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Lo spettacolo della parola scritta

Capitolo 3: La scrittura esibita

7) Lo spettacolo della parola scritta

Altro eccesso tipico dei romanzieri si riscontra sul piano dell’elaborazione stilistica delle lettere. I manuali raccomandavano di non esagerare con le figure retoriche e di mantenere uno stile schietto, simile a quello della conversazione tra amici,322 ma la sintassi naturale e lo stile mediano, opportuni nella vita quotidiana, sembravano a volte troppo sciatti e inappropriati alla dimensione idealizzata e iperletteraria del romanzo, dove era lecito fare delle lettere una vetrina di ostentazione retorica.

La tendenza a eludere la regola della moderazione interessava anche le raccolte epistolari, qualora vi prevalesse l’intenzione letteraria su quella pratica di fornire modelli per l’uso quotidiano. Ferrante Pallavicino, nell’introduzione alla

320 A. S

ANTACROCE, L’Assarilda, cit., pp. 135-136.

321Ivi, p. 132. 322 L. M

propria raccolta di lettere amorose, rivendicava ad esempio il diritto dello scrittore a usare lo stile concettoso nelle lettere composte con intenti artistici, scrivendo:

Nel solo particolare delle lettere stimo necessario l’avvertire che sono state fatte, scritte e stampate nel tempo stesso. Avranno se non altra opposizione quella dell’essere nello stile troppo elevato che non può esser facile ad intendersi da donne alle quali si scrive. Ricordaranno subito i critici che la lettera amorosa deve esser intessuta solo d’affetti familiari, con l’orditura di concetti chiari de’ quali possa esser capace l’intendimento d’una femmina. Ciò conosco benissimo anch’io, ma non manca scudo per difendermi, mentre si consideri che altrimente scrive l’affetto e altrimente detta l’ingegno. Un innamorato in propria causa parlarà e scriverà con forme le quali compliranno al suo interesse. Quando anche si trattasse di servire ad un tale, saprei anch’io aggiustarmi all’occasione e al tempo. Io ho scritto per compiacere a’ lettori virtuosi i quali, se non truovano qualche concetto o sentimento spiritoso lontano dall’intelligenza comune, credono consumato il tempo in simile lettura. Insomma, chi scrive per i letterati non deve curarsi d’esser inteso dalle donne o dagl’ignoranti. E poi non stimo le dame alle quali scrivo d’intelletto così dimesso che non possa sollevarsi fuori dell’ordinario nel penetrare i sentimenti d’un amante, il quale distilla gli spiriti più vivi del cuore e dell’ingegno.323

Se lo stile artificioso poteva essere lecito nelle raccolte, tanto più era permesso adottarlo all’interno dei romanzi, dove le lettere non erano tenute per consuetudine ad avere legami con la pratica reale. Come frammenti letterari incastonati nella narrativa, scopo delle lettere era aprire una parentesi preziosa in conformità o in contrasto con lo stile della cornice, obiettivo che poteva essere raggiunto impiegando diverse forme di prosa barocca. La principale differenza riguardava la sintassi, ampia e ricca di subordinate o ‘laconica’ e tendente alla paratassi.

Uno stile colmo di artifici retorici ma fluido è quello esibito, per esempio, dalle lettere contenute nella Regina sfortunata di Carlo Torre che, imitando la poesia dell’epoca, ricavano da un’unica metafora una schiera di deduzioni argute. Clorilda, regina di Borgogna, spiega a Ermindo di essere stata allevata presso la

323 F. P

ALLAVICINO, Panegirici, epitalami, discorsi accademici, novelle e lettere amorose, Venezia, Appresso Gio. Battista Cester, 1652, pp. 7-9.

corte di Cipro e protetta dalla sovrana di quell’isola. Racconta così del giorno in cui un barone cipriota innamorato di lei decise di inviarle una dichiarazione:

