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La giustizia nello scambio: Etica Nicomachea V 5-8.

II D IVISIONE DEL L AVORO E R IPRODUZIONE

2. Aristotele: lo scambio come un “vero problema”.

2.5 La giustizia nello scambio: Etica Nicomachea V 5-8.

Per comprendere meglio l’analisi fatta da Aristotele sulla moneta nell’Etica

Nicomachea è necessario ricostruire il contesto nella quale essa è inserita. Nel quinto

libro di quest’opera Aristotele affronta il tema della giustizia. «Il concetto aristotelico di giustizia è molto più ampio di quello moderno»224 e si riferisce ad una virtù che, immanente alle condotte pratiche degli individui, ne regola i rapporti intersoggettivi all’interno della comunità politica. La giustizia, dunque, si dice in molti modi e Aristotele fa una distinzione tra la giustizia in senso ampio – cioè, una giustizia come virtù completa, «che non è una parte della virtù, ma è l’intera virtù» (Eth. Nic. 1130a 9- 10) – e una giustizia in senso stretto che riguarda l’equa redistribuzione dei beni (ricchezze, onori, ecc.) nella polis. A ciascuna di queste due forme di giustizia si                                                                                                                

221 Cfr. il passo dell’Etica Nicomachea in cui Aristotele scrive «tutto deve essere stimato [panta

tetimesthai]». Meikle commenta questo passo, in conformità con l’intenzione aristotelica di rilevare la determinazione di equivalente generale del denaro, scrivendo che Aristotele qui sostiene che «everything can be expressed in money» (Meikle, op. cit., p. 34).

222 Sull’assenza di due distinte teorie della moneta in Aristotele cfr. anche, oltre al già citato Meikle,

Faraguna, op. cit., pp. 129-134; A. Maffi, Circolazione monetaria e modelli di scambio da Esiodo ad Aristotele, in «Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica», 26, 1979, pp. 161-184.

223 W. D. Ross, Aristotele (1923), Feltrinelli, Milano, 1982, p. 232.

contrappone una corrispondente forma di ingiustizia. Un classico esempio di ingiustizia in senso stretto è quello dell’avido: «e siccome l’uomo ingiusto è anche un avido, costui sarà ingiusto riguardo ai beni, ma non tutti: lo sarà riguardo a quelli di cui si dà la buona e la cattiva fortuna, beni che, in generale, sono sempre dei beni, ma che, per un individuo particolare, non sempre lo sono» (1129b 1-4).

Aristotele si concentra poi su due forme particolari di giustizia in senso stretto che riguardano la vita sociale dei membri della polis. La città è tenuta insieme dalle relazioni che legano tra loro gli individui che ne fanno parte. Essa sarà tanto più stabile quanto più giuste saranno le relazioni sociali fra i suoi abitanti. La polis, dunque, costituisce il macro-contesto nel quale è pensabile la giustizia.

Le due forme particolari di giustizia che Aristotele tratta nel corso del quinto libro sono la giustizia correttiva e la giustizia distributiva. Posto che la giustizia è una forma di uguaglianza (cfr. 1131a 11-12) che regola il rapporto fra due persone, resta da esaminare in quale forma e secondo quali criteri essa debba essere intesa per i differenti tipi di relazioni sociali. Aristotele prende qui in esame lo scambio e la distribuzione dei beni all’interno della comunità. La giustizia nello scambio si deve costituire come l’uguale fra quattro termini: le due persone che effettuano lo scambio e i due beni scambiati.

Per quel che riguarda la distribuzione di cose comuni deve essere applicata una particolare forma di proporzione tra i beni scambiati e i soggetti che ne usufruiscono. In questo caso Aristotele parla di proporzione geometrica. La proporzione geometrica è una proporzione del genere: (A+C) : (B+D) = A : B, con A ≠ B. Ad esempio, se un uomo vale il doppio di un altro, egli dovrà avere il doppio di onori in modo da mantenere la stessa proporzione prima e dopo la distribuzione.

Diversamente, invece, funziona per la giustizia che riguarda le relazioni sociali in senso stretto, volontarie o involontarie che siano. In questo caso, Aristotele dice che vale un altro tipo di proporzione (la proporzione matematica, dove la differenza che c’è tra il primo e il secondo membro deve essere uguale a quella tra il terzo e il quarto) dal momento che le due parti devono essere considerate come uguali. Infatti,

non fa nessuna differenza se sia stato un uomo dabbene a derubare uno da poco, o sia stato un uomo dappoco a derubare un uomo dabbene, né se a commettere adulterio sia stato l’uomo dabbene o quello dappoco: la legge guarda solo la differenza prodotta dal danno, e tratta le due parti come

uguali: considera se il primo ha fatto ingiuria e il secondo l’ha subita, e se il primo ha danneggiato e l’altro ha subito il danno (1132a 1-6).

