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La produzione dell’Architettura tra tecniche e progetto

Nel documento SCUOLe DI DOTTORATO 37 (pagine 63-70)

Da tempo, la Tecnologia dell’Architettura, forse in ragione della sua crescita, fa fatica a muoversi all’interno di confini stabili ed è costretta a interrogarsi su nuove delimitazioni di campo per la sua ricerca e sul suo ruolo all’interno dei processi produttivi del-l’architettura.

Questa crescita è servita, in parte, a rilanciare il contributo della disciplina alla formazione di un architetto “ricercatore”. Un fatto importante perché porta a considerare la “conoscenza” come attività centrale dei processi di progettazione e a lavorare sulla problematici-tà dei rapporti tra l’architetto e i tanti specialismi oggi coinvolti nelle trasformazioni del territorio e nella produzione dell’architettura.

È altrettanto vero che le più recenti articolazioni del settore, rati-ficate solo parzialmente in ambiti concorsuali e in altri incontri disci-plinari, hanno proposto confini sempre più “sfrangiati” e azioni spes-so poco giustificate. Un quadro difficile da controllare che non ha dato sempre contributi chiari in termini di innovazione e avanzamen-to e che, soprattutavanzamen-to, non aiuta i nuovi quadri a orientare le proprie scelte nella ricerca di base e nella costruzione dei propri profili curri-colari; tantomeno aiuta le Unità operative universitarie a proporsi al territorio in termini affidabili di accompagnamento e servizio.

1Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria.

Massimo Lauria (edited by) Produzione dell’Architettura tra tecniche e progetto. Ricerca e innovazione per il territorio = Architectural Planning between build and design techniques. Glocal oriented research and innovation, ISBN 978-88-8453-988-5 (online) ISBN 978-88-8453-990-8 (print) © 2010 Firenze University Press

A ciò si aggiunge il danno subito dal settore all’interno delle facoltà, dove si fa sempre più fatica ad acquisire legittimità rispet-to al ruolo e alla responsabilità che il setrispet-tore può/deve svolgere nei confronti del progetto e nei processi formativi ai diversi livelli.

Il 5° seminario OsDotta, nelle scelte tematiche seminariali e nel progetto del workshop finale proposti dal dottorato di Reggio Calabria, prone riflessioni su queste criticità.

Occorre preliminarmente affermare la necessità che le nostre declaratorie, nelle innovazioni in corso e nelle future implementa-zioni, non trascurino la “pratica” del progetto e la possibilità che con esso si possano anticipare le conseguenze che le decisioni hanno sulla produzione di Architettura e sull’ambiente; ciò, guar-dando alle più recenti accezioni del “mestiere dell’architetto”, e tenendo conto delle responsabilità riconosciute a esso in ambito nazionale ed europeo (vedi, fra l’altro, Direttiva 85/384 CEE e nuove norme in materia di OO.PP).

Un mestiere che, in linea con i profili complessi della contem-poraneità, coinvolge problemi sempre meno inerenti alla soggetti-vità di un’esperienza; ma, piuttosto, all’oggettisoggetti-vità di un fare comu-ne, partecipato e concertato. Un mestiere notoriamente non sem-plice: nel suo essere in bilico, tra arte, scienza e tecnica, tra la neces-sità di conoscere e il bisogno di trasformare, tra la continuità e la novità; un mestiere che agisce nel segno dell’innovazione e della creatività, ma anche dell’utilità. Sono peculiarità che non ci consen-tono di affrontarlo, in modo esclusivo, con gli strumenti dell’og-gettività o della scientificità, ma neanche con quelli del semplice formalismo o, peggio, dell’astrattezza. Un mestiere che, in ogni situazione, ha bisogno di molti apporti “esterni”. Un’“arte di con-fine”, diversa dalle altre arti figurative e plastiche; più delle altre condizionata e condizionante; contrariamente alle altre, caratteriz-zata da una sostanziale distanza tra l’”artista” e l’”opera”. In altre parole, un’arte contaminata e un mestiere, più degli altri, costretto a confrontarsi con un’ampia multidisciplinarietà e per il quale è sempre più complesso e controverso il problema del rapporto con molteplici specialisti.