Passarono alcuni giorni senza novità alcuna, quando incontrata mi vidi da un paggio che inchinandomi presentommi una carta piegata. Io, pensando che fosse lettera inviatami dal mio creduto padre, l’accettai con allegrezza, licenziando subito il latore per aver agio di leggerla. Allora, apertala, ritrovai queste parole:

Al mio bellissimo nume,

io credei sempre che ’l tuo bel viso fusse un cielo di delizie, e veggio ch’egli è un giro stellato sì, ma prodigioso. Le fiamme ch’appaiono mentre mi ti faccio palese accompagnate dalle tue chiome d’oro mi formano una stella crinita, e stabilisco che siano tali mentre le vedo camminare sulla via lattea de’ tuo viventi avori, come è opinione de’ più periti astrologi. Il continovare che fanno, accennano a’ miei desiri un esito molto infelice, essendo natura delle comete di ritrovare l’occaso o ne’ sette o negli ottanta giorni dopo la nascita. Sarebbono mai l’anima de’ miei pensieri da te cortesemente ricettata, come l’anima di Cesare apparsa dopo la di lui morte in forma di stella in cielo, così creduta da quegli ingegni accecati che allora viveano? Ah, che comparendo quelle fiamme vicine agli archi delle ciglia ed agli strali degli occhi mi denunciano una guerra crudele, non già un loco eterno per poter vivere. O lucidissima stella, ancorché per me fatale, ti prego a non comparire a’ miei lumi così immobile e altera, ma tremolando con un cortese adocchiarmi, chiamami nella tua grazia, che vedrai quanto fedele ti sia il cuore del figlio del

Barone di Cipro. Subito letta la feci in mille pezzi, e veggendomi così alla gagliarda stimolata, ne diedi parte alla regina. Ella male intendendo il successo arrossì, tutta di colera si scompose considerando poco osservata la reverenza con le sue dame.324

Come suggerisce il confronto con gli stralci di narrazione che precedono e seguono la lettera, lo stile piano usato dalla regina nel raccontare la propria storia contrasta con quello molto elaborato del brano epistolare, secondo l’abitudine, seguita da alcuni autori, di creare uno scarto tra la voce del narratore e la scrittura dei personaggi.

L’esempio più noto di tacitismo stilistico in versione epistolare è quello offerto dalle lettere contenute nelle novelle di Giovan Francesco Loredano, caratterizzate da frasi concise e solenni sentenze,325 ma i tratti salienti di questo stile possono essere riconosciuti anche nelle opere di molti altri autori, come,

324 C. T

ORRE, La Regina sfortunata, cit., pp. 160-162.

325 D. C

ancora a fine secolo, Giovan Maria Muti. La Gismonda, pubblicato nel 1687, riflette da una parte l’aspirazione al rinnovamento della narrativa del tardo Seicento e dall’altra la difficoltà ad abbandonare alcuni stereotipi barocchi. La vicenda ruota intorno ai crimini e ai problemi giudiziari della diabolica coppia formata da Gismonda e dal suo amante Arimeno, legati dalla passione e continuamente in fuga da una parte all’altra d’Europa. La struttura del racconto, basata su un unico filone narrativo e sulla centralità di un numero ristretto di personaggi, assieme all’ambientazione realistica e contemporanea, si discosta molto dall’impianto centrifugo e fantasioso del romanzo eroico-galante. Il tema della donna corrotta e lussuriosa, benché privato delle componenti storiche che fino ad allora lo avevano accompagnato, ossessionava tuttavia gli scrittori già dalla prima metà del secolo, così come comuni erano il gusto per le peripezie e per i travestimenti. Ma è soprattutto sotto il profilo stilistico che Muti manifesta di dipendere ancora da una concezione seicentista della narrativa. Nonostante il relativo realismo di alcuni aspetti della vicenda, i personaggi tendono infatti a esprimersi in una maniera estremamente articolata e letteraria, con un eccesso di immagini preziose particolarmente evidente nelle lettere, che l’autore definisce «succosi concetti» e «laconismi amorosi». I periodi dei brani epistolari si distinguono infatti per la frammentarietà della sintassi e per la prevalenza della paratassi, come nell’esempio seguente:

