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La legge 92/2012: timido tentativo di democrazia

La l. 92/2012 (di riforma del mercato del lavoro) in tema di politiche attive per l’occupazione apre alla partecipazione dei lavoratori all’organizzazione dell’impresa (cosiddetta democrazia economica). Il fine è di avvicinare il modello di amministrazione e controllo italiano (perlopiù tradizionale, articolato in Cda, assemblea e collegio sindacale. Dalla riforma del 2003 comunque non esclusivo) a quello tedesco ispirato alla cogestione fondamento dell’economia sociale di mercato (comunemente definito dualistico: consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza). Il dato così presentato non coglie l’elemento di peculiarità che è opportuno meglio precisare: in Germania i lavoratori partecipano alla definizione dei piani industriali e finanziari e condizionano

l’orientamento strategico dell’impresa, a cagione di una nutrita schiera (variabile

(305)http://www.milanofinanza.it/news/dettaglio_news.asp?id=201210241428011190&ampchkAgenzie=P MFNW&ampsez=news&amptesto=&amptitolo=Italcementi:%20Clini,%20dimostra%20investire%20in %20ambiente%20da%27%20ritorni.

(306) «Rappresenta un indicatore per la misurazione, il monitoraggio, la rendicontazione e la verifica delle emissioni e delle rimozioni di gas serra a livello di un prodotto o di un servizio ed è definita come la quantità totale di gas serra ad essi associata». http://www.enea.it/it/produzione-scientifica/energia- ambiente-e-innovazione-1/anno-2011/indice-world-view-3-2011/indicatori-di-sostenibilita-ambientale-la- carbon-footprint.

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tra la metà e 1/3) di loro rappresentanti nel consiglio di sorveglianza, l’organo di

controllo e soprattutto indirizzo della gestione(307). Interessante uno studio del

European trade union institute datato ottobre 2010 dal titolo The European Participation Index (EPI): A Tool for Cross-National Quantitative Comparison.

L’indice Epi (nella versione aggiornata) è il parametro che discrimina l’appartenenza a the stronger participation rights group e the weaker

participation rights group.

Il primo annovera: Denmark (valore indice 0.83/1), Sweden (0.82), Finland

(0.81), Slovenia (0.71), Luxembourg (0.68), Netherlands (0.67), Austria (0.63), Germany (0.61), Slovakia (0.59), Czech Republic, France and Spain (tutte a 0.50/1).

Al secondo gruppo sono ascritti: Hungary (0.49), Belgium (0.43), Malta

(0.41), Ireland (0.38), Cyprus, Greece, Poland and Portugal (tutti a 0.37), Italy (0.31), Romania (0.27), Estonia (0.23), Bulgaria (0.19), Latvia (0.18), United

Kingdom (0.16) and Lithuania (0.11)308. I due gruppi sono studiati

comparativamente in relazione prima ai parametri della strategia di Lisbona (cui si trascura perché l’indice era calcolato in modo difforme) e quindi con the eight

Europe 2020 headline indicators (programma con una dote di circa 80 miliardi).

Questi ultimi sono:

75 % of the population aged 20-64 should be employed, 3% of the Eu's Gdp should be invested in R&D, the 20/20/20 climate/energy targets should be met, the share of early school leavers should be under 10% and at least 40% of 30-34

(307) La Mitbestimmung è stata introdotta nel 1951 a seguito del referendum promosso dal sindacato Dgb. Oltre il 95% dei lavoratori del settore siderurgico e minerario si era espresso a favore del diritto di cogestione. Il cancelliere cattolico Konrad Adenauer nel prendere atto dei risultati si fece interprete della sua traduzione normativa (nonostante la ritrosia delle organizzazioni datoriali che ricorsero a più riprese alla Corte Costituzionale). Il governo di Helmut Schmidt nel 1976 ne estese l’applicazione alle aziende indipendentemente dalla nazionalità e dal settore di appartenenza. Il discrimine delle suindicate percentuali di rappresentanza è: 2000 dipendenti (oltre il quale spetta la metà dei rappresentanti) e 500 (otre il quale si ha facoltà di eleggerne 1/3).

115 years old should have completed a tertiary or equivalent education, at least 20 million people should be lifted out of the risk of poverty or exclusion».

