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Siena

Nel documento Enrico VII e la Toscana (pagine 76-83)

II. CONTENUTO E STRUTTURA DEL DOCUMENTO

4. Siena

L’ultima sezione della fonte in analisi concerne la parte meridionale del territorio toscano che si trovava sotto la giurisdizione del Comune di Siena e che fu rivendicata dall’autorità imperiale (Infrascripta sunt castra ad dominum

imperatorem et ad Romanum imperium pertinentia, que possidentur et detinentur a comuni et civitate Senarum). L’elenco conta in tutto 97 centri abitati. Deve

essere posto in rilievo la consistente presenza in questo elenco di territori che

185 Davidsohn, op. cit., II, pp. 335-336. 186 Davidsohn, op. cit., II, p. 386.

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avevano fatto parte della Contea degli Aldobrandeschi. Questi ultimi erano stati in costante conflitto con Siena durante il regno di Federico II. Il Comitato della celebre casata signorile si estendeva su una grossa porzione della Maremma e dell’Amiata, fino a comprendere parte del settentrione laziale. I Senesi, cresciuti in popolazione e ricchezza nell’XI e XII secolo, si mostrarono intenzionati a sbarazzarsi dello scomodo vicino, che possedeva castelli sulla Via Francigena e, di conseguenza, di consistenti fonti di profitto. Si deve aggiungere che i Senesi sentirono la necessità di impadronirsi di uno sbocco marittimo e, per questo motivo, volsero la loro attenzione su Grosseto. Agli inizi del Duecento, gli Aldobrandeschi si trovarono, come molte altre famiglie del periodo appartenenti all’aristocrazia rurale, in una situazione economica non florida, avendo debiti da pagare a vari creditori (tra cui il Comune di Orvieto). Essi, tuttavia, non vollero perdere il possesso dei loro territori e presero provvedimenti diretti a metterli al sicuro da attacchi esterni. Ad esempio, nel 1221, la famiglia comitale stipulò un accordo con Siena, attraverso il quale si obbligò a pagare alla stessa città, come riconoscimento di un larvato potere di signoria, un censo annuo di 25 marchi d’argento187

. Fu stabilito che, in caso di mancato rispetto degli obblighi assunti, Radicondoli e Belforte (castelli entrambi citati dalla fonte dell’Archivio di Stato di Torino) sarebbero stati incamerati dal Comune. Con ogni probabilità gli Aldobrandeschi scesero a tali patti con i Senesi per evitare eventuali aggressioni ai danni di Grosseto che, come detto in precedenza, era oggetto d’interesse di questi ultimi per la sua vicinanza al mare. Nel 1224, tuttavia, truppe senesi presero d’assalto con successo tale località, compiendo saccheggi e distruzioni di grande proporzioni188.

Va detto che Siena stava conducendo una politica espansionistica nel territorio circostante la città stessa, sfruttando la non opprimente presenza, in quel periodo, degli ufficiali imperiali. Tale libertà d’iniziativa fu poi persa, tanto che tale Comune fu spremuto, dall’Impero, più di tutti gli altri toscani. In seguito ai saccheggi e alle distruzioni compiute dai Senesi a Grosseto, il rapporto tra questi e

187 L. Marchetti, Guglielmo Aldobrandeschi, in Dizionario Biografico degli Italiani, su voce on line (II, 1960).

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la famiglia comitale si fece molto teso, senza più possibilità di essere ricucito, almeno per quanto riguarda una parte della casata stessa (Guglielmo e i suoi successori, Conti di Soana). Conseguenza di tali eventi fu che gli Aldobrandeschi, non pagando la somma annua che avrebbero dovuto versare alle casse comunali, vennero meno agli obblighi che avevano assunto. Siena allora, nel 1230, occupò i castelli di Radicondoli e Belforte, che tuttavia furono più tardi (nel 1237) recuperati dalla famiglia signorile189. L’ostilità tra gli Aldobrandeschi e il Comune sopra citato, come si può leggere da Davidsohn190, si intrecciò con la contemporanea guerra combattuta tra quest’ultimo e Firenze (ovviamente sostenuta dai Signori della Maremma) negli anni compresi tra il 1229 e il 1235. La pace di Poggibonsi (30 giugno 1235), che decretò la vittoria fiorentina, insieme all’autonomia di Montepulciano e Montalcino (ne parlerò nel prossimo capitolo), non pose fine ai dissidi tra la casata comitale e il Comune cittadino. I Senesi, infatti, ripresero ad assediare castelli appartenenti al Comitato della suddetta famiglia, all’interno della quale, tra l’altro, si verificò una profonda spaccatura. In pratica Ildebrandino, figlio del defunto Bonifazio (Conte di Santa Fiora, fratello di Guglielmo), strinse saldi legami con Ildebrandino Cacciaconti, noto ghibellino senese, sposando in questo modo la causa di Siena e dell’Impero191

