Meglio di qualsiasi argomentare, con la spendita di ragionamenti astratti, è la stessa realtà, con la spietata lezione dei fatti a parlare dell’estrema spregiudica-tezza raggiunta in tema di utilizzazione della rappresentatività comparativa-mente più rappresentativa per concedere una delega derogatoria alla normativa di legge per via… amministrativa. Mi riferisco alla recente vicenda tragi-comica della “produttività” che trova una sua prima tappa nell’accordo
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confederale 21 novembre 2012, sottoscritto solo da una Cisl e da una Uil, do-potutto nostalgiche dell’art. 8, da loro stesse ibernato con la postilla al testo definitivo dell’accordo interconfederale del giugno 2011, sottoscritta nel set-tembre dello stesso anno. Del che c’è una precisa e puntuale testimonianza nel punto 7, laddove si dice che «Le parti ritengono necessario che la contrattazio-ne collettiva fra le organizzazioni comparativamente più rappresentative, contrattazio-nei singoli settori, su base nazionale, si eserciti, con piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro». Anche se, poi, le materie ritenute più importanti, sia pure solo in via esemplificativa, sono so-lo quelle relative «all’equivalenza delle mansioni, all’integrazione delle com-petenze», alla «razionalizzazione dei sistemi di orari e della loro distribuzione anche con sistemi flessibili», «alle modalità attraverso cui rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavora-tori»; e se, ancora, si dia implicitamente per scontata l’inutilizzabilità politica assai prima che giuridica dell’art. 8, col sollecitare che siano assunti «a livello legislativo, anche sulla base di rinvii, provvedimenti coerenti con le intese in-tercorse e con la presente intesa».
Tutto quello che il legislatore fa risulta scritto nell’art. 1, comma 481, l. 24 di-cembre 2012, n. 228, laddove prevede che «Per la proroga […] di misure spe-rimentali per l’incremento della produttività del lavoro è introdotta una specia-le agevolazione», fissando gli oneri finanziari e rinviando ad una decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri la determinazione delle «modalità di at-tuazione». Ma a fargli dire qualcosa di più ci pensa il provvido Governo, col d.P.C.M. 22 gennaio 2013, che apre richiamando non solo l’art. 1, commi 481 e 482, l. n. 228/2012, ma anche l’accordo interconfederale separato del no-vembre 2012, elevandolo a testo che avrebbe provocato e giustificato l’intervento legislativo «Visto l’accordo in data 21 novembre 2012, recante
“Linee programmatiche per la crescita della produttività in Italia” e in partico-lare le premesse in cui le Parti stipulanti “chiedono al Governo e al Parlamento di rendere stabili e certe le misure previste dalle disposizioni di legge per ap-plicare, sui redditi di lavoro dipendente fino a 40 mila euro lordi annui, la de-tassazione del salario di produttività, attraverso la determinazione di un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali al 10%”, nonché le pre-visioni di cui al punto 7 in tema di contrattazione collettiva di produttività».
C’è di più, però, perché nel decreto si percepisce chiaramente l’eco dell’art. 8, l. n. 148/2011, che già risuonava nell’accordo interconfederale separato ri-chiamato in premessa. Esso emerge chiaro e distinto all’orecchio dell’addetto ai lavori nella formula utilizzata nell’art. 2 per individuare le associazioni
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dacali legittimate alla gestione della contrattazione collettiva territoriale o a-ziendale in materia di retribuzione di produttività incentivata, cioè le «associa-zioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle loro rappresentanze aziendali». Ma a complicare ulteriormente la faccenda, c’è che la gestione di tale contrattazione territoriale o aziendale deve essere effettuata «ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfe-derali vigenti», così da pretendere l’osservanza di una procedura negoziale non prevista da alcuna norma di legge e prevista da una disciplina interconfederale a tutt’oggi in fase formativa, ma comunque non estendibile ex lege.
In cauda venenum. Nell’art. 2 si precisa che la retribuzione di produttività de-ve essere collegata «ad indicatori quantitativi di produttivi-tà/redditività/qualità/efficienza/innovazione», ma con l’aggiunta che «in alter-nativa» può anche venire correlata all’«attivazione di almeno una misura in almeno tre delle aree di seguito indicate»: a) la «ridefinizione dei sistemi di orari e della loro distribuzione con modelli flessibili»; b) l’«introduzione di una distribuzione flessibile delle ferie»; c) l’«adozione di misure volte a rende-re compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fonda-mentali dei lavoratori»; d) l’«attivazione di interventi in materia di fungibilità delle mansioni e di integrazione delle competenze».
