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La valutazione contabile del patrimonio culturale

IL PATRIMONIO DI UN MUSEO? APPROCCI CONTABILI NAZIONAL

2.4. La valutazione contabile del patrimonio culturale

La precedente analisi ha considerato il patrimonio museale nella sua complessità ossia come «un aggregato, un sistema, un insieme di mezzi,

unitariamente predisposto per l’esercizio di un certa attività economica, il quale si pone a supporto indispensabile per la realizzazione di specifici processi di creazione del valore, attivati per ottenere determinati outputs, siano essi beni o servizi» (Catturi, 2003, p. 198). Nella consapevolezza che

ogni cespite (elemento patrimoniale) ha un suo ruolo nella compagine pa- trimoniale tanto che una modifica del medesimo può alterare la quantità e la qualità della ricchezza complessiva, spostiamo l’ottica di indagine pro- prio su quell’aggregato dell’Attivo fisso che contribuisce ad identificare il museo come azienda. Si fa esplicito riferimento all’insieme dei beni che compongono il patrimonio culturale.

Dalla teoria economica si assume la tassanomia che, in base al carattere della materialità, individua (Vecco, 2007, p. 27):

• il patrimonio culturale tangibile, mobiliare (sculture, pitture, colle- zioni ecc.) ed immobiliare (edifici storici, siti archeologici, città ecc.);

• il patrimonio culturale intangibile, espressione dell’arte e della cul- tura di un popolo (tradizioni, folklore, musica, letteratura ecc.). Rispetto al patrimonio culturale sussiste una difficoltà di valutazione considerato che, alla stregua di quello ambientale, è formato da beni pub- blici “puri” e, pertanto, caratterizzati dal duplice carattere della non esclu- dibilità (nessuno può essere escluso dalla fruizione di un’opera d’arte) e non rivalità nel consumo (l’uso del bene da parte di un soggetto non impe- disce ad altri la fruizione simultanea)7. I beni culturali sono altresì parte del demanio, in quanto sono inalienabili, unici, non sostituibili e con vita esten- siva (Greffe, 2003). Tali connotazioni, che spiegano la mancanza di sostitu- ti sul mercato rispetto ai quali formulare un prezzo di scambio, ne rendono appunto difficile la valutazione.

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Nei casi in cui l’opera d’arte è a pagamento e quindi escludibile, ma non rivale nel consu- mo, allora si tratterà di bene culturale “semi-puro”.

Procediamo ad analizzare come è stata affrontata la questione della va- lorizzazione dei beni culturali nel contesto professionale e normativo con- tabile nazionale ed internazionale.

2.4.1. La prassi contabile nazionale

Per le ragioni sopra menzionate, la predisposizione degli inventari a quantità piuttosto che a valore costituiva la pratica extra-contabile più dif- fusa fra i musei appartenenti agli enti locali almeno fino al d.lgs. n. 77/1995. L’inclusione nel Conto del Patrimonio dei beni demaniali e la re- lativa valorizzazione, a seconda della data di ingresso nell’economia dell’ente locale (e dei suoi organismi ed enti strumentali), ha rappresentato certamente un passo avanti nella rendicontazione contabile del patrimonio pubblico, beni culturali compresi. In dettaglio, la normativa contabile sopra accennata, confluita nel TUEL statuisce quanto segue:

− «beni demaniali già acquisiti all’ente alla data di entrata in vigore

del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, sono valutati in misu- ra pari all’ammontare del residuo debito dei mutui ancora in estin- zione per lo stesso titolo;

− i beni demaniali acquisiti all’ente successivamente sono valutati al

costo» (art. 230, comma 4, punto a).

L’articolo 229 del TUEL aggiunge che:

«Gli ammortamenti compresi nel conto economico sono determinati con

i seguenti coefficienti:

a) edifici, anche demaniali, ivi compresa la manutenzione straordinaria al 3%;

b) strade, ponti ed altri beni demaniali al 2%».

