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Il Manuale Diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali: i pericoli delle etichette

"Una parte essenziale dell'effetto di autodeterminazione delle diagnosi psichiatriche", afferma Watzlavick commentando il saggio di Rosenhan, "si basa sulla nostra incrollabile convinzione che tutto ciò che ha un nome per questo stesso fatto debba anche esistere" (Watzlavick, 1994 : 96).

Una tale convinzione è individuabile nella ratio che ha spinto i membri dell'American Psychiatric Association (APA) ad elaborare il Manuale diagnostico e statistico dei Disturbi

Mentali (DSM), pubblicato per la prima volta nel 1952 e arrivato ormai alla sua quinta

edizione. La funzione di una diagnosi (dal greco diaghignóskein, "capire") e delle classificazioni diagnostiche, dunque, è da intendersi come il tentativo di pervenire ad una maggiore comprensione di un disturbo o di una condizione riferibile a una manifestazione di specifici sintomi (Mancini, Perdighe 2014)

Al termine "malattia" o "infermità", viene sostituito quello di "disturbo mentale, "concettualizzato come una sindrome o un modello comportamentale o psicologico clinicamente significativo, che si presenta in un individuo, ed è associato a disagio (es. un sintomo algico), a disabilità (es. compromissione in una o più aree importanti del funzionamento), ad un aumento significativo del rischio di morte, di dolore o di disabilità, o a un’importante limitazione della libertà" (APA 1994 : 8).

Fin dalla sua prima pubblicazione, il sistema di classificazione dei DSM ha ricevuto numerose critiche, fino ad arrivare al comunicato del 29 aprile del 2013 di Thomas Insel, Direttore del National Institute of Mental Health (NIMH), che ha evidenziato la totale mancanza di validità dello strumento del DSM, le cui "diagnosi sono basate sul consenso su gruppi di sintomi e non su analisi oggettive di laboratorio" (Insel 2013).

Si accusa il sistema, innanzitutto, di avere un approccio descrittivo, ereditato dalla tradizione positivista, che non tiene di conto la storia personale del paziente, ignorandone l'individualità; di definire, poi, i Disturbi mentali in base a quadri sintomatologici raggruppati secondo basi statistiche che non corrispondono alla realtà; gli si rimprovera, in fine, un vizio etico, dal momento che la metà dei membri delle task force hanno intrattenuto rapporti economici con le case farmaceutiche.

118 La definizione dei disturbi mentali e la classificazione di tali disturbi in categorie viene, tuttavia, ritenuta necessaria da un lato per favorire la comunicazione, il confronto e la condivisione di informazioni all’interno della comuntà scientifica e tra chi si occupa della cura, dall'altro per poter prevedere, una volta individuati i sintomi, l’andamento e lo sviluppo del disturbo al fine di orientare le terapie. .

É del 2013 l'ultima edizione del manule, il DSM-584, pubblicato sotto la direzione del

Dott. David Kupfer, e accolto con numerose critiche che hanno spinto L’APA a ritardare l’uscita del volume, a creare un apposito sito per ricevere suggerimenti e commenti, e ad investire oltre 25 milioni di dollari sul processo di revisione del testo.

Il nuovo DSM ha provveduto a fornire nuove definizioni di categorie diagnostiche già presenti nel manuale precedente e ne ha introdotte di ulteriori, facendo ricadere sotto tali definizioni anche alcune sofferenze e situazioni prima non considerate patologiche.

Così, ad esempio, il dolore che si prova per la perdita di una persona cara non viene più considerato un normale lutto, ma una sofferenza per la quale può essere diagnosticata una "depressione da lutto" anche nei primi due mesi dopo la perdita, con la conseguente prescrizione di farmaci per alleviare il dolore come nei casi di "depressione maggiore". Per quei bambini irritabili, invece, che hanno spesso manifestazioni di rabbia considerate eccessive, il DSM-5 crea una nuova fattispecie diagnostica: "disturbo da disregolazione distruttiva dell'umore", da curarsi per terapia farmacologica.

