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Lingua cinese, lingue cinesi: storia e società

IL TAMIL E LE LINGUE DRAVIDICHE

Popolazione 8 gruppo meridionale

2. Lingua cinese, lingue cinesi: storia e società

Con l’etichetta “cinese”, in italiano (così come in molte altre lingue: si pensi al francese chinois, o al tedesco Chinesisch) si intende normalmente il cinese moderno standard, la lingua ufficiale della Repubblica Popolare Cinese, con riconoscimento anche in altri territori di lingua cinese, come * Il lavoro, frutto di un’impostazione comune, è da intendersi così ripartito: Giorgio Francesco Arcodia ha scritto i §§

1, 2 e 3, mentre Bianca Basciano ha scritto i §§ 4 e 5. Per il cinese standard, usiamo i caratteri semplificati (in uso nella Repubblica Popolare Cinese e a Singapore) e il sistema di trascrizione Pinyin. Le glosse seguono i principi generali delle Leipzig Glossing Rules (si veda l’elenco generale delle abbreviazioni).

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Taiwan e Singapore. Questo “cinese” è la varietà che viene normalmente insegnata nelle scuole e nelle università cinesi (con qualche eccezione), la varietà a cui sono riservati gli usi ufficiali, e la varietà dominante nella comunicazione di massa. Questa varietà è il prodotto di un processo di standardizzazione, portato avanti prevalentemente nella prima metà del Novecento, esplicitamente finalizzato alla “creazione” di una lingua nazionale, che potesse fungere da sistema unitario per un paese, la Cina, storicamente molto frammentato dal punto di vista linguistico. Non è un caso che, nei documenti ufficiali (tra cui il più importante è forse la “Legge sulla lingua cinese parlata e scrit- ta” del 2000), questo cinese standard venga definito 普通话 Pǔtōnghuà, ovvero “lingua comune”, basato sul dialetto di Pechino (ma non identico ad esso), ovvero un dialetto del gruppo mandarino (si veda più avanti), e sulla grammatica delle opere letterarie settentrionali2.

Il 普通话 Pǔtōnghuà nasce, sostanzialmente, senza parlanti nativi. Saranno la scuola e i mass

media a favorire la sua diffusione in una popolazione prevalentemente dialettofona: secondo

un’inchiesta del 2004 (Wang, Yuan 2013, 36), ancora nei primi anni del XXI secolo poco più della metà della popolazione cinese dichiarava di avere una competenza attiva del cinese stan- dard. Per quanto questa percentuale sia sicuramente cresciuta molto negli ultimi anni, ancora nel 2014 ben il 30% della popolazione non era in grado di parlare in 普通话 Pǔtōnghuà, secondo una rilevazione del Ministero dell’Istruzione della Repubblica Popolare Cinese3. E, nonostante le politiche del governo cinese in favore della diffusione del cinese standard, i dialetti restano ancora piuttosto vitali nel mondo di lingua cinese, anche se con importanti differenze regionali. Tra tutte le lingue cinesi diverse dallo standard, spicca il cantonese, l’idioma della città di Canton (广州

Guǎngzhōu in cinese): questa varietà può essere considerata la più “forte” tra i dialetti cinesi, in

quanto sostenuta da una tradizione molto solida, e con un notevole appeal culturale. Il “successo” del cantonese dipende in larga misura dal fatto che sia la lingua più parlata della Regione Ammini- strativa Speciale di Hong Kong, importantissimo centro di produzione cinematografica e musicale (soprattutto, il genere di musica popolare hongkongese denominato “Cantopop”). Non è un caso che il cantonese sia l’unica lingua cinese diversa dallo standard che viene insegnata nell’università italiana.

Se vogliamo, la storia linguistica cinese e quella italiana sono davvero molto simili: anche in Italia, come sappiamo, è esistita per secoli una lingua standard (l’italiano “bembiano”) soprattutto scritta, che si è affermata nel parlato solo in tempi relativamente recenti, grazie all’azione della scuola e dei mezzi di comunicazione di massa. Anche la popolazione italiana, infatti, era perlopiù dialettofona, e i dialetti restano molto usati, perlomeno presso alcuni settori della popolazione (si pensi anche, ad esempio, alla fortuna delle produzioni cinematografiche, televisive e musicali in napoletano). Inoltre, sia nel contesto cinese che in quello italiano, la padronanza della lingua stan- dard è certamente variabile da individuo a individuo e, soprattutto, “colorata” da caratteristiche regionali. Così come, sentendo un milanese parlare italiano, siamo generalmente in grado di perce- pire tratti fonologici, grammaticali e lessicali caratteristici (ad esempio, l’uso dell’articolo davanti ai nomi propri), anche i cinesi parlano il 普通话 Pǔtōnghuà con caratteristiche locali. E, come in Italia (pensiamo alla recente polemica su scendi il cane), allontanarsi dallo standard è spesso valu- tato in maniera negativa dalla comunità dei parlanti.

