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Volterra

Nel documento Enrico VII e la Toscana (pagine 72-76)

II. CONTENUTO E STRUTTURA DEL DOCUMENTO

3. Volterra

La fonte, a questo punto, prende in esame i distretti di competenza di due distinte autorità giurisdizionali volterrane, ossia il Vescovo e il Comune. Sono elencati in tutto 41 centri abitati: 13 all’interno della sezione riguardante il Vescovo, 28 in quella inerente il Comune. Deve essere ricordato che all’epoca il titolare della Cattedra volterrana, Ranieri Belforti, fece parte (pur non facendo atto formale di adesione) della Lega Guelfa (come già affermato nel capitolo introduttivo, pure il Vescovo di Luni, Gheradino Malaspina, si schierò, pur non facendo atto formale di adesione alla Lega Guelfa, contro Enrico VII)172. Dunque, i suoi possedimenti furono rivendicati dal fisco imperiale (Hec sunt terre quas tenet episcopus

vulter(ranus) et sunt Romani imperii). Si deve rilevare che in questo

raggruppamento compare un castello, ossia Pomarance (Castrum Ripamarancia

Mezza), citato pure successivamente tra i possedimenti del Comune di Volterra.

Con ogni probabilità, si tratta di un caso di coabitazione di più autorità giurisdizionali all’interno di uno stesso castrum. Tale constatazione porta ad affermare che, a quel tempo, il controllo della dogana del sale di Pomarance fosse

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detenuto sia dall’autorità episcopale che dal potere laico di Volterra. Tale osservazione induce a fare un accenno sui dissidi che, all’inizio del secolo precedente, si registrarono tra questi due poteri locali.

Ancor prima, tuttavia, deve essere considerato il fatto che il Capo della Chiesa di Volterra, nella seconda metà del XII secolo, aveva costituito un vero e proprio dominio signorile, che comprendeva la Val di Cecina, le Saline, le Colline Metallifere, estendendosi fino ai confini della Contea Aldobrandesca. Il potere del Vescovo aveva radici lontane, avendo questi esercitato, durante l’età carolingia, poteri giurisdizionali in nome del Sacro Romano Impero. Simone Maria Collavini, nel suo saggio Il Principato vescovile di Volterra nel XII secolo (in base ad alcuni

deposizioni testimoniali dell’ottobre 1215)173

, sostiene tuttavia che il dominio signorile dell’autorità episcopale, costruito probabilmente a partire dall’epoca di Galgano (1150-1171 circa), non fosse stato il risultato semplicemente di una posizione di egemonia dovuta all’aver esercitato poteri di natura pubblica nei secoli precedenti. In realtà, il Vescovo dette una fisionomia particolare al potere esercitato nei territori da lui dipendenti, proprio nell’epoca della signorilizzazione dei poteri locali. In pratica, il Capo della Chiesa volterrana, sfruttando l’autorità derivante dalla carica religiosa ricoperta e il fatto che le più potenti casate nobiliari della Toscana (Guidi, Aldobrandeschi, Alberti) avessero scarsi interessi nella zona, cominciò a inserire i piccoli signori del contado in una vera e propria struttura politico-istituzionale, costituita da territori che erano soggetti al suo dominio diretto e dai, cosiddetti, domini indiretti174. L’organismo territoriale così costruito fu riconosciuto, con i relativi diritti, dai privilegi concessi da Enrico VI (1191) e Federico II (1220)175. Il seggio vescovile volterrano, in questo modo, ricevette in feudo dall’Impero i possedimenti costituenti il proprio Principato. Pagano Pannocchieschi, Vescovo di allora, fu nominato dallo Stupor mundi Vicario Imperiale dei feudi che gli erano stati confermati tramite privilegio176.

173 S.M. Collavini, Il principato vescovile di Volterra nel XII secolo (in base ad alcune deposizioni

testimoniali dell’ottobre 1215), in Studi di storia e archeologia in onore di Maria Luisa Ceccarelli Lemut, a cura di M. Baldassarri e S.M. Collavini, Pacini, Pisa 2014, pp. 91-105.

174 Collavini, op. cit., p. 93. 175 Collavini, op. cit., p. 91. 176 Davidsohn, op. cit., II, p. 113.

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Già al tempo di Ildebrando Pannocchieschi, zio e predecessore di Pagano, il Comune di Volterra aveva avviato una politica aggressiva (con grave danno per l’autorità episcopale), indirizzata ad assumere il controllo della dogana del sale di Pomarance e a estendere la propria giurisdizione sui castelli situati tra la Val di Cecina e la Val d’Era. Nel frattempo si fece minacciosa pure Siena che rivolse le sue mire espansionistiche sulle miniere argentifere di Montieri. In questo contesto furono tenuti due procedimenti giudiziari, che dettero entrambi esito favorevole a Pagano Pannocchieschi. Il contenzioso tra questi e il governo cittadino fu sottoposto, nel 1215, al giudizio di Martino e di Cortesonno, rispettivamente Vescovo e preposto di Arezzo177; invece, l’anno precedente, la disputa implicante il Comune di Siena era stata delegata da Papa Innocenzo III a Giovanni da Velletri, Capo della Chiesa fiorentina178. In questo secondo caso la sentenza emessa, contraria ai loro interessi, mandò su tutte le furie i Senesi, che, occupando Chiusdino e rapendo Pagano, lo costrinsero a stipulare un accordo in base al quale l’autorità episcopale avrebbe dovuto versare alla controparte, annualmente, 215 lire per lo sfruttamento delle miniere di Montieri. Poco dopo tuttavia, tale accordo fu giudicato non valido e il Vescovo di Volterra poté così prendere atto che tutti i suoi diritti e possedimenti erano stati riconosciuti legittimi179. Il governo cittadino tuttavia non arrestò i suoi propositi espansionistici e avviò, all’interno delle mura, una politica intollerante nei confronti dei partigiani del Pannocchieschi, tanto che pure la maggior parte dei canonici della Cattedrale si schierarono dalla parte del potere laico. Davidsohn180 rende noto che il Capo della Chiesa di Volterra, per difendere i suoi diritti e possedimenti, si indebitò pesantemente con usurai fiorentini e volterrani. Tale situazione finanziaria portò Pagano poco a poco a venire a patti con il Comune, in modo da avere garantiti determinati diritti in alcune zone del contado (Montieri, Casole, Ulignano, Pulicciano, Gambassi), in cambio della cessione di numerosi castelli situati tra la Val di Cecina e la Val d’Era (i quali erano già stati materia di dissidi al tempo della sentenza arbitrale del 1215). Si venne così a configurare un quadro politico-territoriale che si affermò

