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3 La rivoluzione degli anni ‘60

3.3 La legge 180/1978: una sfida ancora aperta

La legge 180 del 1978 viene varata in fretta nei giorni del sequestro di Aldo Moro, sotto le pressioni del Partito Radicale di Pannella che minaccia di indire un referendum, sulla scia di un entusiasmo che però non conduce ai risultati sperati.

Sebbene essa riscuota ampi consensi in Italia e all'estero (l'Italia è il primo paese dove i manicomi vengono chiusi), Basaglia e i suoi sostenitori esprimono fin da subito le proprie perplessità. Si teme che un testo legislativo così frettoloso crei un vuoto tra la situazione manicomiale che si propone di eliminare e una nuova, che risulta priva di strutture alterative ben definite.

75 La legge, inoltre, confluì quasi per intero nella legge 833 del 23 dicembre 1978 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale cosa che , come afferma Sergio Piro, membro della segreteria nazionale di Psichiatria Democratica dal 1976 al 1981 e poi del Coordinamento Nazionale, amico e sostenitore di Basaglia, "ha comportato una subordinazione alle gerarchie mediche, agli interessi primariali, al collegamento fra interessi economici sanitari e interessi politici, alla distruzione in moltissime sedi della partecipazione paritaria di tutti gli operatori al progetto terapeutico: di fronte alla potenza bellica di uno psichiatra o di uno psicanalista che possono mai opporre l'infermiere, l'assistente sociale il riabilitatore? (Piro 2008)".

La legge prevede una serie di mutamenti istituzionali, si tratta del primo passo verso una deistituzionalizzazione, intesa come "processo pratico-critico che riorienta istituzioni e servizi, energie e saperi, strategie e interventi” da quest’oggetto fittizio, la malattia, verso “l’esistenza-sofferenza del paziente nel suo rapporto con il corpo sociale” (Rotelli 1990)43.

Primo tra questi mutamenti istituzionali è l'avvio della chiusura di tutti i manicomi. Viene vietata la costruzione di nuovi Ospedali Psichiatrici e il ricovero di nuovi pazienti psichiatrici, vengono date direttive alle amministrazioni regionali perché stabiliscano i tempi di un graduale processo di dimissioni dei pazienti internati. Si dovrà comunque aspettare il 1994, quando il lungo iter legislativo avrà compiuto il suo corso, perché tutti i manicomi in Italia vengano realmente chiusi.

In accordo con quanto espresso al secondo comma dell'articolo 32 della Costituzione ("nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana"), l'articolo 7 della 180 sancisce per la persona affetta da malattia mentale il diritto alla cura nella comunità, di norma in regime volontario. L'articolo però, da qui il titolo con il quale il testo di legge compare sulla Gazzetta Ufficiale, prevede un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO, art. 34-35) in un Servizio Psichiatrico Ospedaliero (SPDC-Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) da attuare in modo coatto qualora sussistano tre condizioni: la presenza di una patologia psichiatrica che necessita di urgenti interventi terapeutici, il rifiuto del trattamento da parte del soggetto, l'impossibilità di adottare tempestive misure extraospedaliere. Qui, ovviamente, ampia arbitrarietà viene assegnata agli operatori sanitari che si trovano a dover definire i concetti di urgenza psichiatrica.

43Franco Rotelli fu direttore dei Servizi di Salute Mentale nel 1988. L’estratto è contenuto in una pubblicazione

in “per la salute mentale/ for mental health”, n. 1/88 –Rivista del Centro Regionale Studi e Ricerche sulla Salute Mentale - Friuli Venezia Giulia

76 Il TSO si configura come una procedura burocratica che vede il coinvolgimento di diverse figure: il medico (la cui proposta iniziale di ricovero deve essere convalidata da un secondo medico), il sindaco o un suo delegato (che dispone per mezzo di un'ordinanza il ricovero coatto), un giudice tutelare per la necessaria notifica, e, qualora si riveli necessario per esigenze di tutela dell'ordine pubblico, le forze di polizia. Il ricovero dura 7 giorni, è rinnovabile alla scadenza, e in qualsiasi momento può essere trasformato in un Trattamento Sanitario Volontario (TSV). Il TSO rappresentauna responsabilità terapeutica del servizio e non una sanzione legale del paziente: l'obbligo che impone, in sostanza, è quello di curare. Il paziente, infatti, non si vede privato di alcuno dei suoi diritti personali, egli rimane cittadino a tutti gli effetti.