Secondo il Dott. Allen Frances, ex professore della Duke University e supervisore della Task Force per la stesura del manuale precedente (il DSM-IV), il DSM-5 rappresenterebbe "un autentico fiasco" e accusa l'iperinflazione diagnostica della nuova versione di aggiungere nuove diagnosi "che trasformano l'ansia di tutti i giorni, eccentricità, quotidiane lievi dimenticanze e cattive abitudini alimentari in disturbi mentali". (A. Frances 2013), determinando un sovratrattamento. Le nuove diagnosi di "Disturbo da Sintomo Somatico", "Disturbo Cognitivo Minore", "Disturbo da Abbuffata Compulsiva", "Disturbo da Temperamento Irregolare", sono accusate di introdurre una sorta di "psichiatria preventiva", più dannosa che di aiuto, che conduce ad una medicalizzazione dei problemi della vita quotidiana. Il nuovo DSM "fa in modo che milioni e milioni di persone attualmente considerate normali, siano diagnosticate con un disturbo mentale, e ricevano un trattamento e una stigmatizzazione di cui non hanno nessun bisogno" (Frances 2013). Avendo a disposizione sempre più etichette psichiatriche, dunque, si rischia che sempre più soggetti

119 subiscano tale etichettamento, con le conseguenze "mortificanti" e "stigmatizzanti" che la riflessione sociologica della seconda metà del '900 aveva evidenziato.

Lo psicoanalista Patrick Landman, promotore in Europa del comitato "Stop DSM-5", si esprime a tal proposito, rivolgendosi soprattutto ai media, in questi termini: "Se applicassi i criteri del DSM 5, dovrei dire che il cento per cento dei miei pazienti sono malati mentali. In realtà, solo il dieci per cento di chi viene nel mio studio soffre di un disagio certo e accertabile. Col DSM 5, non si può più essere normalmente tristi o angosciati, senza cadere nelle reti della psichiatria. La medicina tradizionale scopre le malattie, il DSM le inventa"85

(Landman 2014).

Interessante è anche l'opinione dello psichiatra Maurice Corcos, specializzato nella psichiatria infantile e dell'adolescenza, che suggerisce una possibile conseguenza indesiderata dell'implementazione delle categorie di disturbi. "Certi pazienti", afferma Corcos, "cercando un'immagine di loro stessi capace di dire chi siano, tendono ad accettare molto facilmente le etichette diagnostiche. Una sorta di identità di compensazione. Se poi quella sofferenza può permettere loro un riscontro mediatico ( "l'ho visto anche alla tv!"), diventa più facile accettare di essere prigionieri di quell’immagine" (Corcos 2011). La classificazione di un disturbo, dunque, funzionerebbe come una profezia autoavverantesi, sarebbe cioè essa stessa sufficiente, anche senza una diagnosi psichiatrica vera e propria, a produrre una realtà per il soggetto che la interiorizza.

Tuttavia si sono alzate anche delle voci di consenso, che hanno accolto la nuova edizione del DSM con un certo entusiasmo. Il Dott. Gian Paolo Guaraldi afferma che "il DSM- 5, forte delle recenti evidenze scientifiche, anziché racchiudere i sintomi più preminenti in diagnosi simili a “pacchetti” predefiniti, preferisce porre molti Disturbi in Spettri Diagnostici. Questi raccolgono Disturbi strettamente connessi tra loro per sintomatologia condivisa, fattori di rischio comuni (sia ambientali che genetici) e possibili substrati neuronali affini" (Guaraldi 2014 : 117) Il concetto di spettro, preso in prestito dalla fisica, è basato sulla constatazione che alcuni disturbi condividono specifiche caratteristiche sintomatologiche e aspetti riguardanti cause, decorso e, in particolare, la risposta positiva allo stesso trattamento (farmaci SSRI). L’introduzione di questa nuova macrocategoria diagnostica è giustificata dagli autori membri dell'APA come espressione "della crescente evidenza che questi disturbi sono connessi gli uni agli altri in termini di una vasta gamma di validatori diagnostici come anche dell’utilità clinica del raggrupparli in un’unica categoria" (APA 2013 :

