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4. Oggetto, domande e metodi

4.4 Quale ricerca per il mio oggetto?

Ma come trattare questo oggetto di ricerca? Come rispondere alle mie domande di ricerca attraverso questo territorio? Quale approccio adottare? Quale puto di vista su questo processo sociale?

Non è secondaria l’individuazione del metodo adatto per la conduzione di una ricerca. Non si tratta di una questione “di preferenze”, o meglio non del tutto, ma di adeguatezza dell’impianto della ricerca rispetto alla domanda che ci si pone e ai risultati che ci si prefigge di raggiungere.

Quanta complessità si vuole fare emergere dallo studio, così come i tipi di informazione che si reputano più fruttuosi da un punto di vista epistemologico, sono, ad esempio, due fattori che devono necessariamente essere presi in considerazione nel momento in cui si stabilisce in che modo trattare un argomento.

I due macro approcci tra cui generalmente (ma non sempre) si deve scegliere sono, da un lato il metodo quantitativo e dall’altro quello

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qualitativo. Con ognuno di questi s’identifica un insieme vasto di metodi e tecniche di ricerca sociale il cui uso varia e dipende dai diversi oggetti di ricerca e da una serie di altri fattori esogeni ed endogeni alla ricerca. Come scegliere, dunque, che approccio utilizzare?

La prima questione, secondo me, precedente a qualunque questione relativa all’oggetto di ricerca, ha a che vedere con le “attitudini” del ricercatore. Molto spesso l’oggetto stesso delle nostre ricerche dipenderà a monte dal modo in cui saremo più inclini ad approcciarci allo stesso. Se prendiamo il mio esempio questo risulta evidente. Pur avendo studiato statistica sociale e territoriale durante l’Università, mi era chiaro che avessi negli anni sviluppato una propensione alla ricerca sul campo, ad un approccio qualitativo “estremo”. La mia domanda di ricerca, dunque, non poteva che esigere una risposta qualitativamente informata. Come vedremo di seguito, effettivamente il mio oggetto di ricerca non era compatibile con una ricerca “quantitativa” e nemmeno ad una qualitativa “toccata e fuga”, esigendo un’immersione, un’intimità che solo un orientamento etnografico poteva garantirmi.

Un approccio quantitativo, ovvero in cui dati di primo e secondo livello rappresentano la fonte di informazione privilegiata, chiaramente ridurrà la complessità sociale alla base di qualunque fenomeno sociale. Questa riduzione sarà imputabile ai dati a disposizione (nel caso non si raccolgano direttamente), all’impossibilità di rintracciare delle informazioni “quantitativizzate” e all’impossibilità di coprire, attraverso degli indicatori (nel caso si raccolgano dati di prima mano), l’intera area semantica di un concetto o di un fenomeno, il che rappresenta una sorta di impoverimento a monte della conoscenza ottenibile.

Un approccio statistico non mi avrebbe permesso di comprendere le dinamiche attraverso cui le priorità di quel quartiere vengono continuamente riprodotte dagli attori che vivono e/o operano in quel luogo.

Recuperare informazioni sui progetti in corso e su quelli già realizzati; individuare un processo significativo in corso e gli attori rilevanti dello stesso; magari attori non rivestiti di cariche pubbliche specifiche; ma che

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rappresentano degli interessi e dei discorsi sul quartiere; ottenere i documenti dalle scuole e dialogare con presidi e vice presidi; questo ed altro ancora non sarebbe stato possibile se avessi impostato una ricerca raccogliendo e analizzando i dati statistici disponibili.

Non vi è, ad esempio, una raccolta di informazioni sistematica sugli attori associativi del quartiere, sui progetti che mandano avanti, sui finanziamenti che ottengono; non vi è dato che riesca a parlarmi di come è stato strutturato un discorso sui rischi del quartiere; non vi sono analisi condotte sulle diverse narrazioni che accompagnano questo quartiere2.

Ma i dati non sono comunque irrilevanti. Essi, al contrario, hanno avuto una loro centralità all’interno del mio campo, non in quanto strumento conoscitivo, ma in virtù dell’uso giustificativo che ne veniva fatto.