Madama,

il chieder soccorso alla bellezza è un tributo che si fa alla venerazione de’ grandi, ma il ricusare le suppliche ostenta disprezzo ne’ riscontri del merito. Credei appropriarvi il carattere di nume col disporvi alle grazie, ma trovo essermi abbattuto in un idolo di macigno nella stupidezza del moto. Ma parlando io con le preghiere, spero vedervi pietosa nel comunicarmi le grazie. V’amo con tutto lo spirito, o bella, ed i voli del mio fuoco desiano annodarsi con una sfera sì cara. Parlo di nodi perché mi glorio de’ vostri lacci, e sospirerò un’onorata catena, acciò con i sponsali del cuore godino in una libertà prigioniera i nostri corpi. Questo brama per vivere perpetuamente felice

Leardo.326

La ricerca di effetti sensazionali attraverso il ricorso allo stile conciso raggiunge l’apice nei biglietti di misura ridottissima ma di grande impatto formale che si incontrano talvolta in romanzi, come nel Cordimarte (una lettera del protagonista recita: «Se quel ch’io debbo mettere in opera co’ fatti non posso pienamente esagerarlo con parole, doverà ben esser perdonata la scarsezza di questo foglio»)327 e in novelle: la lettera d’addio del conte di Dresna alla principessa di Servia, protagonisti della Novella vigesimaquinta di Girolamo Brusoni compresa nella terza parte delle Cento novelle amorose si riduce a un’unica, drammatica, frase nominale:

Madama,

Dalle stanze alle camere, dalle camere alle danze, dalle danze alle carceri, dalle carceri alle ceneri.

Il Conte di Dresna.328

Trasversale alle due tipologie era il massiccio ricorso a tropi, antitesi, figure di parola, anafore, ripetizioni, parallelismi interni, domande retoriche, tutto ciò che allontanava il testo dall’oralità. Nella scelta delle metafore gli scrittori attingevano solitamente al repertorio poetico, riflettendo le tendenze della lirica contemporanea, e come accadeva nella poesia concettista, immagini e accostamenti potevano risultare alquanto bizzarri. La duchessa Rosalba, la cui storia è raccontata nella Regina sfortunata, paragona per esempio le promesse

326 G.M. M

UTI, La Gismonda, cit., pp. 202-203.

327 G. A

RTALE, Il Cordimarte, cit., p. 70.

328 G. B

fallaci di Ermindo all’anello gettato da Policrate di Samo nel mare del disprezzo, e la propria vendetta al pesce che saprà restituirglielo.329

Comune era anche la costruzione di metafore basate sulle caratteristiche materiali delle lettere, secondo un procedimento analogo a quello seguito in presenza di eventuali regali. Le diverse qualità degli oggetti inviati in dono erano interpretate nei messaggi d’accompagnamento come simboli dei sentimenti provati dal mittente o come auspici di felicità e dolori venturi. Esemplare per la complessità dei rimandi tra la dimensione concreta del dono e quella metaforica descritta nella lettera è la corrispondenza tra Andrispino e Silviana nelle Cene del

principe d’Agrigento di Carlo della Lengueglia, ove con stupefacente accumulo di

concetti il dono di una rosa si trasforma in geroglifico di galanterie. Il narratore racconta che

Silviana, per autenticare di essere l’erario di Andrispino, volse quindi a poco tempo con una ciocchetta de’ suoi capelli mandargli parte del suo tesoro. Avea con bella cifra dell’intessute sue chiome formato il nome del caro e posto come su foglio sopra una rosa, volendo con quei pochi caratteri che valeano per molti spiegare una bellezza che ne val mille, e accompagnò il ricchissimo dono con questa lettera:

