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Lo schiavo come strumento animato.

II D IVISIONE DEL L AVORO E R IPRODUZIONE

2. Aristotele: riproduzione dell’oikos e oikonomia.

2.2 Lo schiavo come strumento animato.

Alla schiavitù Aristotele dedica un ampio spazio nel primo libro. Trattando dell’amministrazione domestica (oikonomia), Aristotele si sofferma sugli elementi che la costituiscono. Questi corrispondono ai rapporti di padronanza, coniugalità e paternità. L’amministrazione domestica è un’arte che permette la riproduzione dell’intero organismo familiare. Parte dell’amministrazione domestica è poi anche la cosiddetta

crematistica, della quale però Aristotele si riserva di parlare in seguito. La famiglia si

fonda sulla proprietà (presupposto logico dell’uso finalizzato alla soddisfazione dei bisogni). Per acquistare queste proprietà il capo famiglia deve essere in grado di servirsi degli strumenti appropriati; di questi alcuni sono animati, mentre altri inanimati. Lo schiavo è definibile all’interno di questa categoria: è uno strumento animato, oggetto di proprietà finalizzato alla riproduzione del nucleo familiare.

Lo schiavo è chiaramente uno strumento di produzione impiegato all’interno del processo produttivo definito dalla famiglia e dalla sua autosufficienza. Aristotele

                                                                                                               

170 Meikle insiste molto su questo punto sostenendo che le interpretazioni utilitariste di Aristotele hanno

completamente frainteso la sua teoria del valore, poiché hanno erroneamente tradotto chreia con “utile” o con “domanda”, invece che con “bisogno”. Cfr. Meikle, op. cit., in particolare pp. 117-122.

intuisce perfettamente l’importanza tecnologica dello schiavo in quanto strumento animato. Non ci sarebbe infatti bisogno di schiavi

se ogni strumento, per un qualche comando o per una capacità di presentire, potesse compiere la sua opera, come dicono che facessero le statue di Dedalo o i tripodi di Efesto, dei quali il poeta dice che da soli entrano nel divino consesso, se a questo modo le spole da sole tessessero e i plettri suonassero da sé (Pol. 1253b 33-38).

Gli strumenti sono di per sé produttivi, mentre la proprietà è sempre relativa all’uso. Dunque lo schiavo in quanto oggetto di proprietà è anche un oggetto d’uso il quale produce dei prodotti che sono di proprietà del padrone e finalizzati all’uso che egli ne fa. In conclusione a queste considerazioni Aristotele definisce la natura e la funzione dello schiavo in questo modo: «chi per natura non appartiene a sé ma a un altro, pur essendo uomo, è uno schiavo per natura; e appartiene a un altro quell’uomo che, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà; ed è oggetto di proprietà uno strumento che serve all’azione e che è separato da chi lo possiede» (1254a 13-17).

Circoscritto il ruolo produttivo fondamentale che lo schiavo assume all’interno dell’oikos, Aristotele si sofferma sulla relazione specifica tra padrone e schiavo. La differenza che esiste tra padrone e schiavo è di tipo qualitativo determinabile sul piano sostanziale, ontologico. La distinzione che si stabilisce tra l’uno e l’altro sul piano naturale (lo schiavo è tale per natura, così come il padrone), si trasferisce poi su un piano morale: al padrone infatti competono le virtù proprie di chi comanda, allo schiavo quelle di chi obbedisce.

Padrone e schiavo vengono poi ad assumere all’interno del contesto familiare la struttura logica del rapporto tra termini relativi. L’uno, infatti, non può sussistere senza l’altro. Lo schiavo rappresenta uno strumento indispensabile per la produzione di quei prodotti che sono in grado di realizzare l’autarkeia familiare. Dall’altro lato, lo schiavo non ha alcun senso di esistere senza un padrone che lo indirizzi con i suoi ordini.