Anche l’uso del questionario e una presenza saltuaria nel quartiere, per quanto potesse rendermi la vita più semplice, non sembrava rispondere alle mie esigenze di ricerca. Proponendomi di far emergere quanto si nascondesse sotto la lente dell’ovvio e dello scontato, non potevo che essere io stessa in quanto ricercatrice, ad andare a vedere se e come questa Scampia ovviamente problematica si strutturasse o meno nei discorsi della vita quotidiana di diversi attori sociali e se come questo desse avvio a progetti e politiche specifiche per il quartiere. Se un questionario poteva favorire l’emersione di qualche dato di superficie, solo una ricerca sul campo mi dava la possibilità di accedere a queste informazioni.

Un approccio qualitativo, allora, sembrava proporsi come la sola alternativa metodologica utile per la ricerca. Ma il fatto di parlare di approccio qualitativo altro non è che un grande contenitore in cui sono inclusi strumenti e modalità di gestirli completamente differenti. Posso fare delle interviste individuando i “testimoni privilegiati” in base ad una conoscenza approssimativa delle dinamiche interne ad un territorio; posso decidere che le interviste non facciano al caso mio e preferisca basare l’intero lavoro sulle osservazioni (partecipanti, dirette o partecipazioni osservanti etc.), optando

2 Devo riconoscere che un tentativo è stato fatto dal professore Giovanni Laino, strutturando

sei tipologie di “atteggiamenti” nei confronti del quartiere ma queste posture poco ci dicono circa il rapporto che questi soggetti intrattengono con il territorio (Laino e De Leo 2002).

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per una raccolta di materiali “informali”, come colloqui, note di campo, stralci di vita, descrizioni in profondità etc.; o posso prediligere un lungo periodo di osservazione cui dar seguito con un insieme di interviste, colloqui informali, note di campo, stralci di vita etc.

Non tutte le possibilità qualitative, però, risultano adatte, ovvero capaci di cogliere quelle sfumature, tanto nei discorsi quanto nelle azioni dei soggetti, che permettono di cogliere delle opinioni, dei pareri, dei segreti che altrimenti non affiorerebbero.

Anche le interviste, infatti, per quanto in profondità, se realizzate a fronte di una condivisione di tempi ed esperienze con il soggetto intervistato danno risultati molto articolati, poiché il dato è arricchito dalla tua esperienza del e con il soggetto, dalla relazione che sussiste, che permette di andare al di là di quell’asimmetria che grava spesso sull’esito dell’intervista in maniera negativa. Al tempo stesso, attraverso una permanenza prolungata al fianco dei diversi attori di un campo, si dischiude un’ulteriore possibilità, il cui grado di rilevanza dipenderà inevitabilmente dalle abilità relazionali del ricercatore, ovvero quella di affrontare argomenti inaccessibili ad uno “sconosciuto”, per quanto accreditato esso sia.

La distanza, tutta soggettiva, tra un amico e un conoscente è la stessa che separa un ricercatore che sta sul campo, da uno che va sul campo, con riferimento alla qualità e quantità di informazioni che esso può acquisire.

Dunque, una ricerca qualitativa, da svolgere sul campo, si è imposta fin da subito come approccio imprescindibile per riuscire a rispondere alla mia domanda di ricerca. Una domanda che richiede un certo grado d’internità ad un contesto. Non si tratta solo di chiedersi se vi sia o meno in Italia un processo simile a quanto avviene in altri paesi, ma come questo si sviluppi, attraverso quali attori e con quali narrazioni. Non meno rilevante è la variabile temporale. La volontà era quella di restituire la contemporaneità del processo e non tanto una sua evoluzione storica, che pur emergerà. In breve, è la dinamica nei suoi qui ed ora quella ricercata sul campo.

L’essere dentro permette di tenere assieme differenti scale e differenti attori- ruoli, dalle cui interrelazioni è possibile estrapolare informazioni capaci di

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contribuire in maniera decisiva alla strutturazione di una risposta alla questione di ricerca. Queste informazioni, però, non si presentano con immediatezza, è il ricercatore che deve trovare l’ingresso alle voci di un luogo così coma ai suoi silenzi, un ingresso fatto di ascolto, di legami forti, deboli o quasi assenti, ma anzitutto continui.

Sono situazioni sociali (Agier 2009) quelle da cui il ricercatore è chiamato ad estrapolare un senso, trovando come questo senso e il contesto.