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La lezione della drammaturgia

Capitolo 2: La lettera nella macchina del racconto

10) La lezione della drammaturgia

Trent’anni dopo la prima edizione dell’Ermidauro, la pubblicazione dell’Aristo ovvero sia l’incestuoso micidiale innocente di Gasparo Ugolini provò ancora una volta come fosse possibile reggere un intero romanzo su una struttura di scambi epistolari. Il racconto di Ugolini, pubblicato nel 1671 in un’edizione scadente con indicazione di stampa «Amsterdam, per Gullielmo Winzlaick»,217

217 Sull’Aristo cfr. L

UCINDA SPERA, Il romanzo italiano del tardo Seicento, Milano, La Nuova Italia, 2000, pp. 58-59 e pp. 104-105.

narra la storia d’amore tra Aristo, il protagonista, e due sorelle napoletane, Erminia e Aurelia, complicata da uno strano gioco di lettere scambiate e perdute.

Aristo giunge a Napoli e si innamora perdutamente di Erminia, dama bellissima ma restia ai corteggiamenti. Per attirare la sua attenzione il giovane decide di scriverle una lettera e di consegnarla con il sigillo rotto, così da costringerla ad accettarla se non altro per evitare che qualcuno possa leggerla al posto suo. Erminia non resiste alla curiosità e, appartatasi in un angolo del giardino, legge il biglietto, dando segno con i suoi sospiri di essersi già innamorata. Aristo assiste di nascosto alla scena e, al termine della lettura, affronta Erminia chiedendole se ha distrutto, come le aveva detto, il foglio. La donna assicura che lo farà al più presto, ma appena può si ritira nelle proprie stanze per dare sfogo alla neonata passione, commentando frase per frase il contenuto del messaggio.

«Fa’ core mio cor, od ardo; fa’ senno mio dissennato pensiero» e rileggendo il foglio disse: «“L’averti io sinor adorato”: ah caro, questi sono affetti troppo svenati, non tributi a me giuridicamente dovuti quand’io non pretendessi il titolo di tirannia. Che merito io d’adorazioni da chi è l’idolo del cor mio? “E la ferma proposizione d’adorarvi fino all’oblivione delle ceneri mie”: oh, questo sì ch’è un tratto di singolar finezza, né degg’io restar vinta dalle tue cortesie: anche dopo lo sperdimento di queste ceneri, parlo delle mie, t’adori pur l’ombra d’Erminia, Aristo mio. “Non è proceduto da altro che dal vostro merito”: oh, sì che l’indovini, perché appunt’io meritava d’esser adorata da te, perché se gl’idoli, false deità, sono adorati con esempio della perdizione loro, io di già son perduta; ma se il merito miro, già lo conoscerti non doveva pretender altro fondamento che le tue cortesie sostienlo quanto t’aggrada, che per questo sarò quanto ti pare meritevole. “Le grazie che mi fate provengono dalla vostra cortesia.” Adesso sì, che conosco l’error mio e confesso che allora ch’io t’era sì ritrosa, veramente io ti graziava, perché ti dava io campo e fomento da tessermi e prepararmi le rovine nelle quali sprovvistamente m’hai colta. “Questa sempre conservatemi dinanzi agl’occhi, ch’io così”: che vuoi ch’io ti conservi, se ciò che ti figuri te l’avevi tu fabbricato? che speranze vuoi scemare, se non hai luoco di sperare mentre son tutta tua? Speri colui che non ha. “Né voi dubitate, che manchi mai d’esser vostro”: ah questo è quello che tocca il vivo: che “divotissimo e obbligatissimo schiavo”? tu schiavo? e me confini alle catene! tu obbligatissimo e a me ti doni? tu divotissimo ed io t’adoro? no, che queste ultime espressioni non meritano l’impressione. Aristo, in poche parole aggiusto le partite fra noi: o è vero ciò che tu nel tuo foglio ti dichiari, o falso.»218

218 G

ASPARO UGOLINI, L’Aristo, ovvero sia l’incestuoso micidiale innocente, Amsterdam, Gullielmo Winzlaick, 1671, pp. 46-49.

Pazza d’amore, Erminia lascia cadere nel cappello di Aristo un mazzo di fiori insieme con una risposta incoraggiante, che Aristo commenta in un analogo soliloquio. Dopodiché, colto dalla stanchezza, il giovane si addormenta.

