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Oikos, idion, ousia Contro l’atopia di Platone.

II D IVISIONE DEL L AVORO E R IPRODUZIONE

2. Aristotele: riproduzione dell’oikos e oikonomia.

2.4 Oikos, idion, ousia Contro l’atopia di Platone.

Nel primo libro Aristotele affronta il tema dell’oikos in quanto cellula fondamentale della comunità politica. Largo spazio, come si è visto, è dedicato all’arte relativa all’amministrazione della casa, l’oikonomia, e ai rapporti che costituiscono il suo oggetto. Aristotele tematizza nella maniera più approfondita possibile la questione dei rapporti produttivi che garantiscono la continuità dell’oikos, il necessario e naturale riprodursi delle condizioni che permettono la sua sussistenza.

L’oikos, però, non è la città. Aristotele più volte ribadisce questo concetto specificando le differenze qualitative che corrono tra l’uno e l’altra. Il filosofo riprende e argomenta ulteriormente questo ragionamento attraverso il confronto critico che intavola nella prima metà del secondo libro con la Repubblica di Platone. Il ‘comunismo’ platonico è l’evidente obiettivo polemico del filosofo stagirita in queste pagine.

La questione della “comunanza” è esplicitata in apertura del secondo libro: i cittadini possono avere tutto, nulla oppure solo qualcosa in comune. Aristotele scarta la seconda possibilità dal momento che, essendo i cittadini tutti membri di una stessa comunità, non è possibile che essi non abbiano niente in comune. Almeno la comunanza del suolo, infatti, è uno dei presupposti necessari per la genesi della polis. Detto questo, però, resta da affrontare il seguente problema: «per una città che voglia ben governarsi è meglio mettere in comune tutte le cose che è possibile avere in comune oppure è meglio metterne in comune solo alcune?» (1261a 1-3). Tra le cose che devono essere messe in comune rientrano, come vuole Platone nella Repubblica, anche i figli, le mogli e le proprietà?

La critica aristotelica a Platone trova in queste domande il proprio punto di partenza. Essa, nel corso dell’esposizione, si muove su più livelli. Il primo di questi lo potremmo definire logico-linguistico: esso denuncia il fatto che «tutti dicano contemporaneamente “è mio” e “ non è mio”» (1261b 18-19) come un’impossibilità logica, un paralogismo. Il termine “tutti”, infatti, si presta a un’ambivalenza che Platone non prende nemmeno in considerazione. “Tutti” può valere in senso globale come pantes (tutti) o come hekastos (ciascuno). Che tutti dicano contemporaneamente la stessa cosa si rivela un “sillogismo eristico” (e quindi falsifica quello che è il presupposto logico della perfetta unità politica secondo Platone) sia che il termine “tutti” venga preso nel suo senso globale, sia che esso venga preso nel suo senso diviso. Nel primo caso, si creerebbero occasioni di discordia, dal momento che tutti si troverebbero a dire “mio” contemporaneamente della stessa cosa e quindi ad essere parzialmente mariti, padri e proprietari; nel secondo caso, invece, ciascuno sarebbe totalmente padrone della stessa cosa, marito della stessa donna e padre dello stesso figlio.

Dopo aver dimostrato che il presupposto del ‘comunismo’ platonico non è altro che una fallacia logico-retorica, Aristotele sposta la propria critica su un piano psicologico. Generalmente, secondo Aristotele, l’uomo è portato a trascurare ciò che è in comune:

l’uno finisce per trascurare ciò di cui pensa si occupi un altro. Questa cosa vale per la proprietà così come per i figli.

Alla luce di questo dato psicologico fondamentale, qualsiasi tipo di unità, nel regime comunistico di Platone, finisce per disintegrarsi in «aggressioni, uccisioni involontarie, e anche volontarie, risse e insulti» (1262a 25-26); la maledizione di Edipo rischia di diventare realtà: dal momento che nessuno sa riconoscere il proprio padre e la propria madre i misfatti più empi per eccellenza (il parricidio e l’incesto) sono possibilità reali. Platone, del resto, trascura che «due sono le cose che più di ogni altra spingono gli uomini a scegliersi un oggetto delle loro cure e del loro amore: il possesso e l’affetto, nessuno dei quali può sussistere tra cittadini legati dai rapporti suddetti» (1262b 22-24).