In sintesi i risultati(309):

Europe 2020 headline indicator Group I: stronger participation rights

Group 2: weaker

participation rights

Employment rate by gender, age group 20-64, 2009

72.1 67.4

Gross domestic expenditure on R&D (GERD), 2008

2.2 1.4

Greenhouse gas emissions (reduction in baseline between 2003-2008)

4.7 4.2

Share of renewables in gross final energy consumption, 2008

12.3 6.1

Energy intensity of the economy, 2008

171.2 181.7

Early leavers from education and training, 2009

14.0 16.1

Tertiary educational attainment by gender, age group 30-34, 2009

36.6 31.1

Population at risk of poverty or exclusion, 2008

19.1 25.4

Eloquente il commento posto in calce al lavoro (del resto è assolutamente in linea con il percorso logico e argomentativo della tesi):

«the index (Epi) shows that companies located in countries that recognise a greater participatory role for workers operate more in coherence with social and ecological objectives and this has a beneficial effect on European society as a whole. Europe needs skilled, mobile, committed, responsible workers that are able to identify with the objective of increasing competitiveness and quality without fear of losing their job»(310).

Il carattere improcrastinabile ed ineluttabile della riforma del mercato del lavoro è intrinseco nei dati licenziati dall’Istat: «nel 2011 risulta al lavoro solo il 61,2% della popolazione tra i 20 ed i 64 anni, più indietro ci sono solo Ungheria

(309) Ibidem.

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e Grecia. Il tasso di inattività tocca il 37,8%, il più elevato dopo quello di Malta.

[…] Le donne occupate sono meno della metà (tra i peggiori in Europa)»(311

). L’inversione della piramide demografica, le problematiche riconducibili all’invecchiamento ed il dilatarsi degli anni di studio generano stridenti squilibri, colmabili unicamente da una maggiore competitività e produttività di sistema. In sintesi un numero contenuto di lavoratori in età attiva (qui si espunge dalla fenomenologia ricollegabile alla disoccupazione, sottoccupazione ovvero inoccupazione. Si tratta di componenti ormai endemiche nelle società tardo industriali) dovrà produrre reddito per garantire l’attuale livello di benessere (speriamo anche più) per sostenere il welfare (pensioni, sanità, istruzione) e per

finanziare adeguatamente ricerca e innovazione(312).

3.8.1 Libertà economica (cenni)

L’Italia si colloca nel 2013 all’83esimo posto nella classifica della libertà economica stilata congiuntamente dall’Heritage Foundation e dal Wall Street

Jounal (in risalita di 9 posizioni. Era al 92esimo posto nel 2012). Incidono

negativamente l’abnorme spesa pubblica (pari a 806 miliardi di euro, il 51,4% del Pil. In Francia è al 57%. La sola spesa corrente primaria in Italia incide per il 43% del Pil), la corruzione (stando ai dati della Corte dei conti costerebbe al sistema Paese 60 miliardi di euro, pari a circa il 3% del Pil), un mercato del lavoro sostanzialmente ingessato (la recente riforma Fornero appare annacquata a seguito dei passaggi parlamentari), un sistema giudiziario farraginoso quanto inefficace. Scontato il fardello del fisco: «nel 2012 il dato Istat per l’Italia parla di 41,3% nei primi nove mesi e del 42,6% sul terzo trimestre (era al 40,6% nel

corrispondente trimestre del 2011)»(313).

(311)http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-23/litalia-perso-terreno-rispetto- 063831.shtml?uuid=AbfjtANH.

(312) In Italia gli anziani con più di 65 anni passeranno dagli attuali 11,8 a 19 milioni già nel 2050. La fascia giovanile (0-25 anni) si ridurrà inesorabilmente da 14,8 milioni di oggi a 12,6 sempre nel 2050. (313) «Sopra la media europea ed al settimo posto tra i Paesi europei (quinta in area euro)». V. Da Rold,

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Poco confortante la penultima posizione tra i paesi dell’Ue (seguiti solo dalla Grecia). A livello mondiale precedono l’Italia anche Armenia e Ruanda. Inarrivabili Hong Kong, Singapore, Australia, Nuova Zelanda e Svizzera che occupano nell’ordine le prime cinque posizioni (per libertà economica). Staccati gli Stati Uniti (in decima posizione) e la Germania (19esima). Tanto basta per giustificare la maggiore propensione degli americani al lavoro autonomo in alternativa a quello dipendente (rispettivamente 51% e 46%) e per mortificare gli aspiranti imprenditori italiani (la cui percentuale si attesta ad un lusinghiero 44% rispetto al 49% che preferirebbe il lavoro dipendente). È opportuno segnalare che lo scarto tra dipendente ed autonomo (5%) risulta decisamente contenuto rispetto ai principali partner europei: Francia rispettivamente 57% e 40% (differenza al 17%), Spagna 62% e 35% (27%), Regno Unito 63% e 33% (30%), Germania 65% e 29% (36%), Finlandia 73% e 24% (49%), Svezia 74% e 22% differenza 52%(314).