Nelle Categorie Aristotele descrive la relazione logica tra termini relativi utilizzando proprio l’esempio della relazione padrone-schiavo:

relative si dicono poi le nozioni, ciascuna delle quali, proprio ciò che è, in sé, si dice esserlo di qualcos’altro, o in qualsiasi altro modo viene riferita a qualcos’altro. […] D’altro canto, tutte le nozioni relative si riferiscono al

termine con cui si convertono. Lo schiavo, ad esempio, si dice schiavo del padrone, ed il padrone si dice essere padrone dello schiavo (Cat. 6a 36-6b 30).

Scrivendo a proposito della conversione dei termini – cioè una relazione simmetrica tra i termini per cui se A è relativo a B, anche B sarà relativo ad A –, Aristotele afferma che essa è possibile solo se le nozioni vengono riportate al termine cui si riferiscono e non a degli accidenti qualsiasi. Dunque, «se ad esempio lo schiavo non viene riferito al padrone, bensì all’uomo, o al bipede, o ad un qualsiasi termine di questa natura, non sarà possibile la conversione, dal momento che la precisazione non è appropriata» (7a 28-32).

Dunque la relazione essenziale avviene tra lo schiavo-in quanto-schiavo e il padrone- in quanto-padrone, non tra lo schiavo e qualsiasi altro attributo del padrone (il suo essere bianco, intelligente o buono).171 La stessa cosa vale anche per il padrone, il quale fonda il suo essere padrone proprio sulla posizione dipendente e subordinata dello schiavo. Aristotele, in controtendenza con la maggioranza delle correnti culturali del suo tempo, sposta la definizione del rapporto di padronanza su un piano ontologico necessario e rigorosamente definito anche in chiave logica. La struttura ontologica definisce il rapporto reale e naturale per cui esiste chi comanda e chi è comandato.

L’astrazione di questa realtà dal piano storico è indirizzata alla riflessione nell’economia dell’oikos del finalismo implicito nella natura. La relazione padrone- schiavo è infatti necessaria per la conservazione (dello schiavo e del padrone così come dell’oikos stesso). Un termine non può sussistere senza l’altro, così come la specie umana non può sussistere senza la relazione coniugale tra uomo e donna finalizzata alla generazione. Schiavo e padrone hanno in comune gli stessi interessi, la cui realizzazione

                                                                                                               

171 Qualità che si riferiscono alla superiorità razziale dell’uomo bianco sono al di fuori dell’orizzonte di

Aristotele. Prima di tutto perché «mai troviamo nei testi antichi qualcosa come “i bianchi” contrapposti a “i neri”» (M. M. Sassi, Pensare la diversità umana senza le razze: l’ambiguità della physis, in «I quaderni del ramo d’oro», 3, 2000, pp. 137-162). Inoltre, l’analisi aristotelica della schiavitù va inquadrata all’interno di una società basata in larga parte sul lavoro degli schiavi. Quando, invece, la prestazione lavorativa degli schiavi ha smesso di essere il rapporto sociale dominante – come negli Stati Uniti del XIX secolo, in cui il lavoro degli schiavi neri è inserito in un contesto globale dominato dal lavoro libero e dal sistema capitalistico del libero mercato – sono emerse posizioni ideologiche che hanno tentato di giustificare la schiavitù su basi razziali, spesso e volentieri rifacendosi all’autorità dei testi antichi, Aristotele in primis (cfr. G. M. Cazzaniga, Stratificazioni sociali, rapporti di dipendenza e forme servili nel mondo antico, in L. Sichirollo (a cura di), La schiavitù antica e moderna, Guida, Napoli, 1979, pp. 139-158, in particolare p. 152).

compete alla capacità del padrone di saper comandare e a quella del servo di saper obbedire: «il padrone deve saper comandare quelle cose che il servo deve saper fare».172

A questo punto credo sia plausibile un’interpretazione che vede in questi passi aristotelici non tanto una giustificazione ideologica della schiavitù, quanto una sua

comprensione e spiegazione filosofica.173 L’esistenza di schiavi e padroni è una realtà necessaria all’epoca di Aristotele.174 Il filosofo tenta allora di rinvenire una struttura necessaria alle spalle di questa realtà empirica. È in questo senso che egli ammette una ragione naturale dell’esistenza della schiavitù sostenendola con una dimostrazione logica e criticando coloro che sostengono che la schiavitù sia per convenzione e non per natura. Aristotele intende spiegare la rete concettuale che permette di comprendere il prodursi stesso della schiavitù. Per questo egli ricerca una spiegazione kata logon che rifletta le finalità inscritte nell’ordine naturale, il quale, prima di tutto, destina ogni strumento a una funzione ben precisa.