85Patrick Landman raccoglie le sue riflessioni nel saggio Tristesse business - Le scandale du DSM-5, Max Milo,

120 236). Chi critica l’introduzione del concetto di Spettro, al contrario, sostiene che ciò comporterà un dilagare di pressapochismo al momento della diagnosi, ed un conseguente aumento di casi: se i clinici non presteranno attenzione, saranno parecchi, forse troppi, i giovani pazienti che riceveranno la nuova diagnosi, proprio perché così ampia e apparentemente indifferenziata (Guaraldi 2014). Una grande responsabilità, dunque, è assegnata agli psichiatri e il rischio, più che da attribuirsi allo strumento diagnostico, afferma in risposta al tale critica il Dottore, è insito nella conoscenza superficiale di esso.

Inoltre sono sicuramente da segnalarsi alcune modifiche in senso positivo, quali l'introduzione delle differenze di genere e cultura di appartenenza86; il raggruppamento in

un unico capitolo, dal titolo Disturbi del Neurosviluppo, di quei Disturbi che hanno tutti origine nel periodo dello Sviluppo, e che comportano una menomazione nel funzionamento personale, sociale, scolastico e occupazionale; infine, la sostituzione del termine "Ritardo Mentale" con quello di "Disabilità Intellettiva", i cui livelli di gravità sono determinati in base al funzionamento adattivo (gravità dei deficit cognitivi, sociali e pratici) e non più, come avveniva nel DSM-IV, soltanto a seconda del punteggio del Quoziente Intellettivo. Ciò denota una volontà di conferire alla diagnosi un aspetto più umano, che consideri aspetti come la qualità della vita e le capacità anche relazionali del soggetto, superando le barriere poste dagli esiti dei test.

Infine è rilevante come il DSM-5 riconosca l'esistenza anche in Psichiatria di un un

continuum tra normalità, disagio e patologia, lungo il quale si distribuiscono i Disturbi psichici

secondo variazioni quantitative, riguardanti la gravità del sintomo, la personalità, la tonalità dell’umore, ecc. Una tale apertura è da considerarsi in senso positivo, ma il rischio è che questa logica sia applicata in modo tale che, indicando come patologici molti comportamenti, sia molto facile per un soggetto ricadere sotto una diagnosi e che questi sia di conseguenza spinto verso trattamenti, farmacologici e non, forse non necessari.

In questo senso è utile constatare come i Manuali diagnostici rappresentino molto di più che un semplice catalogo dei disturbi. Essi sono una vera e propria operazione culturale

86Si ritiene infatti che il sesso possa determinare significative differenze per quel che riguarda l’espressione dei

Disturbi Mentali e che il genere sessuale possa influenzare l’esordio e il decorso della malattia in vari modi. Il sesso, infatti, costituisce un fattore di rischio per alcuni Disturbi (come ad esempio per il Disturbo Disforico Premestruale). Inoltre, vi sono differenze di genere per quel che riguarda la prevalenza e l’incidenza di alcuni Disturbi. Ancora, il sesso può influenzare la probabilità che particolari sintomi di un Disturbo siano avvertiti o meno: è questo il caso del Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, in cui la prevalenza è maggiore nei giovani maschi, ma la mancanza di attenzione è un sintomo più diffuso tra le femmine. Imprescindibili poi le considerazioni in merito alla cultura di riferimento del soggetto che si osserva: alcuni aspetti che possono apparire non consoni in un determinato contesto possono essere assolutamente normali in altri ambiti. (Guaraldi 2014)

121 che risente dei mutamenti sociali e che influenza, a sua volta, la società stessa nel suo rapporto con la sofferenza umana. Ne è un esempio l'omosessualità classificata all'interno del DSM-I (1952) tra i "disturbi sociopatici di personalità", poi considerata patologica solo se vissuta con dolore e angoscia nel DSM-III (1974), e del tutto scomparsa come categoria diagnostica nel DSM-IV (1994). E' evidente, dunque, come l'aggiunta, la rimozione, o lo spostamento di un disturbo da una categoria ad un altra, non sia una semplice modifica della catalogazione a fini scientifici, quanto piuttosto un'azione che avrà delle conseguenze anche, e soprattutto, a livello sociale.