Secondo Aristotele, Platone non comprende i momenti nei quali si articola necessariamente l’unità della polis. L’autore della Repubblica vuole semplicemente trasformare la città in una grande e unica famiglia, ma non si accorge del livellamento che accompagna questo tipo di operazione. Nella città ideale di Platone vengono meno quelle distinzioni fondamentali che si danno per natura, come, ad esempio, quella tra pubblico e privato, tra individuo e totalità, tra oikos e città. In questo modo egli sradica l’individuo, o, ancor meglio, il soggetto morale, dalla fondamentale normatività etica che si acquisisce all’interno della famiglia. Secondo Aristotele, il soggetto del progetto politico di Platone è un soggetto dissociato, alienato e inerte: egli si perde nella comunità; non è in grado di costruire relazioni equilibrate con cittadini e familiari perché, in ultima istanza, non è in grado di distinguere gli uni dagli altri; non si riconosce più nei prodotti del proprio lavoro perché la consueta armonia tra lavoro e godimento dei suoi frutti risulta sovvertita.

La critica a Platone, però, non si ferma qui. Se così fosse, essa non affronterebbe il punto che ad Aristotele sembra stare più a cuore, cioè l’organizzazione reale socio- economica della comunità politica. Per questo motivo, il piano finale (nel senso del più esaustivo, del più compiuto) della critica a Platone si trova nel quinto capitolo del secondo libro, dove Aristotele difende la proprietà privata e l’oikos dagli attacchi platonici. Pertanto, a prescindere dalla legislazione sulle donne e sui figli, adesso «si può discutere sulle proprietà per vedere se sia migliore la comunanza dei beni e dei frutti» (1263a 1-2). La completa comunanza dei beni presenta delle difficoltà che hanno a che vedere con le liti, i diverbi e i processi che realisticamente sorgerebbero in un contesto simile. Per Aristotele la risoluzione migliore risiede in una via di mezzo: «è meglio che le proprietà siano private e che diventino comuni solo nell’uso; e ottenere

questo risultato è compito del legislatore» (1263a 37-40). Questa distinzione concettuale tra ktesis (proprietà, possesso) e chresis (uso) rappresenta il punto chiave dell’argomentazione aristotelica. L’analisi del filosofo, però, non è affrettata e si mantiene in continuità con i risultati dei capitoli precedenti. In particolare, Aristotele si rende conto che un perfetto equilibrio tra ktesis e chresis può realizzarsi solo a patto che i cittadini abbiano un habitus virtuoso. Diego Lanza ha ben sintetizzato questo passaggio scrivendo: «solo la proprietà privata permette di giungere all’uso comune dei frutti di queste proprietà, ognuno baderà alla sua proprietà, ma grazie alla virtù sarà possibile nell’uso dei beni il realizzarsi del proverbio “le cose degli amici sono comuni” (1263a 29-30)».180

La comunanza dei beni voluta da Platone è totalmente irrealistica, e ad essa è «non poco preferibile l’ordinamento attuale, coronato da buoni costumi e da un sistema di leggi rette» (1263a 21-23). La comunanza dei beni non permette il realizzarsi di alcune virtù fondamentali dei cittadini, come ad esempio la liberalità (eletheuriotes), la quale si dà proprio nell’uso delle proprietà e che trova il proprio fondamento nel naturale amore che uno ha per sé e per le proprie ricchezze. La città non può essere ridotta a quell’eccessiva unità che vuole Platone. Per Aristotele la famiglia è il luogo dell’uniformità; al di fuori di questa c’è la molteplicità (plethos). In Platone manca un fondamentale momento di mediazione concettuale tra unità e pluralità, che lo porta ad annullare «la sinfonia ridotta all’omofonia, o il ritmo ridotto a una sola misura» (1263b 34-35).

Quella che Platone vuole presentare come la cura per tutti i mali si presenta agli occhi di Aristotele come una medicina ben peggiore della malattia stessa:

senonché nessuno di essi [dei mali presenti nelle città] è dovuto alla mancanza di un regime comunistico, ma piuttosto alla cattiveria umana, in quanto vediamo che tra coloro che hanno la proprietà in comune e in genere osservano un regime comunistico, sorgono maggiori divergenze che tra coloro che posseggono privatamente la proprietà, sebbene quelli siano pochi, in confronto al numero di questi (1263b 22-27).