Lo schiavo è appunto lo strumento che svolge una funzione specifica all’interno dell’oikos, garantendo la riproduzione di questo. Verrebbe dunque da pensare che la prospettiva del ragionamento aristotelico sia oggettiva e non morale o ideologica. La ricerca dell’oggettività presente nell’esposizione aristotelica può risultare molto produttiva qualora si esamini il genere di attività in cui è coinvolto lo schiavo.

                                                                                                               

172 Aristotele, Politica, 1255b 34-35. Nel capitolo tredicesimo del primo libro Aristotele sostiene che lo

schiavo, in un certo senso, partecipi delle virtù morali, non in assoluto, ma in relazione alla natura e alla funzione del suo essere schiavo.

173 Le pagine aristoteliche relative all’esame dialettico dei più comuni giudizi sulla schiavitù sono molto

controverse e hanno sollevato un ricco dibattito tra gli interpreti. Tra le tante letture che sono state date mi limito a dar nota solo di alcune: Enrico Berti ritiene che le motivazioni attraverso le quali Aristotele tenta di giustificare la schiavitù naturale siano incoerenti con quanto il filosofo sostiene nelle opere biologiche e nel De Anima, e pensa che la reale spiegazione-giustificazione aristotelica della schiavitù sia quella economica (cfr. E. Berti, Il pensiero politico di Aristotele, Laterza, Roma-Bari, 1997); Taylor scrive che le tesi aristoteliche, per quanto incoerenti, sono tese sempre e comunque a dare una giustificazione ideologica della schiavitù su base naturale (cfr. Taylor, op. cit.); Victor Goldschmidt ritiene che lo stagirita parlando della schiavitù naturale ne sveli allo stesso tempo i limiti quando scrive che la natura non sempre realizza i propri fini (cfr. V. Goldschmidt, La teoria aristotelica della schiavitù, in L. Sichirollo (a cura di), op. cit., pp. 183-204); un’altra interpretazione che rilegge questi passi attribuendo ad Aristotele una posizione ideologica in senso marxista e cercando comunque una certa continuità con quanto il filosofo dice in altre opere è quella di Pierre Pellegrin (cfr. P. Pellegrin, Natural slavery, in M. Deslauriers e P. Destrée (a cura di), The Cambridge companion to Aristotle’s Politics, Cambridge University Press, Cambridge, 2013, pp. 92-116). È interessante il tentativo di Remo Bodei di tematizzare le considerazioni aristoteliche sulla schiavitù in relazione alla figura del servo-padrone della Fenomenologia dello spirito di Hegel (cfr. R. Bodei, op. cit.). Per approfondimenti di taglio più generale sul tema della schiavitù nell’antichità classica si i saggi relativi ai miti, alle istituzioni e alle idee riguardanti la schiavitù antica raccolti in Sichirollo (a cura di), op. cit.

174 Su questo cfr. B. Williams, Shame and necessity, University of California Press, Berkeley-Los

Angeles-Oxford, 1993, in particolare cap. 7, Necessary identities, che scrive giustamente che gli schiavi nel mondo di Aristotele erano una necessità, «a technological necessity» (p. 112). Come fa notare Williams, assumere questa necessità come punto di partenza aiuta a far comprendere filosoficamente la questione della schiavitù nel mondo antico, lasciando da parte i pregiudizi ideologici dei lettori moderni.

