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La prima commissione Delors e l’idea di una solidarietà sociale europea

2. Dalle teorie polarizzanti, alle politiche place-based in Europa

2.3 I livelli politici presi in considerazione

2.3.3 L’Unione Europea e l’ingresso del concetto di esclusione sociale in ambiente urbano

2.3.3.1 La prima commissione Delors e l’idea di una solidarietà sociale europea

Tra il 1985 e il 1995 la Commissione Europea fu presieduta dal presidente Jaques Delors, appartenente al partito socialista francese.

Nel decennio Delorsiano, furono molte le problematiche che la CE si trovò a fronteggiare: il completamento del progetto di un’unione monetaria, i trattati per la definizione delle regole interne all’Unione, la creazione di un mercato unico europeo, il trattato di Maastricht per l’unificazione, l’ingresso di nuovi stati membri e, non ultimo, la crisi internazionale che stava erodendo le tradizionali forme di supporto fornite dai welfare state dei differenti Stati, portando alla luce problemi sociali di difficile definizione e interpretazione.

Se in linea generale durante le commissioni Delors non si possa affermare che le politiche sociali rappresentassero uno degli ambiti di interesse politico più rilevanti (Cram 1997; Falkner 1998), non vi è dubbio che il nei discorsi pronunciati dal presidente si invocasse a più riprese la necessità di predisporre una politica sociale europea, quindi indipendente dai singoli stati membri (Atkinson 2000; Habrahamson 1995). La necessità derivava anche dalle possibili conseguenze derivanti da un’unificazione monetaria che rischiava di mettere in ginocchio i già deboli stati dell’Europa meridionale. Riguardo questo periodo Atkinson (2000b), riprendendo quanto scritto da Leibfried e Pierson (1992), Leibfreid (1993), Lange (1993) e Goma (1996) afferma che,

“Delors’ desire, and those of a number of member-states, that the development of the single market be accompanied by greater social integration and cohesion appeared to provide a firm foundation for the development of the social dimension” (p. 1040).

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Questa “vocazione sociale” del periodo Delors è rintracciabile anche nei discorsi di alcuni attivisti, che vedevano nella figura di Delors, un esempio di apertura verso tematiche sociali, in quel periodo denigrate da molti dei governi europei, alle prese con le difficili condizioni economiche e politiche (Hoskyns e Newman 2000).

Questo slancio darà subito i suoi frutti e porterà nel 1989, durante il primo anno di commissione Delors, al ripensamento delle politiche di lotta alla povertà portate avanti fino ad allora attraverso i programmi “Poverty” (1 e 2), che con la presidenza francese diveranno “per lo sradicamento dell’esclusione sociale” (Madanipour, Cars e Allen 1998). Non è casuale il cambiamento del nome del programma, che da definirsi un programma di lotta alla povertà, muterà in “Programme for the Integration of the Least Privileged Population Groups”. Questo passaggio semantico, segnerà un cambiamento nel modo di concepire i problemi, non più in termini di deprivazione materiale, ma nei termini di un “esclusione” necessitante una integrazione (Commins 1995). In altre parole questo evento, di per sé insignificante, è in grado di dirci verso quali problemi si rivolgesse il governo europeo. L’introduzione del concetto di integrazione rimanda, infatti, al suo opposto, ovvero l’esclusione sociale e non la povertà. Questo passaggio è da leggere, inoltre, alla luce dell’influenza che il sociologo francese Touraine ha esercitato sul pensiero di Delors25.

Assieme al nuovo programma venne poi istituito un Observatory on National Policies to Combat Social Exclusion (Commissione Europea 1995) che aveva lo specifico compito di monitorare le evoluzioni e i cambiamenti in materia di politiche di lotta contro l’esclusione sociale nei diversi stati membri). L’osservatorio fu creato dal Direttorato Generale V (Occupazione, Relazioni industriali e affari sociali) guidato durante i tre mandati da politici appartenenti all’area socialista (spagnola), per tanto ideologicamente in linea con il progetto sociale Delorsiano.

25 Basti pensare che nel 1991 la rivista Esprit ha dedicato un numero alla questione della

comunità europea alla luce dei cambiamenti storici che l’anno investita, in cui Delors dialogava con Touraine, Hassner e le Goff. Inoltre vi era una nota vicinanaza politica di Touraine al Partito socialista. Cfr. Delors, Hassner, Le Goff, & Touraine (1991).

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Ad ogni modo è questo, in sintesi, il processo sociale che ha permesso in Europa l’ingresso del concetto di esclusione sociale, trasformandolo così in una nuova “categoria d’azione pubblica” (Tissot 2007).

È proprio da questo concetto che L’Europa muoverà i suoi primi passi verso una definizione di una politica sociale sovra nazionale. I dati sulla deprivazione erano, infatti, allarmanti (50 milioni di “esclusi” secondo l’eurobarometro).

Sarà con il cosiddetto “Poverty 3” che verranno strutturate le prime strategie di lotta all’esclusione sociale, nonché una definizione della nuova problematica che, come notano prima Ambramhamson (1998) e successivamente Atkinson (2000) prenderà in considerazione sia alcuni dei caratteri dell’esclusione come concepita in ambito francese, sia dalla tradizione anglosassone.