Mi chiedeste in dono qualche cosa del mio e, ricercando poi che donarvi, ebbi a caro non potervi ubbidire, già conoscendomi tutta vostra. Saltommi il cuore nel petto com’egli bramasse venire in dono; ma raccordandogli i suoi lacci, ben s’avvide ch’io non poteva più mandarlo come dono, ma rimetterlo come preda. Fra tanto una ciocchetta de’ miei capelli, promossa nella sua pretensione de’ favori del vento, venendomi sopra gli occhi parve dicesse: «Mandatemi, ch’io son libera». Stetti sospesa, dubitando non mi tacciaste di troppo avara, che mandando capelli fossi ne’ doni così sottile. Poi, sovvenendomi che mi chiamaste unica vostra Fortuna, ho voluto che mi abbiate per i capelli. Vengono stesi sopra una rosa e portano il vostro nome in cifra e, volendovi ammirato da tutto il mondo, vi pongo sull’occhio di primavera. Ahi no, in questi caratteri v’impicciolisco, perché vorrei farvi invisibile agli occhi di tutto il mondo, e qui scrivendovi oscuramente, i tessuti anelli delle mie chiome, emulatori di quel di Gige, in qualche parte v’asconderanno. Il vostro nome pungente mi fa credere che avreste siffatto dono ben custodito: poiché la rosa dassi in custodia alla spina e io, che non bramo altro se non fiorire della vostra memoria, mando di me questo fiorito raccordo che spira per odori la mia divozione. Accettatelo, né il condannate per vile, che dandovi ciò che porto sul capo nulla potrei darvi di più sublime. Amatemi com’io v’amo,

Silviana.330

329 C. T

ORRE, La Regina sfortunata, cit., p. 86. Nella risposta Ermindo spiega che «Un cuore che ama sinceramente non mai concede il passo al carro dell’ingratitudine».

Nelle parole di Silviana, lettera e regalo appaiono complementari, formando nel loro insieme un complicato emblema: il messaggio serve a chiarire il senso del dono, che a propria volta fornisce al testo un punto di partenza per l’elaborazione di ingegnosi concetti.

Nel caso di Silviana e Andrispino l’oggetto da cui scaturiscono tropi e figure è un fiore, mentre in altri può trattarsi di un gioiello, di una stoffa, di un dipinto o di altro ancora. Spesso però, come si è detto, è la lettera stessa, come oggetto materiale, a fornire lo spunto dell’arguzia. I diversi elementi necessari alla scrittura, concreti come la penna, la carta, l’inchiostro, o astratti come i pensieri e l’elaborazione linguistica, stimolano la fantasia degli autori dando vita a immagini più o meno originali. L’inchiostro, per essere liquido, può essere accostato al sangue o alle lacrime, e per essere nero può essere presagio di dolore o antitesi di chiari sentimenti. La penna, fatta di ferro e di piume, può alludere alle spade, alle frecce, oppure alle ali di un uccello, nella fessura del pennino può rimandare alle piaghe del corpo e dell’anima, come spiega Osminda in una lettera a Cordimarte, suo feritore in duello:

Non istupire, o ingrato, che una mano anzi che un cuore da te ferito ti scriva, poiché viene a rimproverarti anche con una penna, che non può scrivere se non è bipartita prima da pungentissimo acciaio, né spande sulle carte (simbolo della tua leggierezza) fuor che neri inchiostri, acciò che vestita di lutto voglia far l’esequie dell’estinta tua fedeltà. Giungono avanti agli occhi tuoi queste linee per annunciarti che la tua vitale averà omai sotto l’inevitabile ferro del mio rigore ad esser troncata.331

La tendenza a vedere nella lettera-oggetto una fonte simbolica di sensi sovrapposti a quelli della lettera-testo scavalca i confini del testo e si ripercuote

330 C

ARLO DELLA LENGUEGLIA, Cene del Principe d’Agrigento, Venezia, Presso Gio. Giacomo Hertz, 1649, pp. 79-82.

