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Lo “scarto materialistico” di Socrate nel libro II della Repubblica.

II D IVISIONE DEL L AVORO E R IPRODUZIONE

1. Platone: divisione del lavoro, tecniche ed economia politica.

1.1 Lo “scarto materialistico” di Socrate nel libro II della Repubblica.

Prima però di affrontare da vicino queste pagine, che saranno centrali in questa presentazione, è il caso di ricostruire brevemente il contesto e le considerazione da cui Socrate prende finalmente le mosse.

La Repubblica, come è noto, comincia con una discussione sulla definizione della giustizia inaugurata da Socrate e da Cefalo, il vecchio padrone della casa che fa da scenario al dialogo. Il numero degli interlocutori si fa via via più ampio con gli interventi di Polemarco (figlio di Cefalo) e di Trasimaco, il quale, con la sua affermazione che la giustizia, o meglio il giusto, «non è altro se non l’utile del più forte» (Resp. 338c), rappresenta il punto di svolta fondamentale del primo libro. Il confronto tra Socrate e Trasimaco lascia in sospeso una serie di questioni. Nell’economia del dialogo, l’intervento di Trasimaco ha la funzione di costringere Socrate ad accettare il piano politico della discussione senza trascurare le istanze degli individui. Nelle stesse parole del racconto di Socrate, infatti, il dialogo con Trasimaco è presentato come un «proemio» (357a) dei temi poi affrontati nel secondo libro, che vede al centro della scena il confronto tra Socrate, Glaucone e Adimanto.

Da un certo punto di vista, sia Glaucone che Adimanto sono ‘estensori’, meno passionali e più lucidi, della tesi di Trasimaco. Il loro ragionamento poggia su strumenti teorici raffinati e si avvale dell’astrazione dalla situazione politica presente per ritrovare una definizione universale e valida della giustizia e del giusto. Che l’astrazione sia una delle principali questioni in gioco è lo stesso Platone a dircelo, mettendo in bocca a Socrate queste parole: «amico Glaucone, con quanta forza hai ripulito ognuno dei due uomini, come se fosse una statua, per sottoporlo a giudizio» (361d). Glaucone ha infatti tentato di elaborare dei modelli astratti e validi dell’uomo giusto e di quello ingiusto attraverso il mito dell’anello di Gige, la storia del pastore lidio che, grazie ad un anello che magicamente lo rende invisibile, riesce a diventare re della Lidia commettendo una serie di ingiustizie senza essere punito. Il mito è raccontato al fine di sostenere la tesi del “patto sociale” basata sull’idea che se è vero che commettere ingiustizia è un bene e subirla un male, e c’è più male nel subire l’ingiustizia che nel praticarla, allora è

necessario un accordo reciproco volto ad impedire tanto di commettere quanto di subire un’ingiustizia (cfr. 359a-c). Così l’uomo, per natura incline a commettere un’ingiustizia perché più vantaggiosa, è costretto nelle maglie del nomos a rispettare l’altro e a seguire la retta via della giustizia.113

A questo discorso fa eco quello di Adimanto, il quale, pur condannando l’ingiustizia, tesse le lodi dell’apparenza della giustizia e non della giustizia in sé: la giustizia, seppur dura e faticosa da praticare, è ricca di vantaggi perché porta fama e onori insieme ai mezzi per sfuggire alla punizione degli dei. È su queste basi, puramente apparenti e basate sempre sull’utile, che secondo Adimanto è fondato l’atteggiamento generalizzato volto a evitare la reciproca ingiustizia (cfr. 366e-367a).