All’interno di questa problematicità, vi è la tendenza a rele-gare tecniche e tecnologie in ambiti specialistici di tipo ingegneristi-co, con ruoli esclusivi di supporto.

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È una vecchia questione che non possiamo pensare supera-ta, e il nostro compito è ancora quello di chiederci che prepara-zione tecnica e tecnologica serve per migliorare la collocaprepara-zione dell’architetto nel mondo produttivo e nell’ambiente in cui opera; riprendendo a discutere, nella ricerca come nella didatti-ca, del modo di fare le cose; riconsiderando che le tecniche, oggi, sono più che mai “materiali” del progetto.

Del rapporto tra architettura e tecnica si parla da molto e da diversi punti di vista; la questione resta, comunque, aperta, in evo-luzione permanente e sempre più articolata, visto che la tecnica, anche con riferimento all’architettura, non è affatto unitaria.

Per il workshop del 5° seminario OsDotta si è proposto di far lavorare i dottorandi sui risultati dei seminari di sede, a loro volta con-dotti attorno a tre tipi di approccio e a tre diversi tipi di tecniche: quel-le “materiali”, quelquel-le “organizzative” e, infine, quelquel-le “morfologiche”, che s’identificano con le tecniche della comunicazione e del linguaggio e che non sono meno importanti delle altre, anche rispetto ai nostri obiettivi. Sono tecniche tutte indispensabili per “fare” architettura;

possiamo, si diceva, definirle “materiali” per l’architettura, in un’acce-zione per la quale la tecnica, al pari degli apparati culturali e sociali, è un “materiale” e, distinguendo, con Gregotti, tra “materie” e “mate-riali”; considerando, i secondi molto più complessi delle “materie”;

essendo materiali anche la cultura, il rapporto con la committenza e con l’utenza, i livello tecnico dell’impresa, le nostre capacità interpre-tative della realtà e le nostre intenzionalità; sono tutte cose che in un progetto di architettura acquisiamo, selezioniamo, riorganizziamo, allo scopo di sperimentare e produrre trasformazioni non casuali”.

Altro principio che contribuisce a chiarire in senso operativo il nostro assunto è il fatto che le tecniche, non solo non sono unita-rie per ragioni naturali, non sono neanche stabili; ognuna, infatti, presenta specifiche condizioni di avanzamento, di conservazione e di accumulo. Una considerazione che, unita all’esigenza etica di considerare le tecniche non neutrali rispetto a obiettivi di progresso – è questa la questione ontologica delle tecniche alla quale dovrem-mo dedicare i nostri interessi per la cosiddetta sostenibilità dell’ar-chitettura – può forse rimandare concettualmente a una “tecnica del progetto” che coinvolga, appunto, con la stessa intensità, ansie este-tiche, funzionali ed etiche.

In sostanza, è rispetto a questo livello di complessità che dob-biamo chiedere al progetto di architettura di assumere il compito di sviluppare una tecnica propria: mettere insieme campi tecnici diversi, con la finalità unitaria di salvaguardare/trasformare.

Occorre, poi, prodigarsi per superare i conflitti che nascono dal fatto che, nell’ultimo secolo, teorici dell’architettura hanno espresso – e, in parte, esprimono ancora oggi – una specie di dif-fidenza nei confronti del pensiero tecnico; ciò, nonostante che dal XVII secolo in poi la tecnica sia diventata un motore indispensa-bile per rinnovare la conoscenza e migliorare le condizioni di vita dell’uomo.