Aristotele, dimostrandosi ancora una volta un profondo osservatore del linguaggio, fa notare come per descrivere questi casi si utilizzino i termini “guadagno” e “perdita”. In qualsiasi tipo di scambio, però, ci deve essere uguaglianza e quindi non si possono dare né guadagno né perdita. È qui che entra in gioco la giustizia correttiva che, tramite il giudice, ristabilisce l’uguaglianza in quelle relazioni che sono state ingiuste (latrocini, truffe, delitti, ecc.). I termini “guadagno” e “perdita”, diffusisi a molte forme di relazione sociale,

sono stati ripresi dallo scambio volontario, infatti l’ottenere di più di quanto ci spetta è detto ‘guadagnare’, ed è detto ‘perdere’ l’avere meno di quanto si aveva all’inizio, per esempio nella compravendita, e in tutti gli altri casi che la legge consente; quando invece la gente non ottiene nulla di più o di meno di quanto aveva all’inizio, ma esattamente lo stesso, si dice che ha ‘quanto le spetta’ e che non ha né perso né guadagnato. Di modo che il giusto, nei rapporti che violano il volontario, è intermedio tra un certo tipo di guadagno e di perdita, e consiste nell’avere l’uguale sia prima che dopo il rapporto» (1132b 12-20).

E dunque Aristotele si avvicina così al paradigma delle relazioni di scambio volontario che si hanno tra i membri della comunità politica. Il problema è che in questi casi non c’è nessun giudice a calibrare la correttezza e l’uguaglianza dello scambio. Su che cosa si basa dunque la giustizia nello scambio? Su quali criteri e a quali condizioni si può realizzare? Queste sono le domande che stanno alle spalle delle questioni che Aristotele affronta nel capitolo ottavo del quinto libro dell’Etica Nicomachea.

In questo capitolo Aristotele presenta un tipo di scambio che avviene tra produttori privati e di genere diverso. Anche questo tipo di scambio, per essere giusto, deve fondarsi su una qualche forma di uguaglianza e di proporzionalità, ma non si può trattare né di una proporzionalità geometrica né di una matematica. Nel primo caso, infatti, mancherebbe la ratio, l’unità di misura per valutare la corretta proporzione; il

secondo tipo di proporzione, invece, sarebbe inapplicabile perché nello scambio si confrontano soggetti qualitativamente diversi.225

Per esempio sia A un costruttore, B un calzolaio, C una casa, D le scarpe: ora il costruttore deve ricevere dal calzolaio parte del prodotto di quello, e lui stesso deve dare all’altro parte del proprio prodotto, quindi, se per prima cosa si ha l’uguaglianza proporzionale, e poi si genera il contraccambio, avremo quel rapporto che abbiamo [ovvero secondo la proporzione [A + x(D)] = [B + C]]. Altrimenti non vi sarà uguaglianza, né sussistenza (1133a 7-11).

Un costruttore e un calzolaio sono figure qualitativamente diverse all’interno dell’organizzazione produttiva della polis che, come si è visto nel capitolo precedente, è fondata sulla divisione del lavoro. Di conseguenza anche i prodotti del loro lavoro, in quanto valori d’uso diversi, avranno qualità diverse. Su questo scarto qualitativo è basata la sussistenza stessa della polis, «infatti tra due medici non si forma un’associazione, ma essa nasce tra un contadino ed un medico, e in generale tra diversi, non tra uguali» (1133a 16-18). Perché lo scambio, però, sia uguale è necessaria una dimensione che rende quantitativamente commensurabili i prodotti scambiati: «tutto ciò di cui si dà scambio deve essere in qualche modo commensurabile» (1133a 18-19). Già qui, a parere mio, Aristotele pone i termini necessari per comprendere l’intera questione dello scambio.