La situazione cinese, oltre alle numerose somiglianze evidenziate sopra, ha però anche una ca- ratteristica che la differenzia marcatamente da quella italiana: per quasi quattro millenni, le varietà cinesi sono state scritte con dei caratteri logografici. L’italiano, così come la quasi totalità delle lingue del mondo, utilizza un sistema di scrittura fonografico (l’alfabeto latino), dove i grafemi (le lettere) registrano i suoni della lingua. In un sistema logografico come quello cinese, ogni carattere 2 I nomi più comuni per riferirsi al cinese sono però 中文 Zhōngwén e 汉语 Hànyǔ.

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scritto rappresenta una sillaba e, nella stragrande maggioranza dei casi, un’unità di significato. Ad esempio, i caratteri 桥 qiáo “ponte” e 瞧 qiáo “guardare” sono perfettamente omofoni, come possiamo vedere dalla trascrizione; tuttavia, nella loro forma scritta non possono essere confusi, in quanto, come si può evincere dalle traduzioni fornite, ciascuno di questi due caratteri è associato ad un significato proprio. In italiano, le parole omofone sono perlopiù anche omografe: fuori da un contesto, miglio potrebbe indicare sia l’unità di misura che il cereale. In termini pratici, questo vuol dire che la scrittura cinese si presta bene come mezzo di comunicazione scritta che possa, in qualche modo, oltrepassare le barriere dialettali. Per fare un paragone, possiamo immaginare una situazione in cui un parlante italiano, vedendo la parola latina caballus, la legga come cavallo, mentre un francese la legga come cheval, e un portoghese come cavalo. Allo stesso modo, un ci- nese di lingua cantonese, ad esempio, quando incontra la parola 解决 jiějué “risolvere”, la potrà leggere come gáaikyut, che è la parola cantonese corrispondente. Così, ben prima della diffusione del cinese standard, la lingua scritta è stata per millenni un collante fondamentale della nazione cinese, indipendentemente dalla diversità dialettale.

Dal punto di vista genealogico, il cinese fa parte di una famiglia molto ampia di lingue, deno- minata “famiglia sino-tibetana”, che comprende oltre 400 lingue, diffuse in un territorio compre- so tra l’Asia meridionale, orientale e sud-orientale: ad esempio, il birmano e le varietà tibetane. Tuttavia, il cinese moderno occupa una posizione molto particolare tra queste lingue, in quanto le sue caratteristiche sono davvero lontane da quelle delle altre lingue sino-tibetane: generalmente, il cinese è considerato un ramo indipendente e ben distinto nell’albero genealogico di questa fami- glia. Dal punto di vista fonologico e grammaticale, il cinese è piuttosto vicino a lingue del sud-est asiatico quali il vietnamita o il thai, con le quali però non ha legami di parentela: si suppone che queste somiglianze siano dovute ad una lunga storia di contatti tra le popolazioni parlanti questi idiomi. Inoltre, il coreano, il giapponese e il vietnamita, che non sono lingue sino-tibetane, hanno una quantità molto elevata di elementi di origine cinese nel loro lessico: questo è dovuto al presti- gio della cultura cinese, e del cinese classico (il “latino della Cina”, per intenderci), nella storia di diverse civiltà dell’Asia orientale.

Il ramo cinese (o “sinitico”) della famiglia sino-tibetana comprende dunque il cinese standard e un numero molto elevato di dialetti. Le lingue cinesi possono essere suddivise in dieci (macro-) gruppi, ognuno contenente al suo interno un’ampia varietà di dialetti, non di rado abbastanza diversi da rendere difficoltosa (o anche impossibile) la comprensione reciproca. Li riportiamo di seguito, con un’indicazione della consistenza della comunità dei parlanti (in termini assoluti e percentuali).

Tabella 1. Le principali suddivisioni interne delle lingue cinesi (adattato da Chappell 2015, 15).

Gruppo N. di locutori (milioni) % di locutori

Mandarino 799 66,2% Jin 63 5,2% Xiang 36 3,0% Gan 48 4,0% Hui 3,3 0,3% Wu 74 6,1% Min 75 6,2% Hakka 42 3,5% Yue 59 4,9% Pinghua e Tuhua 7,8 0,6%

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Come si può vedere dalla Tabella 1, i dialetti mandarini sono il gruppo dialettale con il numero di gran lunga più elevato di parlanti. Come accennato sopra, il dialetto pechinese è parte del gruppo mandarino, e il cinese standard è il prodotto dell’elaborazione di parlate mandarine (così come l’italiano è basato su varietà toscane): si parla infatti anche di “cinese mandarino” (ingl. Manda-

rin), per distinguere la lingua standard dagli altri dialetti. Inoltre, i dialetti mandarini sono quelli

distribuiti su di un territorio più ampio, come possiamo vedere nella Figura 1.