. Deve essere precisato che Guglielmo Aldobrandeschi, nel frattempo, era diventato un paladino di Papa Gregorio IX, verso il quale aveva perorato la sua causa; egli si era guadagnato le attenzioni del pontefice, dato che quest’ultimo il 25 giugno 1235 aveva scomunicato il Comune di Siena per aver attaccato i possedimenti del suo protetto192. Con il progressivo peggioramento dei rapporti tra Federico II e la Santa Sede, chiaramente, Guglielmo, in quanto difensore della causa Guelfa, divenne un potente signore nemico non più soltanto dei Senesi, ma pure del Sacro Romano Impero. Lo Staufen, non potendo tollerare che la parte meridionale della Toscana fosse sotto il controllo del paladino della Chiesa, ordinò una campagna militare contro l’Aldobrandeschi, guidata dal Capitano generale della Tuscia Pandolfo di Fasanella. Guglielmo oppose strenua resistenza e alle truppe imperiali

189

Ibidem.

190 Davidsohn, op. cit., II, pp. 288-289. 191 Marchetti, op. cit.

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furono necessari due anni (le operazioni belliche durarono dal 1241 al 1243) per sottomettere il Comitato193. Con la conquista della Maremma, tutta la Toscana poteva dirsi obbediente al Sacro Romano Impero. L’Imperatore, tra l’altro, amava trascorrere l’inverno a Grosseto e dintorni, dedicandosi alle attività venatorie. Nel febbraio 1246 influenzò, proprio con la sua minacciosa presenza nella vicina città sopra menzionata, la nomina per tre anni (1246-1248) del suo figlio illegittimo Federico d’Antiochia a Podestà di Firenze (Comune all’epoca messo in crisi dalle lotte tra Guelfi e Ghibellini). Quest’ultimo fu pure designato Vicario generale della Tuscia, sostituendo, dunque, Pandolfo di Fasanella alla guida degli affari della regione194.

Guglielmo, per riprendere possesso dei territori perduti, combatté al servizio della Chiesa di Roma. Egli fu a capo di truppe pontificie durante la vittoriosa resistenza di Viterbo, ribellatasi all’Impero, all’assedio condotto dall’esercito di Federico II (novembre 1243). L’Aldobrandeschi, inoltre, cercò di sfruttare a proprio vantaggio il periodo di crisi che il potere imperiale visse all’indomani della disfatta di Vittoria, sobillando insurrezioni a Grosseto dirette contro i rappresentanti del Sacro Romano Impero. Tali agitazioni furono represse con notevole difficoltà dal Marchese Galvano Lancia, che nel 1248 era stato nominato Vicario in Maremma195. Dopo la morte dello Stupor mundi, Guglielmo dovette continuare a lottare per recuperare il Comitato di sua pertinenza, dato che vi erano rimasti insediati ufficiali imperiali e il Comune di Siena non fu certo disposto a permettere la realizzazione dei propositi dell’Aldobrandeschi stesso. Egli si alleò con Firenze, Lucca e Orvieto contro Siena, Pisa e Pistoia. La vittoria delle forze guelfe permise a Guglielmo, poco prima di morire (non si hanno notizie su di lui posteriori al 1254), di riunificare la Maremma sotto la sua giurisdizione, concludendo con successo decenni di conflitti contro Siena e l’Impero196. Gli sforzi del Conte, nel lungo periodo, si dimostrarono tuttavia vani, a causa delle sopra citate divisioni all’interno della casata, che portarono alla definitiva disgregazione del Comitato aldobrandesco. Come già detto, Ildebrandino, figlio di

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Davidsohn, op. cit., II, p. 396. 194 Davidsohn, op. cit., II, pp. 433-435. 195 Davidsohn, op. cit., II, p. 497. 196 Marchetti, op. cit.

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Bonifazio, aveva stretto saldi rapporti con il Cacciaconti (esponente di primo piano del ghibellinismo senese) e, in questo modo, aveva tradito lo zio, sposando la politica di Siena. Il figlio di Guglielmo, Omberto, invece, proseguì la politica paterna filoguelfa e contraria a ogni proposta di compromesso avanzata dai Senesi. Con ogni probabilità fu proprio la linea di condotta, che può essere definita superba, assunta nei confronti di Siena a causare la tragica fine di Omberto (assassinato nel 1259, mentre risiedeva nel castello di Campagnatico, da sicari del suddetto Comune)197. Ad ogni modo, il documento in esame testimonia che, agli inizi del XIV secolo, gran parte della Maremma era finita sotto la giurisdizione senese.