Come bene evidenziato dal precedente riferimento normativo, la regola contabile nazionale stabilisce il costo storico come criterio di valutazione qualora il bene culturale sia acquisito dopo il 1995 e il relativo ammorta- mento fissato in una percentuale che si presume equivalente a quella del “consumo”, inteso come deterioramento fisico del bene medesimo. Si tratta di un criterio di valutazione alquanto dibattuto, poiché i beni culturali non hanno una vita utile limitata nel tempo e, quindi, non dovrebbero essere oggetto di ammortamento. Tuttavia, la necessità di responsabilizzare i ma- nager pubblici anche sulle performance derivanti dalla gestione di quei beni collettivi ha indotto il legislatore ad introdurre comunque un criterio per la relativa valorizzazione.

Stante la normativa contabile sopra richiamata, la difficoltà di trovare un metodo di valutazione monetario omogeneo ha indotto inizialmente Euro- stat a non inserire gli assets culturali nelle tavole di contabilità nazionale. Una prima stima del patrimonio complessivo dello Stato è stata effettuata dall’Istat nel 2004 su richiesta del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Con l’avvento del System of National Account (SNA’2008), si è proceduto solo nel 2008 ad iscrivere i beni artistici ed archeologici nelle tabelle di contabilità del patrimonio dello Stato8.

Nell’ipotesi di aver individuato il metodo di iscrizione degli asset cultu- rali in Bilancio la questione relativa all’ammortamento, in quanto beni fa- centi parte del capitale immobilizzato, appare certamente discutibile.

Poiché i fondi di ammortamento rilevano l’ammontare delle utilità cedu- te, esercizio per esercizio, dal bene di utilità pluriennale nell’arco della sua vita utile in modo da ripristinarne il valore al termine del suo consumo, la necessità di gestire i beni culturali nel rispetto del principio di equità inter- generazionale e, quindi, evitando il degrado anche di quelli attualmente non fruibili induce a riflettere sulla possibilità di applicare una soluzione conta- bile alternativa e concettualmente più aderente a tale istanza. In merito, al posto del fondo di ammortamento da collocare a rettifica del valore conta- bile (costo storico o residuo debito) dei beni culturali nella sezione dell’Attivo dello Stato patrimoniale dovrebbe essere evidenziato, nella se- zione del Passivo dello stesso prospetto, un “fondo spese future” al fine di accantonare, esercizio dopo esercizio, la ricchezza necessaria a sostenere costi di manutenzione straordinaria, equiparabili a quelli di restauro. Nel Conto Economico andrebbero registrate le relative quote di accantonamen- to (Mussari, 1998, pp. 381-383).

Focalizzando l’attenzione sulle spese di restauro, in quanto quelle di manutenzione straordinaria sono da associare a beni immateriali diversi da quelli culturali, è opportuno distinguere il caso in cui le collezioni museali siano state iscritte in bilancio da quello in cui le stesse non siano state og- getto di valutazione.

Relativamente alla prima ipotesi, il museo può praticare quanto suggeri- to dalla letteratura contabile sopra richiamata, predisponendo un fondo ac- cantonamento spese future (per es. “fondo spese di restauro”), qualora l’economia dello stesso consenta lo sviluppo di una politica di autofinan- ziamento. All’avvio dei lavori di restauro sarà opportuno smobilizzare il fondo stesso per la copertura delle relative spese annue e procedere, in fase 8

di chiusura dei conti, alla capitalizzazione di quest’ultime, mediante il con- to reddituale “incrementi di immobilizzazioni per lavori interni” ed il conto intestato allo stock “immobilizzazioni in corso”.