La classificazione dei disturbi effettuata dai Manuali non è una questione che riguarda solo i tecnici della salute mentale e gli operatori del settore, risulta al contrario determinante proprio nella realtà quotidiana del cittadino. Le compagnie d’assicurazione, ad esempio, richiedono una diagnosi basata sul DSM per concedere i rimborsi, ma una diagnosi basata sul DSM è necessaria per l'accesso ai servizi di welfare legati alla disabilità, quali la pensione di invalidità o l'assistenza scolastica specialistica. Sono molti, insomma, gli interessi in gioco, anche in termini di possibilità di accesso ai diritti, aspetto che non va di certo sottovalutato. É opinione di Frances che la tendenza in atto sia quella di medicalizzare una porzione sempre maggiore di popolazione che non necessiterebbe di cure, a discapito di quella minoranza che, al contrario, ne avrebbe diritto. "Uno stile ed una via di dannosa promozione del trattamento farmacologico viene insistentemente offerto alla persona non malata ma particolarmente preoccupata per la propria salute; al contrario troppo piccolo è l’aiuto disponibile per coloro che sono veramente malati e hanno disperato bisogno" (Frances 2013).

E' da chiedersi se tale medicalizzazione si sia resa necessaria a seguito dei profondi mutamenti sociali in atto, che certamente hanno sollevato nuove problematiche e creato nuove forme di sofferenza, o se, piuttosto, non sia il tentativo di soddisfare un uomo che sembra essere sempre più insofferente alla sofferenza. Certo è che il potere psichiatrico, come lo definirebbe Basaglia, si è esteso e rafforzato, e che, forse, contribuisce a produrre ciò che si prefigge di guarire.

PARTE TERZA

Orientamenti al “recovery” e insegnamenti basagliani

nell’esperienza dell’Alba Associazione

“Tenuto in un piccolo vaso il pesce rosso rimarrà piccolo, in uno spazio maggiore esso raddoppia, triplica o quadruplica la sua grandezza...” Big Fish

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Premessa

Il proliferare, all'interno del DSM 5, di nuove categorie diagnostiche dei disturbi mentali e la ridefinizione di quelle già esistenti, rende manifesta la tendenza della scienza psichiatrica, forte del potere delegatogli dalla società, a "medicalizzare" (Maturo, Conrad 2009) un numero sempre crescente di aspetti della vita quotidiana degli individui.

La norma alla quale il Manuale Diagnostico si appella è quella di una salute mentale intesa, in accordo con quanto affermato dall' Organizzazione Mondiale della Sanità, come uno stato di equilibrio emotivo e psicologico nel quale l'individuo sia in grado di sfruttare le proprie risorse cognitive ed emozionali per il raggiungimento dei propri scopi in relazione alla costruzione della propria personalità. É evidente come il concetto di "normalità psichica" sia troppo generico e controverso per essere universalmente accettato: non è sufficiente l'assenza di una malattia per affermare che un soggetto sia mentalmente sano, così come non è sufficiente il manifestarsi di un comportamento ritenuto "strano" o socialmente deviante perchè questi venga etichettato come malato. I concetti di "normalità" e "anormalità", di "salute mentale" e "malattia mentale", dunque, ùapparentemente fissi e definitivi, sono al contrario, come abbiamo visto nei precedenti capitoli, astratti e mutevoli, e le diagnosi che ne derivano sono altrettanto astratte e assolutamente non definitive.