Figura 1. Mappa della distribuzione geografica dei gruppi dialettali cinesi4.

Sostanzialmente, i gruppi dialettali non mandarini sono distribuiti quasi esclusivamente nella re- gione centro- e sud-orientale della Cina. Nonostante la maggiore diffusione delle parlate manda- rine, non possiamo non notare che la maggior parte degli altri gruppi dialettali contano decine di milioni di locutori, e non sono quindi trascurabili. In particolare, i dialetti del gruppo Wu hanno un ruolo importantissimo nella storia della comunità cinese in Italia.

I membri del primo nucleo di migranti cinesi in Italia, stabilitisi inizialmente a Milano negli anni Venti, provenivano infatti quasi esclusivamente dalla provincia dello Zhejiang, dominata dai dialetti Wu. Fino ai primi anni Novanta, la comunità migrante cinese era costituita prevalentemen- te da migranti provenienti da tre aree dello Zhejiang, ovvero: le contee di Qingtian e Wencheng, 4 Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Map_of_sinitic_languages_full-it.svg; autore: Wyunhe; traduzio-

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e l’entroterra della città di Wenzhou (Ceccagno 2003; Cologna 2003; 2004). Questo implica che, per lungo tempo, la comunità cinese è stata (e, in parte, è ancora), linguisticamente molto omoge- nea, e i dialetti delle aree menzionate sopra hanno avuto la funzione di lingue di comunicazione interdialettale per i cinesi d’Italia, anche “usurpando” la funzione del cinese standard. Pur in as- senza di rilevazioni recenti, possiamo affermare che i cinesi dello Zhejiang restano ancora oggi il gruppo più consistente nella comunità sinofona d’Italia. Tuttavia, a partire dagli anni Novanta, si è verificato un allargamento del bacino di provenienza dei migranti cinesi: in particolare, dalla pro- vincia del Fujian, dominata dai dialetti min, e del Liaoning, provincia del nordest linguisticamente mandarina (i cui dialetti, quindi, sono molto più vicini al cinese standard). Una conseguenza di questa diversificazione è stata, prevedibilmente, un ruolo più importante del 普通话 Pǔtōnghuà come elemento di coesione della comunità. In particolare, indagini sociolinguistiche nelle comu- nità di Prato (Ceccagno 2004) e Roma (Pedone 2006) hanno evidenziato come le generazioni più giovani tendano ad apprezzare e ad usare il cinese standard (e, ovviamente, l’italiano) più dei loro genitori, a scapito dei dialetti parlati in famiglia. Naturalmente, un elemento di discrimine impor- tante è dato dal percorso scolastico: le ragazze e i ragazzi che non hanno frequentato la scuola in Cina per un periodo sufficientemente lungo, o che non l’hanno frequentata per niente, tendono ad avere meno familiarità con il cinese standard, particolarmente nella forma scritta (che richiede un addestramento piuttosto lungo).

Dunque, semplificando molto i termini della questione, per i cinesi d’Italia possiamo pensare ad un repertorio linguistico che varia a seconda della generazione di appartenenza e del percorso formativo: i migranti provenienti dalle aree fortemente dialettofone dello Zhejiang, con un livello di scolarizzazione basso, che hanno come principale codice di riferimento il loro dialetto; i cine- si più istruiti, e/o provenienti da aree dove è comune l’uso del cinese standard (o, almeno, di un dialetto mandarino), per cui il 普通话 Pǔtōnghuà ha una grande importanza; i cinesi più giovani, scolarizzati interamente o prevalentemente in Italia, che si affidano principalmente all’italiano, pur mantenendo spesso una competenza (variabile) di uno o più dialetti, o del cinese standard (si veda Ceccagno 2003). La questione delle competenze e delle preferenze linguistiche dei sinofoni, peraltro, diventa rilevante nel contesto tipico delle comunità migranti cinesi, dove è visibile una tendenza ad identificarsi, innanzitutto, con il proprio gruppo geodialettale: questo sembra ancora più vero per quel segmento della comunità per cui il dialetto è l’opzione preferenziale.

Per concludere, pare opportuno menzionare un’altra dimensione fondamentale della diversità linguistica nella Cina contemporanea: la Repubblica Popolare Cinese riconosce ben 55 minoranze etniche, ovvero, cittadini cinesi appartenenti ad etnie diverse dalla maggioranza Han (i “cinesi” a cui siamo abituati) come gli uiguri, i tibetani, o i mongoli. Oltre cento milioni di cittadini cinesi sono parte di una minoranza etnica, e vi sono ben 125 lingue minoritarie riconosciute dallo stato cinese: si pensi che una lingua “minoritaria” come l’uiguro conta oltre dieci milioni di parlanti (Eberhard, Simons, Fennig 2019).