A titolo esemplificativo supponiamo che sia stato effettuato un accanto- namento triennale al fondo spese di restauro di € 9.000, con utilizzo nell’anno n+4 di 1/3 per la copertura di spese di avvio dei lavori. Con rife- rimento alle voci principali coinvolte nella rilevazione contabile della sud- detta operazione, lo Stato Patrimoniale del museo presenterà la seguente situazione: Stato patrimoniale al 31.12.n+4 Attivo Immobilizzazioni materiali Collezioni d’arte €100.000 Immobilizzazioni €3.000 in corso Passivo Passività consolidate

Fondo spese di restauro € 6.000

Al termine dei lavori (esercizio n+6), qualora le spese di restauro siano interamente coperte dal fondo, e non sia stato rinnovato l’accantonamento al fondo spese di restauro, lo Stato patrimoniale si configurerà come segue:

Stato patrimoniale al 31.12.n+6 Attivo

Immobilizzazioni materiali

Collezioni d’arte €109.000

Passivo

Le spese di restauro, alla stregua delle spese di manutenzione straordi- naria per gli altri beni appartenenti alle immobilizzazioni materiali, accre- scono il valore della collezione oppure lo ripristinano qualora quest’ultima sia stata rilevata in contabilità prima dell’operazione che ne ha recuperato la piena funzionalità.

Le rilevanti difficoltà finanziarie con cui operano gli istituti di culturali considerati, con particolare riguardo a quelli pubblici o in forma di enti non profit, rende maggiormente praticabile il ricorso all’attività di fund raising piuttosto che all’attuazione della politica di autofinanziamento. In tal senso, riteniamo plausibile che un museo copra, annualmente, le spese dei fattori

produttivi necessari all’avvio dei lavori con finanziamenti ottenuti da enti erogatori di fondi a progetto e/o da sponsorizzazioni.

Quest’ultima voce rappresenta un conto acceso ad un ricavo di esercizio che va ad incrementare il conto intestato allo stock cassa. I “finanziamenti in c/capitale per investimenti” sono riconducibili ad una voce contabile da collocarsi nello Stato Patrimoniale del museo (allegato 1). Essa comprende, appunto, i contributi a progetto da parte di soggetti pubblici ed enti territo- riali (allegato 2).

Riprendendo l’esempio precedente, qualora le spese di restauro sulle collezioni d’arte siano finanziate da entrambe le fonti (sponsorizzazioni per € 2.000 e contributo annuo di 1.000 su un finanziamento triennale per € 6.000), possiamo prefigurare, limitatamente alle voci contabili coinvolte nell’operazione, il seguente Stato Patrimoniale:

Stato patrimoniale al 31.12.n+4 Attivo Immobilizzazioni materiali Collezioni d’arte €100.000 Immobilizzazioni €3.000 in corso Passivo Patrimonio netto

Finanziamenti in c/capitale per investimenti € 5.000

È evidente, come nel caso in esame, le spese di restauro siano state og- getto di capitalizzazione mediante il conto reddituale “incremento di im- mobilizzazioni per lavori interni” e il conto intestato allo stock “immobiliz- zazioni in corso”.

Al termine dei lavori, supponendo che il museo non abbia beneficiato di successive sponsorizzazioni, lo Stato patrimoniale presenterà la seguente situazione: Stato patrimoniale al 31.12.n+6 Attivo Immobilizzazioni materiali Collezioni d’arte €109.000 Passivo Patrimonio netto

Stante le ipotesi sopra menzionate, nell’esercizio n+6 non sarà rilevata, fra i ricavi di esercizio, alcuna sponsorizzazione.

Nel caso in cui il museo non abbia provveduto all’iscrizione in bilancio delle collezioni, la capitalizzazione delle spese di restauro risulta imprati- cabile poiché il relativo ammontare non sarebbe rappresentativo dell’intero valore della collezione museale. Tali costi sarebbero, quindi, imputati an- nualmente al Conto economico. Qualora il museo abbia ottenuto un finan- ziamento pluriennale a progetto, quest’ultimo deve essere iscritto nel Passi- vo dello Stato Patrimoniale nell’aggregato Patrimonio netto e nell’Attivo nel conto acceso allo stock cassa. Al sostenimento annuale della spesa di restauro entrambi i conti (“Finanziamenti in c/capitale per investimenti”; “Cassa”) sono da decurtare del relativo ammontare.