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4.1 L’evoluzione del distretto: il cluster

Occorre guardare con favore ai prossimi sviluppi dell’imprenditoria italiana. Si è sdoganato a livello normativo il concetto di gruppo di imprese (2497 bis c.c e ss.), di Ati (o Rti), di consorzi stabili, di rete (l. 33/2009, l. 122/2010 di conversione del Dl 78/2010). L’impulso nasce dalla normativa comunitaria e dalla riflessione teorica di Williamson. Senza dilungarci sul lavoro del premio Nobel è d’uopo in questa sede una breve sintesi del modello neoistituzionale.

4.1.1 Williamson: un mesolivello tra make or buy

«La distanza dallo scambio ideale e senza attriti preconizzato dalla teoria neoclassica è tanto più grande quanto più la struttura istituzionale permette a terzi di influire sul valore delle caratteristiche presenti nella funzione di utilità di chi compra»(315). Il controllo esaustivo di tutte le caratteristiche valutabili non è realizzabile. L’informazione è incompleta, asimmetrica e costosa. La conoscenza del contesto di riferimento è appannaggio del manager aziendale. Gli attori al fine di economizzare i processi allineano la tipologia di scambio alla struttura di governo, confrontando i costi di una modalità con altre alternative realizzabili. Si staglia il concetto di scelta, e più propriamente di scelta consapevole. Criterio guida per Williamson sono i differenziali dei costi di transazione. «l’equilibrio economico […] deve riflettere gli andamenti della realtà, non le ipotesi convenzionali, una volta raggiunto, deve essere costantemente monitorato e riveduto alla luce delle nuove circostanze o modalità che identificano le nuove

situazioni e, possibilmente, migliorato»(316). Tra i due livelli di analisi,

comunemente definiti micro (attori individuali) e macro (ambiente istituzionale), marca la presenza, nel lavoro di Williamson, un mesolivello che Vannucci esplica

come «organizzazioni o qualsiasi altro strumento contrattuale di

(315) D.C. North, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 61.

(316) R. Ferraris Franceschi, L’azienda: caratteri discriminanti, criteri di gestione, strutture e problemi di

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coordinamento[…] elaborati o accettati dai contraenti e vincolanti solo per

loro»(317). La rete evoca una organizzazione alternativa a quella verticistica e

gerarchico-piramidale, che è la forma tradizionale dello stato, del potere (e della grande impresa). «In una prospettiva mesoeconomica sono fondamentali i meccanismi di interazione, consenso, cooperazione tra le imprese che

appartengono allo stesso cluster o network di tipo settoriale o geografico»(318).

«Tali forme di integrazione in reti o network assumono un carattere progressivamente più formalizzato e stabile mediante procedimento di

socializzazione, formazione di identità collettive e condizionamenti sociali»(319).

Per Roberta Provasi i business system (economie di agglomerazione, ecosistemi

innovativi) «sono architetture reticolari tali da sfruttare interdipendenze e sinergie

per conseguire obiettivi e vantaggi comuni e per beneficiare delle opportunità

offerte dall’integrazione»(320). Si tratta di un’evoluzione del distretto, una

struttura a vocazione nazionale (meglio europea se non addirittura mondiale) che ricomprende nel perimetro anche enti di ricerca e università. «Tra le imprese manifatturiere che partecipano a reti di impresa, poco più di un quinto appartiene ad uno dei 139 distretti industriali. Queste imprese hanno stipulato contratti di rete con aziende locali rafforzando in chiave strategica il legame con alcune realtà del proprio territorio, ma anche con imprese localizzate in altre province, od addirittura esterne alla regione (nel 30,5% dei casi) superando la dimensione distrettuale e ponendo le basi per la costruzione di solide collaborazioni a livello

nazionale»(321). L’impatto sul posizionamento dell’impresa, considerata

nell’accezione reticolare, è apprezzabile: «le imprese manifatturiere in rete mostrano un migliore posizionamento competitivo rispetto a quelle che non aderiscono a contratti di rete. Sono infatti più presenti all’estero con attività di

(317) A. Vannucci, Governare l’incertezza, cit., p. 26.