Chiaramente, argomentazioni come quelle di Glaucone e di Adimanto non possono fornire agli occhi di Socrate una definizione soddisfacente della giustizia e dell’ingiustizia. Esse si basano su una naturalizzazione della psicologia umana che prevede il vantaggio come fine principale di ogni azione e, quindi, anche come presupposto teorico fondamentale per la definizione del ti esti della giustizia. Per Socrate, invece, la giustizia appartiene a quell’ordine di beni che si amano per sé oltre che per le loro conseguenze (cfr. 357c); i discorsi dei suoi interlocutori si basano su astrazioni indeterminate sul piano scientifico. Occorre pertanto ripartire da capo. Se è vero che la giustizia riguarda sia la città che l’individuo, è più ragionevole, sostiene Socrate, indagare qual è la giustizia nelle città e poi, in seconda battuta, anche «nel singolo individuo, cercando la somiglianza con il maggiore che è inerente nella forma minore» (369a). Questo presupposto teorico sposta pertanto la discussione sul principio fondazionale della città: è necessario ripercorrere nel pensiero la genesi della polis, e ciò va fatto alla luce di un principio astratto e concreto allo stesso tempo, in grado di svolgere un ruolo determinante nell’indagine in cui sono impegnati i protagonisti del dialogo. A questo punto il discorso può liberarsi da ogni vuoto esercizio retorico ed evitare così di cadere nel baratro di definizioni immediate, arbitrarie e inconcludenti.

Una volta stabilito che solo ricercando la genesi della città è possibile anche rintracciare la genesi dell’ingiustizia, Socrate conduce il dialogo in questo modo:

                                                                                                               

113 R. C. Cross e A. D. Woozley fanno correttamente notare come la posizione di Glaucone non possa

essere avvicinabile alle moderne teorie del contratto sociale perché poggia su un lato fattuale piuttosto che su uno etico. Cfr. R. C. Cross, A. D. Woozley, Plato’s Republic. A philosophical commentary, MacMillan, London, 1994, pp. 69-74.

«Nasce dunque la città» dissi, «io ritengo, perché di fatto ciascuno di noi non è autosufficiente, ma è carente di molte cose. O pensi che ci sia qualche altro punto di inizio della fondazione della città?»

«Nessun altro» disse.

«Non accade dunque che un uomo se ne associ un altro in ordine a un bisogno, e un altro ancora per un altro bisogno, e che avendone molti, molti si raccolgano in un solo insediamento formando una comunità di reciproco aiuto – e a questo insediamento comunitario abbiamo dato il nome di città. Non è così?»

«Certo.»

«Ma fanno scambi reciproci, dando o ricevendo qualcosa, ciascuno nella convinzione che questo sia meglio per lui?»

«Senz’altro.»

«Su dunque» dissi, «costruiamo nel discorso una città fin dal principio; però a farla, a quanto pare, sarà il nostro bisogno.»

«Come no?» (369b-c)

Determinata in questo modo l’arche, è allo stesso tempo identificato il principio alla luce del quale è possibile seguire la costruzione della polis, cioè della fondamentale e più compiuta forma aggregativa per l’essere umano, il quale per natura non può essere autosufficiente. Seguendo il filo conduttore della chreia Socrate può finalmente costruire su un piano ‘logico-normativo’ la genesi della città.114 I bisogni, però, non sono tutti uguali e pertanto devono essere articolati partendo da quelli primari secondo un’esposizione assiologica ben definita:

«Ma il primo e maggiore dei bisogni è quello di procurarsi il cibo in vista dell’esistenza, cioè della vita stessa».

«Assolutamente.»

«Il secondo bisogno è quello dell’abitazione, il terzo dei vestiti e cose simili»

«Sono questi» (369d).

                                                                                                               

114 In questo caso l’analisi di Platone si svolge senza dubbio su un piano logico-astratto. Ciò non deve

però far trarre la conclusione che egli non si concentri altrove sulla discontinuità storica. Interpretazioni che attribuiscono alla cultura greca in toto l’assenza di una distinzione tra storia e natura sono figlie del noto pregiudizio secondo cui i greci avrebbero pensato la storia unicamente in maniera ciclica secondo la temporalità specifica di certi fenomeni naturali. Per una tematizzazione di simili questioni in Platone cfr. fra l’altro M. M. Sassi, Natura e storia in Platone, in «Histoire et Historiographie», 1986, 9, pp. 104-128.