2.4.2. La prassi contabile internazionale

La valutazione dei beni del patrimonio culturale (heritage assets) è una questione tuttora aperta nel contesto sia nazionale che internazionale. Infat- ti, l’unico principio contabile che regola tale aspetto è il Financial Repor- ting Standard n. 30 (da ora FRS 30) emanato dall’Accounting Standards Board nel giugno 20099.

Rispetto a tale principio intendiamo focalizzare l’attenzione sugli obiet- tivi, sulla disclosure e sulle modalità di valutazione dei beni tangibili di ca- rattere storico, artistico, scientifico, tecnologico, geofisico e ambientale10.

Come ogni standard anche quello del FRS 30 ha l’obiettivo di aumenta- re la trasparenza dei documenti contabili degli enti aventi la totale proprietà e la gestione di quelle risorse a prescindere che esse siano iscritte nello Sta- to Patrimoniale. Per incoraggiarne la ricognizione e la misurazione, il prin- cipio contabile in esame permette l’utilizzo di un metodo di valutazione in- terno, purché sia appropriato e rilevante. Infatti, nell’appendice I dello Standard si puntualizza che «if heritage assets are not capitalised, the bal-

ance sheet will provide an incomplete picture of an entity’s financial posi- tion. For this reason, it is better to report heritage assets in the balance sheet where information is available on cost or value rather than leave

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L’Accounting Standard Board, organismo professionale che ha l’autorità di emanare i principi contabili nel Regno Unito è stato superato dal Financial Reporting Council istituito il 2 luglio del 2012. Per maggiori approfondimenti su tale ente si rimanda al sito http://www.frc.org.uk.

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Lo Standard FRS 30 definisce heritage asset, appunto, come «a tangible asset with histor-

ical, artistic, scientific, technological, geophysical or environmental qualities that is held and maintained principally for its contribution to knowledge and culture».

these assets out of balance sheet». Gli heritage assets che non figurano nel-

lo Stato Patrimoniale devono essere comunque esplicitati in termini di si- gnificatività e rispetto alla loro natura nella nota di accompagnamento al bilancio.

Relativamente alle modalità di ricognizione e di rilevazione contabile, lo Standard prevede l’iscrizione dei beni culturali in aggregati distinti dagli altri assets e resi omogenei dal criterio di valorizzazione adottato. Ques’ul- timo può coincidere con uno dei seguenti metodi:

− «the cost of acquisitions of heritage assets;

− the value of heritage assets acquired by donation; and

− the proceeds from disposal of heritage assets» (FRS 30, pp. 15-16)11. Procediamo ad esaminare ciascun criterio considerando il contesto mu- seale italiano.

Il primo metodo può essere applicato, per esempio, nel caso di un mu- seo, per lo più privato, avente, come collezioni, opere apportate dal sogget- to proprietario o da questi acquisite tramite aste (per es. musei “vintage”). In tal caso lo Stato Patrimoniale riporterà nell’Attivo il valore delle mede- sime al costo di acquisto (“Collezioni di opere d’arte”) e nel Passivo lo stesso valore nell’ambito del Patrimonio netto (“Fondo di dotazione)12.

Il secondo metodo, tendenzialmente più diffuso del primo, si applica in caso di acquisizione del bene culturale per donazione. Quest’ultima può es- sere contabilizzata se è possibile stimarne il valore in termini monetari. In tal caso è opportuno procedere allo stesso trattamento contabile con l’unica modifica, rispetto a quella del caso precedente, che nel Passivo dello Stato Patrimoniale venga utilizzata la voce “Donazioni” (allegato 2).