Egli prosegue cercando di trovare una soluzione al problema, ovvero provando a individuare una cosa che fondi la dimensione di commensurabilità nello scambio. Dapprima si sofferma sulla moneta «che è divenuta in un certo modo un intermedio, dato che misura tutto, cosicché misura sia l’eccesso sia il difetto, e quindi anche quante scarpe siano uguali a una casa o a del cibo» (1133a 20-23). Il punto è, però, che la moneta è una semplice unità di misura e, in quanto tale, non può fondare la commensurabilità.226 Infatti, come ha fatto notare Meikle, «the possibility of measure presupposes commensurability. The invention of money, by designating one commodity                                                                                                                

225 Cfr. S. Meikle, Aristotle on equality and market exchange, in «Journal of Hellenic Studies», 111,

1998, pp. 193-196.

226 Cfr. il passo della Metafisica in cui Aristotele scrive che la misura «è sempre dello stesso genere della

cosa misurata: infatti la misura della grandezza è sempre una grandezza,; e in particolare, la misura della lunghezza è una lunghezza, della larghezza è una larghezza, dei suoni è un suono, dei pesi è un peso, delle unità è una unità» (Metaph. 1053a 25-27).

(say silver) as the money commodity, which will act as equivalent of everything else, cannot create commensurability, because there is no logical difference between ‘5 beds = 1 house’ and ‘5 beds = x amount of silver».227

Aristotele è ben consapevole di questo punto e per questo va alla ricerca di quel «qualcosa di unitario» (1133a 26) che può costituire una dimensione comune a tutte le cose. Questo qualcosa di unitario gli appare essere all’inizio il bisogno. Infatti il bisogno tiene unite tutte le cose. Con questo Aristotele intende riferirsi sia all’unità della città che alla dimensione che tutti i prodotti hanno in comune in quanto valori d’uso il cui fine è proprio quello di soddisfare uno specifico bisogno. Il riferimento è qui alla struttura produttiva fondamentale della polis che, come abbiamo visto, è pianificata alla luce del bisogno e incentrata sulla produzione di valori d’uso. In questo contesto, allora, la moneta per Aristotele è semplicemente una cosa che, posta per convenzione, sostituisce il bisogno, ovvero la necessità che c’è di un prodotto di una specifica qualità. Infatti, continua Aristotele, nello scambio M-D-M «la moneta è per noi come un garante del fatto che, se ora non si ha bisogno di nulla, lo scambio avverrà se ve ne sarà il bisogno; è necessario infatti che sia possibile, a chi la possiede, appropriarsi» (1133b 10-12).

Ricapitolando, Aristotele considera lo scambio una necessità all’interno della comunità; la comunità è tenuta insieme dal bisogno (chreia)228, il quale è il motivo principale per il quale si genera lo scambio; la comunità, però, è a sua volta giusta se nello scambio non si danno né perdita né guadagno, ma uguaglianza; l’uguaglianza non è però possibile se tra i beni scambiati non c’è commensurabilità; il bisogno, che nel circuito M-D-M trova un sostituto nel nomisma, appare inizialmente ad Aristotele il fondamento della commensurabilità.

Il filosofo, però, non sembra essere molto convinto da questa ricostruzione. L’analisi sulla commensurabilità dei prodotti oggetto di scambio si arena su una questione speculativa relativa al rapporto tra qualità (la qualità del bisogno, il valore d’uso) e la quantità (il valore di scambio). La conclusione di Aristotele è, in questo senso, paradigmatica e segnala in maniera forte una difficoltà fondamentale: «in verità è impossibile che due cose talmente differenti divengano commensurabili» (1133b 19- 20). Aristotele, una volta lasciata da parte la moneta, mette a fuoco il problema del                                                                                                                

227 Meikle, Aristotle’s economic thought, cit., p. 22.

228 Sulla centralità del bisogno nelle esposizioni di Platone e di Aristotele si è già detto nel capitolo II.

perché, in base a quale criterio oggettivo uno scambio possa non essere semplicemente una questione di arbitrio soggettivo. Effettivamente, «si tratta di semplice apparenza del processo di circolazione, se il denaro sembra rendere commensurabili tutte le merci»229 e «Aristotele vede, è vero, che il valore di scambio delle merci è presupposto al prezzo delle merci».230 Quindi l’indagine aristotelica non è finalizzata ad una teoria dei prezzi, come pensa Schumpeter, ma è una riflessione incentrata sulla problematica relazione tra i beni oggetto di scambio e finalizzata alla ricerca di una dimensione che renda commensurabili oggetti qualitativamente diversi; cioè, di una dimensione che tenga uniti il valore d’uso e il valore di scambio di un prodotto e che spiega il passaggio dalla qualità alla quantità senza incorrere in contraddizione logico-ontologiche.