É evidente, dunque, che, abbandonando la formula della legge del 190444, si vuole

negare l’equivalenza malattia mentale-pericolosità sociale: il malato di mente entra nella cittadinanza sociale come cittadino con dei diritti che non possono essere cancellati.

In realtà il cambiamento proposto dalla 180 è ben più radicale. Alla psichiatria manicomiale che si rivolgeva ai casi più gravi, si sostituiva il concetto di salute mentale, così come era stato definito dall'Organizzazione Mondiale della Sanità: uno stato di benessere nel quale il singolo è consapevole delle proprie capacità, sa affrontare le normali difficoltà della vita, lavorare in modo utile e produttivo ed è in grado di apportare un contributo alla comunità.

Di qui la necessità di un modello di cura che fosse esteso al disagio psichico di tutti i cittadini, di un servizio territoriale di salute mentale, come afferma Piro, che sia "multiordinale e pluriqualitativo [...] capace di accogliere tutta l'utenza di un bacino di estensione limitata e ben determinata [...], attivo senza soluzioni temporali", che non sottoponga mai gli utenti a disagi evitabili, che abbia "come fondamento metodologico i criteri della reperibilità e disponibilità, della non selettività, dell'adeguatezza e tempestività di ogni intervento" (Piro 2008). Per questo motivo, oltre alla volontà di non sradicare il malato dal suo contesto di appartenenza, l'articolo 7 trasferiva alle regione la competenza dell'assistenza ospedaliera psichiatrica e il coordinamento "dell'organizzazione dei presidi e dei servizi psichiatrici e di igiene mentale come le altre strutture sanitarie".

Il processo di deistituzionalizzazione che si auspica si propone di "negare l’Ospedale Psichiatrico salvaguardando il diritto di asilo, di negare "la politica di settore", salvaguardando

44 "...Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette da alienazione mentale, qualunque

sia la causa, quando siano pericolose per se e per gli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi..".

77 l’unicità di responsabilità su un territorio determinato, di negare la Comunità Terapeutica in favore di una comunità diffusa, di negare il monopolio dei tecnici utilizzandoli al massimo delle loro potenzialità per attivare le risorse della gente"45

In realtà la vaghezza della legge ha reso faticosa la sua attuazione e, soprattutto, ha lasciato che si generassero delle disparità nella erogazione dei servizi tra le varie regioni, mancando un decreto attuativo dell'applicazione della norma e quindi lo stanziamento die fondi necessari alla realizzazione delle strutture di rete di ausilio alla cura, come i Centri d'Igiene Mentale, le Case famiglia e le Comunità terapeutiche. Alle Regioni, insieme alle USL di competenza, venne lasciata, così, ampia arbitrarietà nel disciplinarne l'applicazione, subendo l'influenza della maggioranza politica locale.

La macchina della deistituzionalizzazione si è mossa, innanzitutto, per avviare la chiusura definitiva dei manicomi, avvenuta soltanto nella seconda metà degli anni '90, a quasi venti anni dall'approvazione della legge, stabilita da Leggi Finanziarie.

Nella Legge Finanziaria del 1996 fu ribadita la data di chiusura definitiva di tutti i manicomi italiani (entro il 31 dicembre 1996) e furono introdotte delle sanzioni pecuniarie per i Direttori Sanitari inadempienti e una decurtazione degli stanziamenti del Fondo Sanitario nazionale alle Regioni che non si sarebbero adeguate alla normativa.

Maone e Rossi (2003), analizzando le inchieste sui servizi psichiatrici compiute della Commissione Sanità del Senato e dal Ministero della salute tra gli anni '80 e 2000, hanno concluso che il processo di chiusura die manicomi può dirsi compiuto, considerato l'alto numero di dimissioni di pazienti avvenuto. Rimangono, tuttavia, quelli che Piro (2005) definisce "residui operazionali", ossia pratiche di manicomialità, anche all'interno delle nuove istituzioni.