(318) http://www.economia.uniroma2.it/dei/professori/cappellin/articles/PALERMO.PDF. (319)A. Vannucci, Governare l’incertezza, cit., p. 35.

(320)http://www.atptelec.com/lavorareinrete/forum.nsf/503f5c6f14dbf378802565a7006f5b31/865ee6390d 9f1f3bc1256de5003b33eb/$FILE/reti%20oloniche.pdf.

(321) Si tratta del secondo Osservatorio Intesa SanPaolo-Mediocredito Italiano sulle reti d’impresa (settembre 2012): http://www.confartigianato.fo.it/amm/files/1755_file_scheda_secondo.pdf.

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export (45% dei casi rispetto al 25,2% dei competitor non coinvolti), partecipate estere (rispettivamente 9,7% e 3,9%) e mostrano una maggiore propensione a

brevettare (14,8% e 5,3%)»(322).

Mercato (buy) Adattamento di tipo autonomo (Hayek). Numerosità dei partecipanti allo scambio. L’allineamento è ex-ante in virtù di incentivi ad alta intensità. Reazione alla dinamica dei prezzi. La legge contrattuale è nell’accezione legalistica: «documenti formali e transazioni che comportano un criterio di liquidazione automatico»323.

Forme ibride Forme di contrattazione improntate allo scambio reciproco

sovente con concessioni. Formale autonomia ma si apprezza una dipendenza bilaterale non trascurabile. La norma contrattuale è flessibile e tesa ad un sistematico riallineamento al contesto. La risoluzione delle controversie è sovente l’arbitrato (private ordering)

Gerarchia (make) Adattamento di tipo cooperativo (Barnard). Il sistema di comandi e autorizzazione genera alti costi di coordinamento (distorsioni burocratiche). L’allineamento è ex-post in virtù di incentivi a basso potenziale. La norma è fondata sull’acquiescenza alimentata dalla gerarchia (business

judgment). Forte dipendenza bilaterale generata da investimenti

in asset specificity.

4.1.2 Italianità e genius loci: opportunità e limiti (gli emotional tour)

La necessità di promuovere realtà produttive di più ampio respiro emerge chiaramente dall’impietosa analisi di Alessandro Aresu e Matteo Scurati dal titolo L’italianità è un boomerang. Un sistema finanziario fragile (per anni condizionato da Mediobanca di Enrico Cuccia), l’inconsistenza dell’italian

variety of capitalism nel contesto globale, la marginalità degli animal spirits,

l’imprenditore capace e brillante(324), la razza padrona declassata a furbetti del

(322) Ibidem.

(323) O.E. Williamson, I meccanismi del governo. L’economia dei costi di transazione: concetti,

strumenti, applicazioni, Franco Angeli, Milano, 1998, p. 160.

(324) L’espressione è dell'economista John Maynard Keynes. Il Presidente Giorgio Napolitano la riprende al Council on Foreign Relations del 13 dicembre 2007 intendendo capacità di iniziativa dal basso, di impresa, vitalità. A. Aresu, M. Scurati, L’italianità è un boomerang,in Limes, 2009, 2, p.136.

121 quartierino producono la rovinosa caduta del Paese(325). Per gli autori l’italianità è quasi un dogma, un improduttivo arroccamento autarchico, già sperimentato e

fallito con quota 90(326). Per il direttore di Foreign Policy Moises Naim:

«L’Italia conta relativamente poco nel mondo»(327

)). Impietoso il confronto con il capitalismo americano. Per Guido Rossi: «i nomi del capitalismo americano degli anni sessanta sono spariti quasi tutti […]. Il sistema economico italiano invece si conferma asfittico. Il numero di società quotate alla Borsa di Milano oggi è di poco superiore a vent’anni fa»(328). In estrema sintesi «non si potrà

raccontare in eterno che il genius loci del design e della moda salverà il mondo. La risposta non può stare nemmeno semplicisticamente nelle piccole realtà produttive o nei distretti industriali. Le storie, per quanto di successo, non fanno

sistema da sole»(329). Secondo Piero Angela «quello che conta non sono i casi

singoli, ma la qualità diffusa. Conta il tessuto connettivo (in fisica si direbbe

massa critica)»(330). I campioni nazionali per Fabrizio Onida sono estremamente

deboli nella competizione nazionale(331). Per Antonio Pascale «il problema

italiano è la vocazione all’autarchia»(332). Nell’articolo È proprio una fissazione