177 Collavini, op. cit., p. 91. 178

Davidsohn, op. cit., II, p. 41.

179 M.L. Ceccarelli Lemut, Pagano Pannocchieschi, in Dizionario Biografico degli Italiani, su voce on line (LXXX, 2014).

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definitivamente nella seconda metà del Duecento. In pratica il distretto di competenza del Vescovo venne ridotto a pochi territori, mentre il Comune estese la sua giurisdizione su gran parte dei castelli che erano stati di pertinenza dell’autorità episcopale stessa181

. Nell’immediato, tuttavia, le ostilità non cessarono e, nella contesa, si inserì pure San Gimignano che dopo aver sostenuto per molto tempo la causa del Pannocchieschi, rivolse le armi contro di lui, assediandolo al castello di Gambassi (ultimi giorni di gennaio 1230)182. Logorato dai lunghi anni di conflitto e fortemente indebitato, tanto da non essere più in grado neppure di versare il censo annuo dovuto all’Impero, Pagano prese una decisione drastica: il 7 novembre 1232, a San Miniato, alla presenza del Legato imperiale della Tuscia Gebhard Von Arnstein, abdicò dalla sua carica vicariale e ai territori che gli erano stati infeudati, l’amministrazione dei quali fu delegata al castellano di Orgia183.

Negli anni Trenta del XIII secolo tuttavia il Comune di Volterra proseguì con successo la sua politica espansionistica. Il governo cittadino riuscì infatti a legare a sé i vari signori locali che si erano precedentemente vincolati (tramite giuramento di fedeltà) al Vescovo e, soprattutto, le sue ambizioni trovarono un potente sostegno in Firenze (fino al 1238 ribelle al Sacro Romano Impero). Nel 1237, l’ormai anziano Pagano Pannocchieschi fece ritorno a Volterra (a causa dei costanti dissidi con il potere laico, questi si trovò costretto per molto tempo a risiedere in castelli a lui fedeli) e assolse dalla scomunica da lui stesso inflitta il Podestà e tutti gli abitanti della città, dimostrando in questo modo di voler porre fine alle ostilità con il Comune. In seguito alla grande vittoria riportata a Cortenuova (27 novembre 1237)184, Federico II, come già affermato, dette inizio a un nuovo corso dell’amministrazione imperiale in Toscana; i territori occupati dal governo cittadino, nei piani dello Staufen, dovevano essere restituiti all’autorità episcopale. Nel 1238 infatti, Gebhard Von Arnstein intimò il Podestà di allora (il fiorentino Bocca di Ranieri Rustichi) di prendere provvedimenti in tal senso. Pagano morì l’anno seguente (si hanno notizie su di lui fino al 27 agosto 1239).

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Ceccarelli Lemut, op. cit. 182 Davidsohn, op. cit., II, p. 310. 183 Davidsohn, op. cit., II, p. 311.

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L’Imperatore, data la vacanza del seggio vescovile, decise di porre sotto il diretto controllo dell’Impero i proventi derivanti dallo sfruttamento delle miniere d’argento di Montieri185. I castelli che il Comune di Volterra era riuscito a porre sotto la sua giurisdizione a discapito del Vescovo, finirono sotto il controllo imperiale in conseguenza della frenetica attività politico-diplomatica (di cui parlerò ampiamente nei prossimi due capitoli) messa in atto da Pandolfo di Fasanella. Il Capitano generale della Tuscia, carica ricoperta dallo stesso Pandolfo, ridusse all’obbedienza la suddetta città, come molti altri Comuni minori, nel 1241186. D’altra parte, a quel tempo, tutte le principali potenze toscane avevano riconosciuto l’autorità del Sacro Romano Impero e, dunque, vano e pericoloso sarebbe stato per Volterra non giurare fedeltà a Federico II. Ottenuta l’obbedienza di quest’ultima, il fisco imperiale incamerò i beni che il governo cittadino, fino a quel momento, aveva usurpato all’autorità episcopale. Deve essere considerato il fatto che il contado volterrano, con le sue preziose risorse rappresentate dalle moie e dalle miniere, costituì una ingente fonte di profitti per i funzionari imperiali. Il suddetto territorio dovette perciò essere pesantemente sfruttato, nel quadro del già menzionato nuovo corso che lo Staufen avviò per la Toscana sul finire degli anni Trenta, che prevedeva la destinazione delle ricche risorse economiche e militari di tale regione al soddisfacimento delle necessità dell’Impero. Al compilatore del documento in esame non sfuggì che i ragguardevoli beni, all’epoca sotto la giurisdizione del Comune di Volterra, erano stati di pertinenza del Sacro Romano Impero (Hec sunt terre quas tenet comune

Vulter(re) et sunt Romani imperii).

Nel documento Enrico VII e la Toscana (pagine 72-76)