La costituzione dei Dipartimenti di Salute Mentale in ogni Azienda Sanitaria fu stabilita dal Progetto obiettivo 1994-1996. Il Dipartimento di Salute Mentale, che vede la sua sede organizzativa nel Centro di Salute Mentale (CSM o CIM: Centro di Igiene Mentale), è l'assetto organizzativo delle strutture delle USL deputate all'assistenza psichiatrica. Il DSM è l'istituzione di coordinamento di tutti i servizi psichiatrici dell'Azienda Sanitaria Locale del distretto regionale. Seguendo le direttive provenienti dal Ministero della Salute attraverso i Progetti Obiettivo Tutela della Salute Mentale, implementa a livello locale quanto stabilito dalla regione in merito ai progetti socio-terapeutici; inoltre favorisce rapporti con le associazioni di familiari degli utenti, con le cooperative sociali e le associazioni di

78 volontariato. Il Servizio Psichiatrico, così inteso, nella sua struttura organizzativa si presenta come una rete, che si estende su un determinato territorio di competenza, costituita da un insieme di nodi (Andreoli 1999). I nodi sono attività ospedaliere, quali S.P.D.C e Day Hospital, ed extraospedaliere, coordinate dai Centri di Salute Mentale, quali centri diurni, Comunità Terapeutiche residenziali, Cooperative di Lavoro e Centri Occupazionali Diurni, servizi ambulatoriali. Inoltre i Centri di Salute Mentale coordinano anche i rapporti con altre istituzioni, come le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), Case di Riposo, Ser. T., Istituti carcerari, Consultori familiari ecc..46

Il Progetto Obiettivo di Tutela della Salute Mentale 1988-2000 si è proposto, invece, di determinare interventi incisivi sul piano pogrammatico in modo da indicare in modo più specifico gli obiettivi dei DSM. Ciò che si vuole realizzare è una maggiore centralità del soggetto nel suo percorso riabilitativo. Gli interventi vogliono coinvolgere le famiglie, implementare e rafforzare la rete relazionale del soggetto, sostenere la nascita di gruppi di auto aiuto e di cooperative sociali che favoriscano l'inserimento lavorativo, sensibilizzare la comunità sul tema della salute mentale e dei suoi disturbi, eliminando il pregiudizio e diffondendo solidarietà47.

La rilevazione governativa effettuata nel 2001, allo scadere dei termini indicati dal P.O., ha evidenziato una non omogenea implementazione degli strumenti nei diversi DSM. italiani. Se, infatti, alcune Regioni virtuose con una percentuale di realizzazione del 100%, altre sono completamente inadempienti e i servizi erogati risultano insufficienti

La legge, certamente, ha attivato tutti i "giochi dell’implementazione" noti alla prassi politica, quali manovre politiche, boicottaggi amministrativi, resistenze di interessi economici e professionali che si sentivano minacciati. Di qui il profondo squilibrio a livello nazionale di cui prima si diceva.

Ma la difficoltà di attuazione della 180 è anche spiegabile diversamente. "L’implementazione di una riforma sociale è soprattutto un processo sociale complesso e contraddittorio, nel quale si producono innovazioni nelle caratteristiche e nelle forme di presenza degli attori, nei contenuti e nei modi dei conflitti." I problemi che una riforma di questo tipo solleva richiedono cambiamenti nell'organizzazione sanitaria, nella giustizia, nei

46I Centri di Igiene Mentale (CIM) erano già stati istituiti dalla Legge Mariotti del 1968, legge che introduceva

anche il ricovero volontario in Ospedale Psichiatrico.

47 Per garantire la qualità del servizio erogato, il P. O. Prevede che ciascun D.S.M. Attivi e adotti una serie di

strumenti operativi: il Nucleo di Valutazione e Miglioramento della Qualità, un Sistema Informativo Dipartimentale. Linee guida e procedure di consenso professionale, un Piano annuale di formazione e aggiornamento e una Carta dei Servizi per la salute mentale.

79 modi di amministrare le risorse pubbliche, in tutte, in sostanza, le strutture istituzionali con le relative norme, competenze e poteri.

Il processo di deistituzionalizzazione, dunque, prende avvio con la legge, ma prosegue e si compie con la sua implementazione.

Come affermò Basaglia all’indomani dell’approvazione della riforma, "per la sua logica interna e per le caratteristiche del terreno in cui agisce, questa legge apre più contraddizioni di quante non ne risolva". Da tali contraddizioni, tuttavia, è possibile realizzare un vero cambiamento, un cambiamento che sia prima di tutto culturale e, quindi, istituzionale.