331G. A

sui narratori, che spesso considerano anche la scrittura e la lettura di una lettera da parte dei personaggi un’occasione per esibire il proprio ingegno. Persino i più remoti punti di contatto tra l’atto dello scrivere e la situazione contingente possono servire a creare metafore, come nella scena del biglietto scritto da Ruremondo all’amata contessa:

Non poteva più l’animo di Ruremondo in questa lontananza gravido d’infiniti pensieri capirne tanti, ebbe risoluto di depositarne parte sopra un foglio e sì come funesti mandarli tra que’ caratteri vestiti a bruno. Infelice penna che dettò questa lettera, svelta cred’io dall’ali di qualche corbo per l’accidente mortale che portò seco. Ma la Fortuna, che si vanta di far miracoli, volle con una cosa così leggiera com’è una penna mandarle una sciagura così grave com’è la morte.332

I pensieri che agitano la mente di Ruremondo, preoccupato per la salute della donna, sono rappresentati come oggetti concreti che possono essere depositati tramite la scrittura su un foglio. Il colore dell’inchiostro è un segno di lutto, così come l’uso della penna che, richiamando la figura del corvo, è visto come presagio dei pericoli che incombono sulla sorte della contessa. Della Lengueglia carica il commento di arguzie allo scopo di rendere più solenne il passaggio e di esibire la propria eloquenza.

Esistono poi esempi di metafore meno stereotipate e più maliziose. Ferrante Pallavicino, con la solita audacia, parla delle le lenzuola del talamo come del foglio su cui, «con affettuosi tratti», Venere risponde alla proposta di Marte di far pace e ritornare amanti.333 Il massimo dell’amplificazione retorica sul tema della lettera è raggiunto però anche in questo caso dal Muti della Gismonda, che si compiace di inventare nel romanzo sequenze di metafore sempre più stravaganti:

332 C. D

ELLA LENGUEGLIA, Il Principe Ruremondo, Venezia, Ad instanza del Turrini, 1651, p. 82.

333 F. P

Nel ricevere il foglio d’Arimeno corse tosto il cuore sulle pupille per ravvisarne gl’abbozzi. Lo lesse e tra quelle linee provava l’anima mille amorose torture. «Sì, vita», diceva, «confesso l’ardore delle mie fiamme senza che con tante righe tu mi ponga alla corda.» Indi, affiggendovi con le pupille un bacio, soggiungeva: «Mira, caro, come contrappunto le tue scritture. Con questi sensi si gloriano l’acutezze del genio. Voglio che i scherzi della tua mano venghino applauditi dal brio del mio labbro.» Tosto scorrendolo di nuovo col guardo concettizzava con tali amorosi deliri: «Come giungesti opportuno, amatissimo foglio, a rasserenare co’ tuoi candori l’ombre della mia mente. Che bel spazio mi manda Amore in questi foglietti di latte. Ah, che senza questa carta da navigare già davo in secco nella rottura delle mie speranze! Questi sono stracci che, se bene animati dal fuoco, non vanno all’aria. Adesso sì, che viaggerò ne’ spazi immaginari delle mie idee con sì amabili cosmografie. Tu sarai il libro doppio nelle partite de’ godimenti. Con questo alfabeto formerò le più belle eleganze nella grammatica de’ miei affetti. Oh come dai bando alle tempeste de’ miei pensieri! Candido araldo di gioie, sì che mi mostri le capitulazioni per la mia pace. Che belle intelligenze van raggirando su queste strade di latte. Come mi sei caro, o quanto dolcemente ti bacio, caro pegno della sua fede, fido deposito de’ suoi sospiri.»

In tal guisa isfogava l’impudica le sue lascivie con una carta. Non avrebbe Gismonda valutato quel foglio a peso d’oro. E pure niente più galleggia sulle bilance del tempo quanto la leggerezza d’un foglio.334

La fantasia dell’autore è disposta a cercare nelle carte, nelle penne e negli inchiostri inesauribili motivi di nuovi concetti, come se le raffinatezze del testo epistolare non bastassero da sole ad appagare la sua ingordigia esornativa. Il caso di Muti è forse estremo, ma rappresentativo delle opportunità offerte dalla lettera di arricchire la cornice narrativa anche come oggetto, oltre che come testo.

334 G.M. M