Nel capitolo quinto del primo libro Aristotele difende la propria tesi della schiavitù per natura sulla base di tre ragioni. La prima si basa sull’evidenza che nella realtà ci sono degli uomini che differiscono dai loro simili, così come gli esseri umani dagli animali e l’anima dal corpo; lo stesso vale per gli schiavi che devono necessariamente relazionarsi al padrone e ubbidirgli. La seconda riconosce nell’ordine naturale la distinzione tra ciò che comanda e ciò che è comandato; una distinzione logica all’interno della quale, come abbiamo visto, si inscrive anche la schiavitù. La terza, infine, si sofferma sull’opera della natura e mostra come essa intenda

foggiare anche corpi diversi per gli uomini liberi e per gli schiavi, dando a questi corpi, adatti alle mansioni più strettamente necessarie, a quelli corpi diritti e inutilizzabili per quelle mansioni, ma adatti alla vita civile che può essere divisa in occupazioni militari e occupazioni pacifiche (1254b 27- 32).175

Non ci interessa qui soffermarci sull’ovvia falsità di questa tesi. Piuttosto, è interessante vedere come Aristotele sveli in questo passo il nesso tra lo schiavo e il lavoro fisico. Lo schiavo è forza lavoro oggettiva che serve la sussistenza familiare. Quella divisione di funzioni che è stata definita kata physin acquisisce così un’ulteriore determinazione: essa implica una divisione del lavoro che si basa sulla distinzione tra lavoro manuale e lavoro non-manuale. Il lavoro manuale è meccanico, finalizzato alla soddisfazione dei bisogni necessari, produttivo e rivolto ad altri.

Questo per quel che riguarda il contesto dell’oikos. Nella polis la questione del lavoro manuale si fa più complessa ed è in parte anche connessa con il generale disprezzo, presente nel pensiero greco ed anche in Aristotele, nutrito per il lavoro manuale. Nel terzo libro, in un contesto in cui Aristotele esamina le virtù proprie del cittadino e quelle del governante, ritorna sul lavoro degli schiavi. Nella polis esistono diversi tipi di schiavi, la cui distinzione è basata sul tipo di servizi che essi svolgono. «Una parte di essi è compiuta dai manovali che sono, come dice il nome, coloro che vivono con il lavoro delle mani e nel novero dei quali è compreso anche l’artigiano» (1277a 38-1277b 1).

                                                                                                               

175 Ha ragione Ruggiu nel rilevare che la dimostrazione aristotelica in questione è in realtà una petitio

principii, poiché Aristotele pone come premessa quanto invece intenderebbe provare, cioè che la schiavitù è per natura (Cfr. Ruggiu, op. cit., p. 87).

Sembra di intuire da questo passo che la distinzione tra schiavo manovale e artigiano sia in prima battuta giuridica e non produttiva: gli uni sono liberi e gli altri no. Sul piano lavorativo la differenza tra schiavi e artigiani o teti (i salariati) la si rinviene solo ad un esame più ravvicinato: i primi «attendono ai bisogni immediati di una singola persona», mentre i secondi «rendono servizi pubblici» (1278a 11-13).

È importante notare che il disprezzo morale nutrito da Aristotele per il lavoro manuale non è ancora emerso in queste parti. Esso si palesa solo in seguito, quando Aristotele, riflettendo attorno all’estensione del diritto di cittadinanza, sostiene che «la costituzione migliore non ammetterà mai nel novero dei cittadini un operaio» (1278a 8). Resta dunque da rilevare che, sul piano sociale, la prestazione lavorativa appare ad Aristotele (così come a Platone) nella sua concretezza, in quanto attività finalizzata alla produzione di precisi valori d’uso necessari per la riproduzione del corpo sociale. In questa cornice è giustificata la prevalenza dell’uso sulla produzione, della praxis sulla

poiesis.

Sulla divisione del lavoro si sorregge poi una divisione di status e di classe tra gli abitanti della polis. Chi svolge un lavoro manuale produttivo, infatti, non ha tempo per occuparsi degli affari politici o per dedicarsi alla vita contemplativa. Egli è situato alla base della gerarchia sociale, predisposto all’ubbidienza mentre si dedica alla sua funzione principale, cioè la produzione degli oggetti d’uso altrui.