Per la realizzazione dell'alternativa alla psichiatria, i mutamenti istituzionali sono condizione necessaria ma non sufficiente, poichè appaiono necessari mutamenti operazionali, costituiti dalla qualità complessiva dell'agire pratico: la buona pratica. La definizione di "buona pratica" è controversa, soprattutto in ambito psichiatrico. Diciamo innanzitutto che una buona pratica si costruisce attraverso una complementarietà di interventi attraverso i quali definire un percorso all'interno del quale ogni singolo intervento ha un senso. Una buona pratica, quindi, si costruisce su più livelli coinvolgendo oltre ai servizi sanitari e sociali anche le risorse del terzo settore, quali volontariato e privato sociale. Ad un primo livello possiamo individuare la cura intesa come intervento specialistico effettuato da una rete di unità operative che vedono al loro interno diverse figure professionali che lavorano in equipe: psichiatri, psicologi, assistenti sociali, medici, infermieri. Il secondo livello è quello familiare. Non è superfluo sottolineare come la famiglia abbia un ruolo fondamentale nel percorso riabilitativo di individui affetti da disturbi psichiatrici e che pertanto vada incoraggiata e supportata (attraverso, ad esempio, l'attivazione di gruppi di auto aiuto o di gruppi che lavorano sulla crescita personale) nell’accettare il proprio membro in difficoltà, sostenendole nella criticità delle situazioni di fronte alle quali sono poste. Il terzo livello è quello del processo sociale e lavorativo da svilupparsi attraverso l'inserimento in un'attività lavorativa più o meno supportata o in un'impresa sociale. Quando questo tipo di pratica è possibile, si rivela una risorsa per il soggetto in quanto gli permette di estendere la propria rete relazionale, aumentare i contatti con la comunità , avviando anche un processo di responsabilizzazione e di rivalutazione di sé. Il quarto livello è quello del supporto sociale, volto ad aumentare la capacità del soggetto consentendogli di usufruire di risorse alle quali difficilmente potrebbe accedere48.

80 É evidente, dunque, che la cooperazione a più livelli tra più soggetti per la realizzazione di buone pratiche ha come obiettivo il miglioramento della qualità di vita dei soggetti in difficoltà ma, più in generale, di tutti i soggetti coinvolti in questo processo e di tutta la comunità.

Tali tipi di pratiche trovano consenso all’interno del paradigma del recovery, di cui parlerò più diffusamente nella terza parte della tesi. Per ora sarà sufficiente definire il recovery come un processo durante il quale in soggetto sofferente recupera fiducia in se stesso e nelle proprie possilità.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 1995 definisce così la qualità di vita di un individuo: "La qualità di vita è definita come la percezione da parte delle persone della loro condizione di vita, nel proprio contesto culturale e nel proprio sistema di valori, in rapporto ai loro obbiettivi, aspettative, standard e tenore di vita. E' un concetto molto ampio che copre la salute delle persone, lo stato psicologico, il livello di autonomia, le relazioni sociali, le convinzioni personali e i loro rapporti con gli elementi caratterizzanti il proprio ambiente di vita" (WHOQOL Group, 1995).

Il superamento della realtà manicomiale e il successivo processo di implementazione, aprono alcune problematiche. La diffusione e la specializzazione dei servizi psichiatrici nella comunità, infatti, ha come conseguenza un'altrettanto elevata selezione dei pazienti presi in carico. I servizi selezionano i problemi in base alla propria competenza esonerandosi dall'intervenire in aiuto di questo o quel soggetto che "non è un nostro problema". Spesso accade che le persone vengano smistate, rimbalzate tra competenze differenti e, nel peggiore dei casi, non prese in carico da nessuno e abbandonate a se stesse o alle proprie famiglie, incapaci il più delle volte di far fronte da sole alla necessità49. Spesso, inoltre, accade

che un soggetto sofferente non sia neppure in grado di esprimere il suo bisogno di aiuto, preferendo l'isolamento alle macchinose modalità di richiesta di supporto.

Si ripropone, perciò, per i soggetti sofferenti, il rischio di esclusione: la trappola, però, questa volta, non è rappresentata dalle mura del manicomio, ormai abbattute, ma dalla selettività di servizi frammentati, specializzati, e a volte poco reattivi alla manifestazione dei bisogni.50

49Capita a volte che i pazienti non siano in grado di porre domandi coerenti con il tipo di servizio e non

presentino problemi pertinenti alle prestazioni che il servizio è in grado di offrire. Una maggiore collaborazione tra i servizi potrebbe aiutare in questo senso.