Tali diagnosi, tuttavia, producono una realtà concreta e il pregiudizio psichiatrico, interiorizzato dai malati stessi, diventa spesso il maggior ostacolo alla loro riabilitazione e al loro reinserimento nella società. Si è reso evidente, infatti, osservando i contributi di autori quali Lemert, Goffman, Scheff, Watzlavick e Rosenhan, che i meccanismi di controllo sociale, dei quali la scienza psichiatrica è responsabile e che fanno dell'individuo un oggetto di cure e di assistenza, non sono affatto neutri ed hanno effetti, anche indesiderati, sul decorso della "malattia", e che la reazione sociale, attraverso l'assegnazione degli stereotipi di malattia, sia determinante per il rafforzamento e la stabilizzazione di quella che Lemert definisce "devianza primaria". Il soggetto oggetto di tali processi, infatti, avviando quella che Goffman definisce "carriera morale", muta la propria percezione di sè fino ad accettare completamente lo status di "malato", identificandosi del tutto in tale ruolo.

In questa terza ed ultima parte della tesi cercherò di esplorare quella che si sta delineando come nuova cultura della salute mentale, all'interno della quale il disagio psichico si conferma sempre di più come disagio psicosociale e si comprende come l'assistenza e la cura del malato tramite servizi basati sulla sua oggettivazione rischiano di generare

85 l'esclusione e l'isolamento che la legge 180 e i provvedimenti di deistituzionalizzazione a seguito volevano evitare.

È ormai opinione diffusa che, affinchè il soggetto non si cristallizzi nel ruolo passivo di malato che "subisce" le cure, sia necessaria la realizzazione di servizi diretti a stimolare l'utente ad occupare una centralità nel proprio processo di recovery, inteso come processo riabilititavo, di "recupero" delle proprie abilità e delle proprie possibilità (Deegan 1988).

In questa direzione si inserisce l'operato dell'Alba, associazione di utenti e familiari e, allo stesso tempo, Impresa sociale. L'Alba dal 2000, in collaborazione con i servizi sanitari e sociali, si muove nel territorio pisano per la riabilitazione psico-sociale di soggetti affetti da disturbi mentali gravi e disabilità intellettive medio-lievi.

Un tirocinio formativo di tre mesi presso l'associazione mi ha permesso di osservarne il modus operandi, di conoscere i principi che lo guidano e le difficoltà della loro realizzazione. Ho avuto così la possibilità di stabilire un contatto con la vasta e variata utenza a cui si rivolge, e di toccare con mano le difficoltà che quotidianamente incontra.

Avvalendomi di interviste mirate rivolte agli operatori e di interviste non strutturate, nella forma di storie di vita, rivolte agli utenti, tenterò di verificare come e se il modello operativo trova concretezza nelle pratiche, evidenziandone criticità e possibili margini di miglioramento, in particolare in riferimento alla pratica dell'abiare supportato e dei gruppi di auto-aiuto.

La scelta di tale metodo qualititativo è giustificata da una letteratura sociologica che ne fa ampio uso nell'ambito di indagini che riguardano soggetti marginali, appartenenti a classi subalterne, a fasce sociali deboli, e che ha il pregio di rispondere alla funzione sociale della ricerca, ovvero di "restituire una voce a chi voce non ha" (Crespi 1985). Sebbene alcuni critici denuncino la parzialità della conoscenza offerta da un tale tipo di indagine e la problematicità nell'utilizzo di essa nel passaggio dal "micro" al macro" (Statera 1990), tuttavia essa assegna all'intervistato una centralità che le generalizzazioni dell'indagine quantitativa potrebbero non consentire. La centralità dell'intervistato attribuisce importanza fondamentale alle sue rappresentazioni della realtà, permette al ricercatore di conoscere non già la realtà in quanto tale, bensì la realtà che l'attore inventa e come essa influenza il suo agire87. Di qui anche la mia scelta di riferire, per quanto possibile, le opinioni degli

intervistati con le parole da essi stessi usate.

87Si ricordi a tale proposito il teorema di Thomas (1928): "se gli uomini definiscono certe situazioni come reali,

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1 Verso una nuova cultura della salute mentale