Seppure la rilevazione contabile non presenti alcuna difficoltà, ricor- diamo le criticità attribuite ad entrambi i metodi di valorizzazione, i quali sottovalutando la dimensione sociale ed economica del bene culturale po- trebbero non rappresentarne il “real value” (Porter, 2004; Landriani, Pozzo- li, 2014).

I beni culturali possono essere, quindi, capitalizzati solo se sono stati oggetto di acquisizione o di donazione ed, in quest’ultimo caso, sia possibi- le assegnare loro una valore stimato da esperti. Lo standard FRS 30 precisa che gli heritage assets con vita utile indefinita non possono essere soggetti ad ammortamento. Nel caso di una perdita di valore è opportuno effettuare 11

Lo Standard FRS 30 nel paragrafo intitolato “Disclosures” contrappone il valutation ap-

proach al non-recognition appraoch, propendendo per il primo. Nel secondo caso è oppor-

tuno comunque rendere conto dei beni culturali nella nota integrativa.

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l’impairment test secondo quanto stabilito dall’apposito principio interna- zionale (FRS 11 “Impairment of fixed assets and goodwill”; IAS 36 “Im-

pairment of Assets”).

La prassi contabile prevede l’applicazione del suddetto test alle attività non correnti che possono aver subito una perdita di valore derivante da fon- ti interne (per es. deterioramento fisico, obsolescenza ecc.) oppure da fonti esterne (mutamenti che hanno ripercussioni negative nell’ambiente in cui opera l’azienda, cambiamento tassi di interesse ecc.). Per attività s’intende una unità generatrice di flussi finanziari (Cash Generating Unit). Nel caso dei beni culturali l’unità generatrice di cash flow è rappresentata dall’intera collezione e, quindi, dal museo stesso se esso svolge solo attività culturali tipiche (si escludono, quindi, attività commerciali quali bar, caffetteria, ri- storazione ecc.).

L’impairment test verifica che il valore di iscrizione delle attività non correnti (o del CGU) sia superiore a quello recuperabile, ossia il maggiore fra la stima del loro valore d’uso (valore attuale dai flussi finanziari attesi dall’uso continuativo dell’attività) ed il valore ottenibile per mezzo della loro vendita (fair value less cost to sell). Nel caso in cui il valore contabile ecceda quello recuperabile, e quindi laddove l’attività abbia subito una per- dita di valore, questa deve essere rilevata con effetti sul conto economico (si genera pertanto una svalutazione di immobilizzazione).

Nel contesto museale italiano risulta effettivamente difficile utilizzare questa pratica contabile soprattutto in ragione del fatto che la maggior parte delle collezioni non hanno un mercato attivo, per cui il criterio del fair va-

lue risulta scarsamente applicabile. A ciò si aggiunge che in molti musei

civici l’ingresso è gratuito o, comunque, nella maggioranza dei musei ita- liani il prezzo del biglietto non copre i costi totali a causa del predominante carattere di socialità proprio dei “servizi pubblici” o dei “servizi di utilità sociale” nei quali possono, appunto, configurarsi quelli culturali (Art. 101 del Codice Urbani).

L’ultimo criterio è legato al valore di mercato dell’asset culturale. Qua- lora esso non sia disponibile la prassi contabile internazionale suggerisce l’utilizzo del costo di rimpiazzo o sostituzione (replacement cost). Esso può essere associato al valore delle polizze assicurative, pratica utilizzata ad esempio dal Palazzo Strozzi a Firenze (Antolini, 2013, p. 67).

Gli studi empirici condotti in materia sembrano avvalorare l’approccio contabile che suggerisce la rendicontazione degli heritage assets in docu- menti contabili separati dal conto consuntivo in maniera da rendere più in- tegrale la valutazione dei medesimi. In tal modo è opportuno infatti integra- re la misurazione finanziaria con quella delle altre valenze del valore cultu-

rale rilevate secondo le diverse prospettive metodologiche e disciplinari (Landriani, Pozzoli, 2014, p. 111).