Nel contado circostante Siena si ergevano due roccheforti del Sacro Romano Impero, Orgia e San Quirico. La fonte in analisi specifica che tali fortificazioni, situate nella Val d’Orcia, erano state sedi di castellani imperiali (Castrum Orgie

quod erat camera vicar(ii) imperii, fuit destructum a Guelfis civitatis Senarum; Castrum Sancti Quirici in Osenna camera imperii et sui vicar(ii)). Davidsohn198

documenta la presenza di funzionari a San Quirico sin dai tempi del Barbarossa e inoltre rende nota l’intolleranza che, al tempo di Federico II, dimostrarono i Senesi verso gli ufficiali residenti a Orgia. Quest’ultimo castello fu distrutto dai cittadini di Siena nel 1226 e in tale occasione fu necessaria, per convincere gli assalitori a ricostruire a loro spese la fortificazione in questione, la mediazione di Leonardo da Sassorosso, castellano di San Quirico e luogotenente imperiale dei comitati di Siena e Chiusi. Nei due anni seguenti, tuttavia, tale castello fu vittima di ulteriori insubordinazioni da parte dei Senesi che evidentemente non riuscivano a sopportare l’opprimente presenza di funzionari dell’Impero a poca distanza dalle mura cittadine. Gli anni Venti del XIII secolo, d’altra parte, furono un periodo in cui Federico II, impegnato nell’opera di rafforzamento del potere centrale nel Regno di Sicilia e a salvaguardare i preparativi per la Crociata, non ebbe molto tempo da dedicare alle questioni inerenti la Toscana. Siena dunque si sentì libera di dimostrare la sua insoddisfazione. Comunque è noto che tale Comune, all’epoca degli Svevi, per contrastare la supremazia territoriale di Firenze,

197 Ibidem.

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appoggiò costantemente la politica imperiale; durante il regno dello Stupor mundi non si verificarono eccezioni. Siena sostenne sia economicamente che militarmente le ambizioni dell’Imperatore di egemonia su tutta l’Italia centro- settentrionale e, la città in questione, fu la più generosa in tal senso tra quelle toscane. Federico II tuttavia non si dimostrò mai altrettanto generoso nei confronti dei Senesi. A questi ultimi egli non fece mai concessioni simili a quelle elargite ai Pisani; in pratica a Siena non fu accordata alcuna autonomia per quanto concerne l’amministrazione del contado. Il suddetto Comune, tra l’altro, negli ultimi e difficili anni di vita dello Staufen, manifestò in parte rancore nei suoi confronti. Venne richiesto il controllo e la gestione dei già menzionati castelli di Radicondoli e Belforte199, che erano stati inseriti come pegno nell’accordo stipulato nel 1221 tra gli Aldobrandeschi e Siena stessa. I Senesi desiderarono che fosse loro concessa la giurisdizione su tali castra, probabilmente in virtù del fatto che questi ultimi, appartenuti un tempo alla famiglia comitale, in base all’accordo citato sarebbero spettati di diritto proprio al Comune di Siena. I funzionari imperiali, d’altra parte, non sempre rispettarono la libertà politico-istituzionale della città. Nel 1244, il Capitano generale della Tuscia Pandolfo di Fasanella, decretò non valida l’elezione del Podestà designato (il nobile pisano Ventrilio Ventrili) e assunse lui stesso tale carica200. Nonostante i malumori, che si sfogarono soprattutto contro l’agente imperiale in loco, particolarmente intransigente, Ticcio di Colle Val d’Elsa201, il Sacro Romano Impero riuscì a conservare la fedeltà dei Senesi.

Il Comune di Siena, negli anni 1214-1215, aveva mostrato interesse verso le miniere d’argento di Montieri; queste, dopo varie vicissitudini, erano passate sotto il controllo diretto degli ufficiali di Federico II. Federico d’Antiochia, allora a capo dell’amministrazione imperiale in Toscana, nel 1248 si trovò a tal punto a corto di denaro da vedersi costretto, in cambio di un prestito di 12000 libbre pisane, a impegnare le suddette miniere a banchieri nativi di Siena fino all’estinzione del debito contratto, gravato da un interesse dell’80 per cento. Come

199

Davidsohn, op. cit., II, pp. 475-476.

200 N. Kamp, Pandolfo di Fasanella, in Dizionario Biografico degli Italiani, su voce on line (XLV, 1995).

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nota Davidsohn202, gli uomini d’affari furono pronti (concedendo prestiti a elevati tassi di interesse) ad approfittare della costante necessità di denaro delle casse imperiali, dovuta al perenne stato di guerra. Si può affermare che se il Comune in questione spesso non ottenne grandi favori dalla sua fedeltà all’Imperatore, i banchieri senesi, invece, talvolta trassero profitto dai loro rapporti con i funzionari al servizio dello Staufen.

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III.L’AMMINISTRAZIONE IMPERIALE IN TOSCANA AL

Nel documento Enrico VII e la Toscana (pagine 76-83)