Ciò porta implicitamente a chiedersi quali relazioni esistano tra tecnica e scienza. Un tempo la distinzione era chiara, nel senso che la tecnica aveva a che fare con il problema della conoscenza, al di là di un obiettivo strumentale. Oggi il rapporto è strettissimo: non esiste scoperta scientifica che non abbia alle spalle una ricerca tecnica e una strumentazione, creata apposta per quella ricerca; anche la scien-za, in sostanscien-za, è asservita allo sviluppo tecnico, più che ai bisogni dell’uomo e della società. Un fatto, per molti studiosi – tra questi, Umberto Galimberti – non privo di contraddizioni e, soprattutto, rischioso per l’umanità, e che suggerisce di mantenere una certa distanza tra scienza e tecnica, salvaguardando una differenza tra pen-sare e fare. La scienza, così, potrebbe/dovrebbe diventare una vera etica della tecnica, recuperando il suo valore umanistico. Una scienza a servizio dell’umanità, non della tecnica, luogo del pensiero che pone un limite. Solo così, se proprio non si riesce a dominare la tec-nica, si potrebbe evitare di esserne dominati, opponendoci all’idea di poter essere esentati dallo scopo del nostro “fare” (si veda Bobbio, L’elogio della mitezza).

La questione resta ancora più aperta ed è forse di maggiore interesse per noi architetti se si considerano alcuni rapporti tra tec-nica, arte e scienza. L’instabilità della tecnica è anche nella sua peren-ne ricerca d’innovazioperen-ne. Per essa, infatti, superarsi è naturale. È così anche per la scienza anche se, rispetto alla tecnica, essa preten-de un riconoscimento di eternità. Mentre è molto difficile parlare di un’arte che superi se stessa.

Una distinzione importante che crea conflitti, ma che, se affron-tata con la giusta criticità, può anche favorire il dialogo tra le tre sfere.

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Possiamo comunque districarci meglio in questi non semplici questioni se richiamiamo brevemente alcuni aspetti evolutivi degli approcci al problema.

Per i Greci antichi l’arte era l’unico modo per applicare le gran-di teorie della scienza. Definita tekné, ossia ciò che sta tra l’operare pratico e le modalità del sapere – due cose in una – l’arte era espressione del rapporto tra scienza e mondo fisico.

Questo tipo di approccio è durato secoli, anche se con molte varianti e con alcune topicità, come nel mondo gotico per il quale la finalità della costruzione consisteva nel fatto che conoscenza e

“miracolo” tecnico erano addirittura considerati forme di spirituali-tà. La sua crisi si verificò con l’avvento della meccanizzazione: in un passo del 1859, a proposito dell’Esposizione Universale di Londra, Marx si domanda “che ne è di Vulcano di fronte a Robert

& Company, di Giove di fronte al parafulmine?” Con questa affer-mazione mette in dubbio tutto l’apparato “mistico” precedente, la tecnica prende il posto del miracolo.

Il movimento Moderno tentò di proporre alternative ad un mondo prigioniero delle tecniche e del consumo, per il quale gli stru-menti della produzione avrebbero potuto contribuire a rinnovare l’ar-te e liberare la società. Un’illusione e un’utopia, visto che la produzio-ne e il mercato non erano affatto interessati ai problemi dell’arte.

Ciò ha dato inizio alla crisi nella quale ci troviamo, che si esprime con una sorta di scissione, un dualismo tra tecnologi e formalisti. Col risultato che gli uni e gli altri, chiusi nei propri recinti, difficilmente riescono ad avere un rapporto adeguato con i problemi della realtà.

Per alcuni – tra questi Negroponte –, una soluzione può venire dal mondo dall’elettronica e dell’informatica, le cosiddette tecniche invisibili. Un mondo, a volte, paragonato alla mitologia antica, che ha bisogno di proiettare sempre in avanti le proprie idee e che induce a preoccuparci in modo esclusivo e frenetico del nostro futuro.

Altre indicazioni simili ci vengono da una certa cultura del design, che nasce dall’idea di una progettazione scomposta in parti specializzate; una sorta di ibridazione con la pubblicità, con la moda, con la multimedialità, con la comunicazione e la ricerca della meraviglia ad ogni costo, con la ricerca incessante del successo.