Nell’ottica socratica questa classificazione non può essere meramente astratta; anzi, essa deve avere delle ripercussioni concrete sulla realtà: per soddisfare questi tipi di bisogni non sarà necessaria una città molto grande; saranno sufficienti quattro o cinque individui al massimo (un contadino, un muratore, un calzolaio, un tessitore e qualcun altro che si prenda cura del corpo). Questi individui entrano in scena non semplicemente come uomini ‘generici’, ma in quanto figure che svolgono un lavoro (to ergon) il cui prodotto serve per soddisfare i bisogni sopra enucleati. Questi lavoratori possiedono, infatti, le technai per procedere verso quell’autosufficienza a cui l’individuo da solo non può accedere. Ma come organizzare le capacità tecniche di ciascun individuo per il benessere e la soddisfazione dei bisogni collettivi? Certamente la strada che costringe il singolo a svolgere tutte le attività è la più svantaggiosa perché, presupponendo l’autoreferenzialità dell’individuo che si rifiuta di mettere i propri prodotti in comune, risulta infine più complessa e meno lineare giacché lo costringe a dedicarsi a molteplici attività qualitativamente differenti. D’altro canto, invece, la prospettiva della divisione del lavoro, in cui ciascuno svolge una sola attività lavorando oltre che per sé anche per gli altri e mettendo in comune il surplus della propria giornata lavorativa, è quella che sembra più ragionevole.

Posto, dunque, che un uomo svolgerà uno e un solo lavoro, Socrate si sente di dover precisare, da un lato, che ogni individuo si sceglierà il proprio mestiere sulla base di una propria «dotazione naturale» (370b),115 e, dall’altro, che deve essere considerata anche la cornice temporale dell’attività. Ogni lavoro infatti deve essere svolto kata physin kai

en kairo, cioè secondo natura e nel momento opportuno: «non penso perciò che l’opera

potrà attendere il tempo comodo per chi la esegue, e che invece sia necessario che il produttore segua il suo lavoro fino in fondo, non a tempo perso» (370c).

                                                                                                               

115 Se la divisione del lavoro avvenisse sulla base di un accordo o di un patto tra gli individui, essa

potrebbe venir messa in discussione continuamente e ne nascerebbero dei conflitti sociali. Platone, pertanto, si concentra su una giustificazione naturale della divisione del lavoro: la natura non fa gli uomini uguali l’uno all’altro, ma li differenzia sotto il profilo delle diverse attitudini. In questo caso però, come suggerito anche da Giuseppe Cambiano, Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 150- 153, il concetto di natura non può essere schiacciato su un piano strettamente biologico; esso deve, piuttosto, essere riletto alla luce del mito di Er (ivi 614b-621d). In esso si racconta come la scelta dello stile di vita sia kata physin in quanto presuppone una scelta antecedente la nascita. Questa scelta è ciò che determina la qualità specificamente umana delle doti naturali. Il livello mitico, in questo senso, veicola la de-biologizzazione del dato naturale. Come scrive Eric Voegelin: «Tutti i doni naturali e le competenze che entrano in un aggregato soddisfacente sono però qualità umane, sicché la società nel suo complesso è un uomo scritto a lettere maiuscole. Il principio ordinante presente fin dall’inizio e sviluppato più tardi nella virtù della giustizia è l’attenzione per l’attività per cui un uomo è specificamente dotato. Trascurare la propria attività e interferire con quello che è per natura lo specifico compito di un’altra persona diminuirà l’efficacia dell’ordine e lo distruggerà» (Ordine e storia. La filosofia politica di Platone, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 158).

È inoltre il caso di notare come fino a questo momento la comunità appena nata si ponga su un orizzonte senza dubbio sociale, ma non ancora specificato in senso compiutamente politico, bensì solo economico: seguendo il filo conduttore del bisogno siamo sempre al di qua del nomos, in un campo i cui principi e fini sono organizzati e rappresentati in conformità con quelli della natura.