50É necessario fare una puntualizzazione. Sebbene la legge 180 e le successive leggi finanziare abbiano

provveduto alla chiusura di tutti i manicomi sul territorio nazionale e ne abbiano proibito nuove aperture, è necessatio un impegno notevole per ottenere la chiusura dei manicomi privati, l'abolizione delle cliniche

81 Aveva ragione, dunque, Basaglia, a non confidare eccessivamente nella legge 180, senza però sminuirla e considerarla "sbagliata", come alcuni oppositori politici hanno fatto e continuano a fare. Questa ha avuto il merito di restituire il malato alla comunità, con i suoi diritti e i suoi doveri e di avviare le riflessioni sul concetto di salute mentale come esteso a tutta la cittadinanza, come un concetto plurale all'interno del quale molti sono i fattori in interazione.

convenzionate che appaiono come nuovi manicomi che gli psichiatri pubblici hanno creato e foraggiano, e, infine, il superamento dei manicomi giudiziari (OPG).

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PARTE SECONDA

L’approccio sociologico al disagio mentale: teorie e spunti di ricerca

“Gli uccelli nati in gabbia pensano che volare sia una malattia” Alejandro Jodorowsky

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Premessa

Alla base del modello sociologico della malattia mentale, sta l'idea che individuo e società si influenzino reciprocamente. Le dinamiche psichiche dell'individuo e la struttura del suo ruolo sono influenzate dai sistemi della famiglia, delle istituzioni, della cultura e delle condizioni sociali, così come queste, a loro volta, sono influenzate dall'individuo. Nell'ottica sociologica la sofferenza mentale è imprescindibile da una sua collocazione storico sociale: poiché è nella società che l'individuo struttura sé stesso ed è con la società che egli interagisce, va da se che è nella società che si evidenzia uno stato psicopatologico (Cioffi, 2002).

La sociologia per definire il concetto di "malattia mentale" ricorre a quelli di "norma" e di "devianza".

Intendiamo per norma sociale una regola implicita o esplicita che indirizza la condotta dei membri di una società. "La norma stabilisce che cosa è corretto fare in una determinata circostanza e consente rapidamente a ciascuno di scegliere i comportamenti più appropriati, senza dispendio di energie. Senza norme, non ci sarebbe vita sociale" (Conti, Principe 1989). E' evidente che le norme e, con esse, la "normalità" mutino a seconda dello spazio e del tempo in cui ci troviamo: pensare al concetto di norma in astratto è del tutto impossibile e dunque "normalità" e "anormalità" non sono concetti universali, ma mutevoli (Benedict 1934).

Una prima concezione della devianza, elaborata già da Durkheim e poi approfondita dai sociologi inglesi e americani nei primi decenni del novecento51, può essere definita

“strutturale”: essa indica come deviante qualsiasi comportamento che diverga dalla media dei comportamenti standardizzati. Studiare la società dal punto di vista della sua integrazione intorno alle norme attribuisce un'importanza centrale alla teoria dei ruoli. “Il ruolo, concetto normativo, è il sistema coerente di tutte quelle norme che si riferiscono ad una certa posizione sociale” (Pitch 1975 : 55), il complesso di aspettative ad essa collegate.

La violazione della norma, quindi, si configura come un'infrazione di un'aspettativa di ruolo, un abbandono di esso, o l'incoerenza nello svolgerlo. La devianza, così intesa, rappresenta una “anormalità statistica”52. Ma la connotazione di neutralità del termine

51L'esposizione più sistematica della concezione strutturale è stata fornita da Merton nella sua trattazione

dell'anomia e della struttura sociale. (Teoria e struttura sociale, 1949).

85 devianza è solo apparente: perchè un comportamento possa essere definito deviante è necessario non solo che violi le regole normative o le attese dei sistemi sociali, ma che sia anche connotato negativamente dalla maggior parte dei suoi membri.

A questo proposito è chiara la definizione di Cloward e Ohlin, che affemano: "ogni atto deviante importa la violazione di regole sociali che disciplinano il comportamento dei partecipanti in un sistema sociale. Esso consiste in una transazione comportamentale in cui l'attore viola i diritti della vittima quali sono definiti dal sistema di aspettazioni sociali legittime di cui fa parte il comportamento di ruolo della vittima stessa. La caratteristica principale di un atto deviante, in altre parole, è data dal fatto che esso non corrisponde al comportamento che la vittima è portata ad aspettarsi dagli altri in base alla propria posizione