Dormiva, e così saporosamente che la mano la quale con il biglietto d’Erminia servivale di guanciale sopra la loggia fra la bocca e l’occhio, sognandosi d’impugnar la penna per risponder, lasciò cader la carta e a tempo appunto che Aurelia, la sorella, passeggiando per lo giardino a coglier fiori trovolla. Raccoltala e lettola, fu sforzata di creder a due occhi quello che non doveva creder a mille lingue. Sospeso il guardo, s’allontanò con il foglio medesimo dopo rilettolo.219

Ed è così che il caso si intromette come suo solito negli affari dei due innamorati. Aurelia infatti, a sua volta innamorata di Aristo, si scopre gelosa della sorella e comincia a rivolgerle incomprensibili accuse. Erminia non capisce perché Aurelia sia tanto arrabbiata, ma per sicurezza si affaccia alla loggia e prega Aristo di bruciare la lettera che gli ha inviato. Aristo promette di farlo, ma in realtà non ha idea di dove la lettera sia andata a finire. Subito dopo compare Aurelia alla finestra, con in mano un biglietto che Aristo immagina sia stato scritto da Erminia, mentre la vera autrice è sua sorella. Nella lettera Aristo è pregato di non dar credito alle parole del primo messaggio e di bruciarlo appena possibile. Ovviamente, appena Erminia si affaccia di nuovo alla finestra, Aristo cerca di ottenere delle spiegazioni e i due, costretti a un dialogo tra sordi, finiscono per litigare.

Passato qualche tempo, Aristo e le due sorelle sono invitati a una battuta di caccia da Don Sanzio, ma durante la giornata il giovane rimane ferito. Nel tirare fuori dalla tasca un fazzoletto per soccorrerlo, Aurelia lascia inavvertitamente cadere la lettera di Erminia, che Celia raccoglie e riporta all’autrice. Erminia,

scoprendo che Aristo le ha mentito, si infuria e pretende che le siano restituiti tutti i pegni d’amore. Aristo le consegna allora la lettera vergata da Aurelia, ma creduta di Erminia, aumentando se possibile la collera della ragazza. Tornate a casa, le due sorelle si affrontano. Erminia, per tutelare il segreto della propria passione e giustificare il possesso delle due lettere, inventa una complicata bugia con la quale si fa passare per guardiana dell’onore di casa; Aurelia, per tutta risposta, l’accusa di mentire. La soluzione dell’equivoco arriva solo quando Erminia ascolta Aristo lamentarsi a voce alta di aver perduto la lettera e di aver mentito sul fatto di averla data alle fiamme. E’ così che si giunge finalmente a un chiarimento:

«Ma ditemi, Aristo» ripigliò Erminia, «come avete voi arso la mia carta, se io la tengo fra le mani?» «Sì, l’ultima signora.» «Qual ultima, s’una sola ve n’ho dato?» «L’ultima che, per vostro nome accennandomi, diedemi Aurelia vostra sorella.» «Orsù, questa intendo; ma la prima come l’ardeste, se pur la prima, quella ch’io vi diedi, eccola fra le mie mani?» a questi voti e menzioni si perse Aristo per esser trovato mentitore, ma si consolò perché vide sicura la carta già perduta, e disse prostrandosi: «Signora, ah Erminia, o perdonatemi o se volete punirmi fatelo qui a’ vostri occhi, perché impari a non più mentir il vero: mi cadde la carta con fiori e nastro mentre breve sonno felicitandomi per le vostre grazie m’occupò i sensi.»220

Chiarito l’inganno di Aurelia e concluso l’intricato scambio di lettere, la storia prende inaspettatamente una piega prima licenziosa e infine tragica. Aristo ottiene un appuntamento notturno nella stanza di Erminia che, dopo aver fatto l’amore, si allontana per aver sentito un rumore. Aurelia ne approfitta allora per sostituirsi a lei e unirsi a propria volta con il giovane, che non l’ha riconosciuta. Quando Erminia rientra nella stanza, Aristo crede si tratti di un intruso e immediatamente la uccide. L’uomo si accorge però del terribile errore e decide di togliersi la vita.

La sensazionale definizione di Aristo come incestuoso e omicida si comprende solamente una volta raggiunto l’epilogo della storia, e riguarda una parte del romanzo che occupa appena un decimo del volume, mentre il cardine della

vicenda ruota intorno agli equivoci tra gli innamorati dovuti ai maneggi epistolari di Aurelia. La promessa di riservare a un altro volume le avventure della sorella sopravvissuta, l’inverosimiglianza degli eventi e lo schematismo dell’intreccio invitano a non dare troppa fede all’affermazione dell’autore di essersi ispirato a un fatto realmente accaduto221 perché, se ispirazione c’è stata, è più facile pensare che sia giunta dal mondo dei libri, se non da quello del teatro. Mentre la conclusione del romanzo riecheggia situazioni della novellistica barocca, tutto ciò che lo precede appare infatti la descrizione di un’azione scenica immaginata o vista dall’autore e riproposta in volume sotto forma di romanzo. Svariate scelte narrative sembrano dettate dalla necessità di adeguarsi ai limiti tecnici di una modesta rappresentazione: il numero dei personaggi è ristretto a quattro, l’ambientazione principale è il giardino di un palazzo munito di balcone, le ‘entrate’ e le ‘uscite’ dei protagonisti sono chiaramente scandite. Abbondano i dialoghi, i soliloqui, le scene di delirio; anche il commento riga per riga delle lettere ricevute è un tipico espediente da commedia, atto a rendere partecipe il pubblico di un testo che, per ovvie ragioni, non può leggere autonomamente.222