(italiana) Pascale stigmatizza la vocazione al piccolo, alle produzioni tipiche,

(325) E. Scalfari, G. Turani, Razza padrona, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 1998. «Negli anni Ottanta abbiamo creduto di poterci lanciare alla conquista dell’Europa al seguito di quattro condottieri: Agnelli, De Benedetti, Gardini e Pirelli. L’Europa non è stata conquistata […]. Poi abbiamo sperato nella comparsa di nuovi attori. Una nuova specie che andava dai furbetti del quartierino alla finanza bresciana, a settori del movimento cooperativo. Ciò è durato l’espace d’un matin, spazzato via da interventi giudiziari, dimissioni e perdite. Non esattamente un segnale di dinamismo. G. P. Caselli, G. Pastrello, Il

nostro decennio perduto, cit., p. 240.

(326) Era il rapporto di cambio (auspicato) della lira italiana rispetto ad una sterlina inglese. L’espressione è coniata da Mussolini nel 1926. La politica autarchica (il protezionismo in genere) furono uno dei fattori scatenanti la seconda guerra mondiale.

(327) A. Aresu, M. Scurati, L’italianità è un boomerang, cit., p. 142. (328) Ivi, p. 140.

(329) Ivi, p. 145.

(330) P. Angela, L. Pinna, Perché dobbiamo fare più figli, cit., p. 217.

(331) F. Onida, Puntare tutto su innovazione, reti e progetti comunitari, IlSole24Ore, 25 gennaio 2013, p. 14.

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alla tradizione, al territorio che sembra caratterizzare taluni settori dell’economia italiana. «Mentre il mondo continua a scambiare saperi e integrare conoscenze […] gli italiani si stanno estinguendo. Piccoli e solitari. Aumenteranno gli

emotional tour ma non cambieranno le dinamiche di produzione»(333).

4.1.3 L’appeal del sistema paese: la classifica Country Brand Index

La capacità di penetrazione nei mercati internazionali è direttamente correlata all’appeal del sistema Paese (propensione a generare valore aggiunto del

marchio nazionale). Su questo fronte l’Italia registra un sistematico arretramento.

La classifica Country Brand Index 2012-2013 della società di consulenza Future Brand che misura il valore di un marchio Paese nel mondo colloca l’Italia in 15esima posizione dopo Svizzera, Canada, Giappone, Svezia, Nuova Zelanda, Australia, Germania, Stati Uniti, Finlandia, Norvegia, Regno Unito, Danimarca, Francia, Singapore. Nel 2009 il Paese era sesto, nel 2010 12esimo, nel 2011 decimo. Preoccupa il ritardo in: clima di investimento (38esima), tecnologia (23esima), forza lavoro qualificata (22esima), opportunità di lavoro (39esima) e stabilità del quadro normativo (25esima). L’Italia conserva il primato come patria di arte cultura e turismo. È opportuno cogliere le ricadute economiche di tale indiscusso vantaggio comparato. La straordinaria dote di beni culturali potrebbe illuminare i settori del made in Italy (dal tessile ai mobili, dall’abbigliamento ai gioielli passando per il cuoio e gli occhiali). «Monetizzare arte e cultura, però non significa solo relegare un Paese al ruolo di enorme villaggio turistico e basta. Questi sono asset che possono essere declinati anche all’esterno: più precisamente nell’export». Secondo Susanna Bellandi «vendere agli investitori esteri i nostri marchi della moda e dell’arredamento non è un’operazione lungimirante, altrettanto sbagliato è cercare di produrre il made in Italy altrove solo perché i costi sono minori. Qualche marchio italiano sta già facendo dietrofront (Canali, Bottega Veneta). Producono di nuovo in Italia per poter

(333) Ivi, p. 273.

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vendere all’estero con più qualità»(334

). Occorre implementare culture imprenditoriali (e manageriali) vocate alla conoscenza ed all’innovazione. Per Giorgio Ambrogioni, (presidente di Federmanager): «le pmi, soprattutto quelle a gestione familiare, hanno bisogno di manager capaci per fare export e innovarsi»(335).