                                                                                                               

180 D. Lanza, La critica aristotelica a Platone e i due piani della Politica, in «Athenaeum», 49, 1971, pp.

L’oikos, lo spazio privato, rimane dunque per Aristotele un’istituzione fondamentale perché in esso l’individuo sviluppa le potenzialità della sua costituzione come soggetto economico e politico: «se lo spazio familiare è la condizione per poter affermare “è mio”, la grande famiglia platonica ne è la negazione perché dissolve la ordinata rete di permuta tra oikonomikoi ad esso sottesa».181 La riproduzione del corpo familiare si realizza nell’oikos, nella sfera privata (legata alla naturalità del bisogno), la quale, con specifiche modalità di articolazione intermedia, si estende kata physin alla pluralità dello spazio propriamente pubblico e politico della città. La polis, dal canto suo, garantisce una migliore e più perfetta autarkeia, il cui presupposto è costituito proprio dalla pluralità immanente ad essa. Per questa via, nella polis si saldano il piano naturale della famiglia e quello politico-storico relativo all’organizzazione costituzionale. La città si realizza come pluralità organica, grande comunità degli oikonomoi, che mettono in comune (e pertanto scambiano) i beni privati.

La critica di Aristotele a Platone trova in una precisa interpretazione del contesto socio-economico un fattore determinante. Come si è mostrato, anche per Aristotele pensare il suo presente significa pensare il mondo in tutta la sua complessità. In continuità con questo assunto, nella critica a Platone il piano economico non è sciolto da questioni logico-metafisiche, psicologiche o etiche.

In un saggio teso a rintracciare le influenze sotterranee della filosofia greca sulle teorie moderne della soggettività, Vegetti ha evidenziato nella critica di Aristotele al ‘comunismo’ platonico un momento di svolta fondamentale. La sua importanza risiederebbe nel presupposto metafisico-linguistico dell’argomentazione aristotelica.

L’analisi di Vegetti prende spunto dal concetto aristotelico di ousia, il quale significa “sostanza”, “entità”, “identità”. In questo modo il termine ousia si presta ad un’ambivalenza di fondo: su un piano metafisico esso individuerebbe il soggetto – differente dal soggetto-sostrato indicato dal termine hypokeimenon – in quanto entità- identità individuale; su un piano legato al linguaggio del senso comune, invece, esso indica la proprietà privata, la sostanza patrimoniale. Aristotele, secondo Vegetti, pone così un nesso inestricabile tra il soggetto individuale e la sua proprietà privata. La soggettività aristotelica è «radicata nella sua concezione sostanziale/patrimoniale»,

                                                                                                               

181 S. Campese, Pubblico e privato nella Politica di Aristotele, in «Sandalion», 8-9, 1985-1986, pp. 59-83,

fondata sul «legame di individualità-proprietà, di “io” come stabilità dell’ousia, dell’idion, dell’oikos».182

Alla difesa della proprietà privata, dunque, Aristotele sembra accompagnare la fondazione di una nuova teoria del soggetto che trova il proprio fondamento nel quadro ontologico-metafisico della sua filosofia. L’oikonomos, in questo modo, finisce per essere il soggetto fondamentale dell’organizzazione socio-economica delineata da Aristotele. In lui si pone in maniera sostanziale il trait d’union tra l’oikos (la famiglia e il suo patrimonio privato) e la città, intesa come luogo dell’azione politica e della circolazione dei beni (nell’agora).

L’oikonomia è sì arte dell’amministrazione domestica, ma in quanto tale non deve trarci in inganno. Per noi moderni, infatti, la distinzione tra privato e pubblico è tanto più netta che per gli antichi; così tanto netta da porsi concettualmente come scissione tra

citoyen e bourgeois nella società civile. Nell’analisi economica di Aristotele

l’amministrazione domestica trova il proprio fulcro nella figura dell’oikonomos, il capofamiglia proprietario, il quale è allo stesso tempo il soggetto etico-politico- economico fondamentale nel contesto allargato della città.

In conclusione, dire che l’oikonomia aristotelica non è l’economia moderna è perfettamente corretto; sostenere, invece, che essa non abbia niente a che vedere con alcune di quelle condotte che qualsiasi moderno definirebbe economiche è una conclusione troppo parziale e schematica. L’oikonomia costituisce in Aristotele il presupposto logico delle attività commerciali che hanno luogo nella città, nelle sue piazze e nei suoi porti, e dei soggetti che ne sono protagonisti.

Aristotele dopo aver distinto in un primo momento oikonomia e crematistica, idion e

koinon, oikos e polis, riesce poi a trovarne una mediazione, il nesso kata logon che lega

un termine all’altro. Una metodologia che dà i suoi frutti più ricchi quando, come si vedrà nel terzo capitolo, il filosofo affronta il problema della circolazione e dello scambio dei beni. Del resto, come insegna Hegel, è impossibile non riconoscere alla filosofia di Aristotele tratti profondamente speculativi.