Ora l’aggiunta sembrerebbe del tutto neutra se non suscitasse il sospetto di ce-lare la riserva mentale per cui l’attivazione delle misure previste potrebbe es-sere effettuata anche avvalendosi della facoltà di deroga alla stessa legge di cui all’art. 8, l. n. 148/2011. Del che c’è una precisa conferma nella “istruzione”
del Ministero del lavoro 3 aprile 2013, n. 15, intervenuta a dettare la linea nel segno di quella progressiva amministrativizzazione del diritto del lavoro, che accompagna la politica normativa di incentivazione normativa e finanziaria, con la sua interpretazione ed applicazione affidata alle circolari del Ministero del lavoro e dell’Inps, debitamente assistite dall’attività di vigilanza e repres-sione dei rispettivi servizi ispettivi… anche se, poi, tali circolari risultano più o meno “contrattate”.
Nel riprendere la formulazione del d.P.C.M. del gennaio 2013, c’è una qual sorta di combinazione pasticciata fra la vecchia nozione di “maggiormente rappresentative” e la nuova di “comparativamente più rappresentative”, che la dice lunga sulla scarsa o nessuna rilevanza data alla rappresentatività come re-gola selettiva effettiva, tanto a tener banco sono sempre i “soliti noti” … “a prescindere” come avrebbe detto Totò; ma c’è, altresì, un’apertura, nel senso di equiparare alle rappresentanze sindacali aziendali le rappresentanze sindaca-li unitarie. Così le «associazioni dei lavoratori comparativamente più rappre-sentative sul piano nazionale» di cui al decreto divengono nella circolare le
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organizzazioni «in possesso del requisito della maggior rappresentatività com-parata sul piano nazionale»; e le «loro rappresentanze sindacali operanti “in azienda”» vengono lette come riguardanti tanto «le Rsa che le Rsu».
L’aspetto su cui si intendeva richiamare l’attento lettore è costituito dal come la circolare riprende dal decreto la possibilità di attivare in alternativa «almeno una misura in almeno 3 delle aree di intervento di seguito elencate», perché le lett. c e d presentano un limite non esplicitato nel decreto stesso: l’adozione delle misure di cui sub c) deve avvenire «nel rispetto dell’art. 4 della l. n.
300/1970»; ed, a sua volta, l’attivazione degli interventi di cui sub d) deve a-ver luogo «nel rispetto dell’art. 13 della l. n. 300/1970».
Solo così tranquillizzata la Cgil darà la sua firma all’accordo interconfederale 24 aprile 2013, tanto che in premessa si afferma esplicitamente che «le parti anche in considerazione dei contenuti della circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 15 del 3 aprile 2013, ritengono opportuno favorire il miglior perseguimento degli obbiettivi definiti dall’art. 1, comma 481, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013), e dal successivo D.P.C.M. 22 gennaio 2013». Non solo, perché poi si esplicita che «Nel defini-re il pdefini-resente accordo, le parti intendono confermadefini-re il modello e la funzione dei due livelli di contrattazione, così come esplicitato nell’accordo interconfe-derale del 28 giugno 2011, anche con riferimento alle procedure per l’efficacia delle intese modificative», con l’evidente intenzione di escludere non le deroghe alla contrattazione di categoria, data la natura cedevole della disciplina prevista «rispetto ad eventuali e specifiche intese aziendali o pluria-ziendali», ma quelle alla normativa di legge.
L’accordo interconfederale dell’aprile 2013 è un accordo quadro nazionale che licenzia in allegato un accordo quadro territoriale, che tanto per far capire la totale irrilevanza della tormentata e tormentosa messa a punto della nozione di rappresentatività, porta in apertura l’individuazione come parti delle istanze territoriali delle Confederazioni firmatarie dello stesso accordo interconfedera-le, cioè l’Associazione territoriale di Confindustria, la Cgil territoriainterconfedera-le, la Cisl territoriale, la Uil territoriale.
Il che, però, ripropone il problema dell’efficacia dell’accordo quadro territoria-le, che con riguardo alle «imprese aderenti al Sistema di rappresentanza di Confindustria nella provincia o nel territorio…, prive di rappresentanze sinda-cali operanti in azienda» viene risolto dal punto 1 dell’accordo medesimo, col prevedere che tali imprese «possono – con l’assistenza delle associazioni ade-renti al Sistema di rappresentanza di Confindustria, aventi competenza sinda-cale – stipulare accordi aziendali – che si applicano a tutti i dipendenti
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dell’impresa – con le organizzazioni territoriali di categoria delle organizza-zioni sindacali stipulanti il presente accordo».
Dio salvi il “Sistema di rappresentanza di Confindustria”, rendendolo sempre più diffuso ed incisivo… come peraltro è ben lungi dal succedere. Ma dove il Sistema non arriva… beh basta aderirvi o adeguarvisi in un modo o nell’altro.
10. La disciplina interconfederale della titolarità della legittimazione