si rifiutassero di contrattare a livello aziendale.
Ora, invece, dopo la manipolazione fatta dalla Corte (e fermo restando il caso-limite appena accennato), il requisito della partecipazione alle trattative è sì sufficiente per la costituzione della RSA anche nell’ambito di un sindacato che non abbia sottoscritto il contratto, ma solo quando un altro sindacato abbia messo la sua firma (ovviamente, dopo aver partecipato alle trattative), posto che il parametro di rappresentatività legato all’attività contrattuale è stato ma-nipolato ma non eliminato. Non so se ciò determini, come è stato sostenuto da
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Arturo Maresca, un nuovo profilo di incostituzionalità o se si tratti, come nell’ordinanza n. 345/1996, di una nuova ponderazione fra costi e benefici, le-gata alla peculiarità della situazione concreta, a seconda che vi sia o no un al-tro sindacato che sia disponibile a contrattare. Ma non è un caso che la stessa Corte, nel prendere in considerazione questa ipotesi di assenza di contratto, abbia suggerito – s’intende al legislatore – diverse possibili soluzioni al fine di accertare la rappresentatività del sindacato ove il meccanismo (pur rivisitato e manipolato) dell’art. 19 non sia idoneo allo scopo: da quella antica basata sul numero degli iscritti a quella, indotta dalla sua stessa sentenza, della previsio-ne di un obbligo a trattare, fino ad altre soluzioni a dir poco oscure, come quel-la del rinvio al sistema contrattuale e non al singolo contratto, che francamente si fa fatica a vedere concretamente attuata. Insomma, un vuoto da colmare per non far sorgere sospetti di incostituzionalità, peraltro nel presupposto che l’art.
19 serva pur sempre, ed esclusivamente, a pesare la rappresentatività del sin-dacato, e il ruolo del contratto collettivo non sia quello di autonomo requisito ma sempre e comunque quello di misuratore di rappresentatività.
Dunque, il requisito ulteriore e in sé sufficiente (sempreché, come appena det-to, un contratto collettivo sia stato sottoscritto e venga applicato nell’unità produttiva) è costituito dalla partecipazione dell’organizzazione sindacale alle trattative. Ma del concetto di trattativa (e di partecipazione alla trattativa, che non dovrebbe distinguersi da quello di partecipazione alla negoziazione) non viene fornita alcuna indicazione utile. L’interprete, perciò, si trova a scegliere fra una nozione ricavabile dallo stesso ordinamento intersindacale e una no-zione di carattere generale, desunta dal diritto privato. La prima porta all’applicazione delle procedure di cui al recente accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e al protocollo d’intesa del 31 maggio 2013, dove si indivi-duano i soggetti che hanno diritto di essere ammessi al confronto con la con-troparte, in relazione ad un misuratore di rappresentatività di tipo quantitativo;
la trattativa, poi, è rappresentata giusto quella procedura, ricostruibile in diver-se fasi, ora di diver-semplice informazione, ora di vero e proprio confronto dialetti-co. La seconda è quella ricavabile dall’art. 1337 c.c., che in buona sostanza in-dividua una relazione preliminare in vista della stipulazione del contratto e la assoggetta a regole di buona fede e correttezza.
Ma entrambe le prospettive non risolvono in modo chiaro la questione di quando si possa parlare effettivamente di trattativa, di quale sia il momento nel quale essa viene in essere, così che l’organizzazione sindacale possa rivendica-re di avervi partecipato e accederivendica-re poi al titolo III Stat. lav., né di quale debba essere la durata della trattativa medesima perché ne risulti certificata la rappre-sentatività del sindacato. Quando comincia una trattativa? Basta che il
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to presenti una qualche richiesta e si faccia vivo in qualche modo con il datore di lavoro, oppure è necessario che si sieda al tavolo? Nel primo caso è eviden-te che l’art. 19 non potrà più avere alcun carateviden-tere selettivo. Nel secondo caso però c’è da chiedersi per quanto tempo il sindacato deve stare seduto per poter rivendicare di aver partecipato alla trattativa? Escluso che debba per forza ri-manere fino al rifiuto dell’atto finale, cioè della firma, non mi sembra che ci siano risposte certe, così che sarà la giurisprudenza a darle, anche se la disci-plina dell’accordo interconfederale prima richiamato una qualche traccia la in-dividua.
Il fatto è che quando si parla di trattative, si parla di una relazione preliminare fra due soggetti entrambi disponibili a misurarsi, nel che sembra riemergere inevitabilmente la prospettiva, e il problema, dell’accreditamento da parte del datore di lavoro. Allora, la questione sarà quella di capire quando questo ac-creditamento è fisiologico come in ogni relazione (e trattativa) contrattuale, e quando invece è patologico. Lo strumento di rilevazione, indicato dalla stessa Corte, può essere l’art. 28 Stat. lav., che è norma non utilizzabile da chiunque, perché occorre una certa rappresentatività. Ed è norma che da un lato consente agevolmente di perseguire il rifiuto a trattare tutte le volte in cui un obbligo a trattare sia stato previsto. Ma è anche norma che consente di perseguire con-dotte antisindacali atipiche, e può dunque servire a sanzionare, in assenza di quell’obbligo, rifiuti a trattare che rivelino profili di carattere discriminatorio, ma anche solo atteggiamenti di discredito nei confronti dell’organizzazione, con il che tornerebbe in gioco una nozione soggettivistica della condotta anti-sindacale, tutta da rivedere. Senza peraltro dimenticare che non di rado il rifiu-to a trattare del darifiu-tore di lavoro è indotrifiu-to dall’atteggiamenrifiu-to di chiusura delle stesse associazioni sindacali nei loro confronti reciproci, sì da diventare in un certo senso un rifiuto richiesto.