Sono posizioni e concetti trainanti della contemporaneità ma anche estranei agli statuti della tradizione architettonica, le cui peculiarità sono: oltre alla creatività e all’innovazione, altri

concet-ti imprescindibili, come la salvaguardia, la collocazione, il radica-mento e la permanenza.

Tutto ciò non significa che i “modi di fare” siano rimasti quel-li di un tempo. Sono molte le novità per chi esercita il mestiere del-l’architetto, è cambiato il loro modo di operare: si pensi all’attuali-tà delle tecniche di gestione e delle tecniche di controllo che hanno introdotto tra gli studi di architettura l’economia e la manageriali-tà; alle tendenze procedurali introdotte dalla Comunità europea che ha trasformato l’artigianalità degli studi degli architetti in socie-tà di servizio; al problema delle specializzazioni e delle relative tec-niche che hanno disgregato l’unitarietà del progetto; all’uso irri-nunciabile del computer nella progettazione, che ha portato a pro-gettare a scala uno a uno, non più per approssimazioni successive;

all’uso di semilavorati e componenti molto diversificati e fungibili negli assemblaggi costruttivi; all’idea dominante di architetture

“evento”, affiancata dal logo pubblicitario col nome del suo auto-re, diventato più importante dell’opera.

Sono solo alcune delle novità con le quali il mestiere dell’ar-chitetto deve confrontarsi e sulle quali occorre lavorare, raffor-zando l’idea che l’architettura non può rinunciare a confrontarsi con la realtà. La realtà esiste e resta il nostro campo di esercizio;

la si può interpretare, per decidere se e come trasformarla; ma non si può essere esentati dal conoscerla e dalla responsabilità di esercitare il nostro mestiere con la consapevolezza di quanto le nostre decisioni incideranno sul suo futuro; un fatto non sempli-ce perché viviamo nell’età dei cambiamenti repentini e dell’in-certezza.

Nell’affrontare queste complessità e queste incertezze, il rap-porto tra teoria e pratica diventa indispensabile, modificando radi-calmente l’atteggiamento della cultura architettonica che, da tempo, tende a considerare le tecniche, ora come fenomeno negati-vo e spersonalizzante indotto dalla ratio produttiva, ora come opportunità mitica per superare ogni problema.

In controtendenza è forse utile sostenere una terza via che offre spunti interessanti in merito al problema delle tecniche esecutive. È quella proposta da Martin Heidegger (La questione della tecnica, 1953), per il quale la rappresentazione comune della tecnica non coincide con il suo vero significato.

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Occorre svelare nella sua essenza il concetto di “strumentalità”

e ciò è possibile mettendo in relazione il concetto di “tecnica” con quello di “causalità”, riassumibile, a sua volta, nella teoria aristoteli-ca delle quattro aristoteli-cause: materialis, formalis, finalis ed efficiens (materiale, forma, utilità e capacità di chi opera), che concorrono, tutte e insie-me, a determinare uno stesso fine.

Le quattro cause sono i modi, tra loro connessi dell’essere responsabile, che significa fare avvenire ciò che non è ancora: il “pro-durre”, che per i greci era il produrre artistico non separato dal produr-re materiale.

Seguendo Martin Heidegger, in sostanza, le tecniche edilizie diventano categoria centrale da cui partire, per interrogarsi sul senso del produrre architettonico. Si supera così l’idea che il momen-to tecnico sia subordinamomen-to a quello della funzione e della forma; da molti, ritenuti i soli a conferire valore “artistico” alla costruzione.

Si potrà così modificare utilmente il dibattito all’interno della disciplina architettonica e, forse, ricomporre l’unitarietà perduta della Tecnologia dell’Architettura, mettendola a servizio del mestie-re dell’architetto; un mestiemestie-re, come sostenuto all’inizio di queste note, che coinvolge problemi sempre meno inerenti alla soggettivi-tà del fare; ma, piuttosto, all’oggettivisoggettivi-tà e all’esperienza di un fare comune, partecipato e concertato, in linea con i profili complessi della contemporaneità.

ATTILIO NESI1

Nel documento SCUOLe DI DOTTORATO 37 (pagine 63-70)

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