L’ipotesi dell’esistenza di un archetipo teatrale per l’Aristo di Carlo Della Luna è coerente con le affermazioni di alcuni scrittori dell’epoca e degli studiosi contemporanei sui rapporti di reciproco scambio tra la narrativa e il teatro. L’Aristo non sarebbe certo il primo romanzo barocco tratto da una commedia, visto che secondo Ferrante Pallavicino già l’intreccio del Principe ermafrodito sarebbe stato ripreso da una rappresentazione spagnola.223 Altro narratore a confessare esplicitamente i propri debiti nei confronti del teatro è Maiolino

221Ivi, p. n.n.

222 La lettura ad alta voce di una lettera inframmezzata da incisi e commenti compare per esempio

nella scena terza del secondo atto del Negromante (seconda redazione) di LUDOVICO ARIOSTO, in

Le commedie, II, Torino, UTET, 2007, pp. 562-563.

223 F. P

ALLAVICINO, Il principe ermafrodito, a cura di Roberta Colombi, Roma, Salerno editrice, 1992, p. 47.

Bisaccioni,224 mentre per la maggior parte dei restanti scrittori bisogna accontentarsi di supposizioni. Di echi del teatro contemporaneo nell’elaborazione di novelle e romanzi seicenteschi parlano, tra i moderni, Albert N. Mancini225 e Claudio Varese,226 senza tuttavia approfondire l’argomento. Secondo questi studiosi è sopratutto l’impianto schematico della narrativa a rivelare affinità con la drammaturgia, con il suo gusto per i congegni basati sugli equivoci e sugli scambi di persona.

L’Aristo è forse il segno più esplicito della disponibilità della narrativa seicentesca a lasciarsi contaminare dal teatro e a riciclare meccanismi comuni nella commedia come, tra gli altri, il dirottamento della posta. Spesso sulla scena erano proprio le lettere, perdute, scambiate, ritrovate o falsificate a fornire il motore dell’azione o un deus ex machina risolutivo. Henri Recoules, per esempio, ha sottolineato l’importanza della comunicazione epistolare nella struttura delle opere di Lope de Vega, Tirso de Molina e Caldéron de la Barca, redigendo un utile repertorio che si limita a segnalare la presenza di lettere senza tentare alcun tipo di organizzazione delle stesse.227

Sempre al proposito, una sezione del repertorio di Nicoletta Capozza dedicato ai lazzi della commedia dell’arte è riservata ai «Lazzi della lettera» descritti come i «più popolari di tutta la Commedia dell’Arte».228

L’espediente della lettera da consegnare all’amato è usato dagli attori in diverse varianti: il lazzo può costruirsi intorno al contenuto della lettera e alle reazioni che esso comporta nei personaggi; oppure può essere messo in atto da chi leggendola ne storpia il contenuto;

224 E

DOARDO TADDEO, Le “favole tratte dal vero” di Maiolino Bisaccioni, in «Studi secenteschi», 30, 1989, pp. 101-130.

225 A.N. M

ANCINI, Romanzi e romanzieri, cit., pp. 83, 109-110 e 128-129.

226 C

LAUDIO VARESE, Prosa, in Storia della Letteratura Italiana. Il Seicento, a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Milano, Garzanti, 1992, p. 711.

227

HENRI RECOULES, Cartas y papeles en el teatro del siglo de oro, in « Boletín de la Real Academia Española », Tomo IV, Cuaderno 203, 1974, pp. 479-496.

228 N

ICOLETTA CAPOZZA, Tutti i lazzi della Commedia dell’Arte. Un catalogo ragionato del

o ancora, ed è il caso dei lazzi più riusciti, la lettera è al centro di equivoci a catena piuttosto elaborati che a volte, come nella raccolta Sersale, reggono tutto lo scenario.229

La somiglianza tra le funzioni di questi ‘lazzi’, svariate trame di commedie barocche e rinascimentali e i meccanismi impiegati dagli autori di romanzi e novelle lascia ipotizzare una reciproca contaminazione tra drammaturgia e narrativa anche per quel che riguarda la fortuna della lettera come mezzo di costruzione della vicenda, relazione che auspicabili approfondimenti in campo teatrale permetterebbero di precisare.230

229Ibid.

230 Recoules si augurava di stimolare altri studiosi a indagare le funzioni delle lettere nel teatro

spagnolo del siglo de oro. Alla sua proposta ha risposto CARLOS ROMERO MUÑOZ tramite un articolo sulle Cartas anfibológicas en la comedia clásica española (in «Rassegna iberistica», 74, Febbraio 2002, pp. 3-23) che conferma l’importanza strategica degli equivoci provocati dalle lettera per la costruzione delle trame teatrali.