Nonostante il cambio di paradigma sul piano delle narrazioni politiche, il concetto, però, sembrerà ridursi ad un fenomeno statico, producente una dualità urbana, un dentro e un fuori. Si imporrà «a picture of a dual, or twospeed society divided into those who are “in” and those who are “out”» (Strobel 1996, p. 174).

Questa apparente contraddizione è da leggere alla luce di una problematica presente in gran parte delle politiche, degli studi e dei discorsi su povertà ed esclusione sociale, che riguarda la transizione da concetto teorico a concetto operativizzato e per tanto misurabile, che sembrano costantemente condurre a visioni differenti dello stesso problema26.

Se le prime definizioni di esclusione sociale a livello europeo non avranno una connotazione spaziale specifica, riguardando sia aree urbane che rurali, è a partire dal 1993 che anche in Europa si avverte l’esigenza di “urbanizzare” il fenomeno dell’esclusione sociale.

Sarà il Parlamento Europeo, con la sua risoluzione del 28 Settembre 1993, ad invitare la commissione europea «a valutare l’esigenza specifica sull’esclusione

26 «One thing is defining inequality, poverty and social exclusion, another is operationalising and measuring these phenomena» (Abrahamson 1997, p. 148).

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sociale nelle aree urbane, nell’ambito delle iniziative comunitarie» (Senato della Repubblica, Doc. XII n. 125, Risoluzione sull’esclusione sociale).

Sarà con il Libro Verde sulla Politica sociale Europea, presentato alla fine del 1993 da Flynn, che per la prima volta a livello europeo si parlerà di “inner- city problems of social exclusion” (Green Paper on european social policy, p. 31). Questo specifico problema delle periferie urbane viene descritto come un effetto indiretto del mancato equilibrio tra aree rurali e urbane in conseguenza della forte industrializzazione, che ha condotto ad uno svuotamento delle campagne ed ad un sovraffollamento delle città e il cui impatto sociale, se con l’industrializzazione era meno rilevante, con la crisi economica ha condotto ad avere un’alta concentrazione di situazioni di “disagio” economico e sociale. Ad ogni modo questi “inner-city problems” all’interno del rapporto vengono descritti nella sezione dedicata alle sfide future cui l’Unione doveva saper rispondere.

Con il Libro verde, dunque, iniziano a delinearsi i tratti di un processo di spazializzazione delle questioni sociali a livello europeo che culiminerà nella proposta programmatica “URBAN”, così verrà presentata sulla gazzetta ufficiale delle Comunità Europee:

Nelle zone urbane si trovano concentrati alcuni dei più gravi problemi di cui soffre attualmente la Comunità, dovuti alla mancanza di sbocchi economici, al basso livello di reddito e alle precarie condizioni di vita. Le crescenti tensioni che caratterizzano la società europea trovano riscontro soprattutto negli inquietanti fenomeni di esclusione sociale che si manifestano con sempre maggiore frequenza nei centri storici o nelle periferie delle città (Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee, No. C 180/6, 1994).

Le aree urbane cui veniva indirizzato questa sovvenzione europea erano, I “quartieri in crisi … geograficamente identificabili.” e la loro riconoscibilità era data dalla presenza di “indicatori socioeconomici [che] sono sensibilmente al di sotto della media cittadina o regionale, in particolare il tasso di disoccupazione, il livello d'istruzione, l'indice di criminalità, la qualità degli alloggi, la percentuale di beneficiari dell'assistenza pubblica, la composizione

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etnico-sociale, il degrado ambientale, il disservizio dei trasporti pubblici, la penuria di servizi locali, ecc”.

Se possiamo identificare una chiara “svolta spaziale” nel modo di concepire gli allora nascenti problemi sociali, è possibile identificare anche un processo di criminalizzazione dei problemi sociali in ambiente urbano, che trova le sue radici nelle rivolte francesi cui il testo si richiama con il termini “disordini”, le uniche che avevano avuto una forte eco a livello europeo in quel decennio. È, infatti, il primo documento europeo in cui ai problemi di disoccupazione e condizione abitativa di certe specifiche porzioni di territorio vengono associati anche problemi di ordine pubblico sotto l’etichetta della “criminalità”, stabilendo volutamente o meno, una correlazione causale tra luoghi specifici, povertà e criminalità. Inoltre, come nota nuovamente Atkinson (1999), viene tacitamente assunta una visione di questi territori e dei loro presunti o reali problemi, che legittima l’idea di un “effetto da concentrazione” di wilsoniana memoria (Wilson 1987). Secondo Atkison è proprio alla luce di questo “effetto” che le politiche di rigenerazione “area based” in Europa si sono affermate in quanto politiche necessarie (Atkinson 1999).

Ad ogni modo i progetti URBAN sono stati ritenuti efficaci, ciò sulla base di una valutazione ex post redatta dalla commissione europea in cui si affermava che nella maggior parte dei casi si erano manifestati cambiamenti in positivo o una “stabilizzazione” dei problemi. Ciò venne ribadito anche con riferimento alla successiva tornata dei progetti complessi “URBAN II”, conclusi nel 2006.