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Capitolo 2. La responsabilità civile degli amministratori della S.r.l.

2.8 Liquidazione del danno

Dopo aver visto cosa si intenda per danno risarcibile, vediamo quali sono le modalità per procedere alla liquidazione del danno, una volta che è stata accertata la sua sussistenza. La modifica introdotta dall’art. 378 c.c.i. all’art. 2486 c.c. ha portata sostanziale, ponendosi così la questione se i criteri sino ad allora applicati sulla base delle indicazioni rinvenienti dalla Corte di Cassazione non trovino più applicazione oppure possano venire in evidenza quale oggetto di prova contraria degli organi sociali, di gestione e di controllo, che saranno soggetti a giudizio di responsabilità. Per la quantificazione del danno, occorre fare riferimento alle norme di portata generale dettate in materia di danno risarcibile all’art. 1223 c.c., il quale fissa il contenuto dell’obbligazione risarcitoria: nella perdita subita (c.d. danno emergente) e nel mancato guadagno (c.d. lucro cessante), che siano conseguenza immediata e diretta di un comportamento illecito. Dunque, il danno risarcibile dev’essere determinato sulla base delle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate ad amministratori o sindaci e deve essere calcolato in misura pari alla diminuzione patrimoniale effettivamente sofferta dalla società.

Quindi, al fine di procedere alla verifica di quale sia la concreta conseguenza di una condotta amministrativa o sindacale pregiudizievole, è necessario scindere:

- l’accertamento della connessione tra comportamento ed evento dannoso; - dall’accertamento del danno risarcibile, attraverso una comparazione tra la situazione che si è verificata in conseguenza dei fatti identificati e la situazione che si sarebbe verificata in loro assenza.

Il danno risarcibile di amministratori e sindaci è quello causalmente riconducibile alla loro condotta colposa o dolosa.

Tale limite comprende, secondo i principi generali, il danno emergente ed il lucro cessante, dovendo essere in concreto commisurato al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, attivo od omissivo, non fosse stato posto in essere.

Nel tempo si sono affermati e sono stati smentiti numerosi orientamenti sul tema della

quantificazione del danno nel corso di un’azione di responsabilità fallimentare. È necessaria una distinzione a seconda del tipo di contestazione che venga mossa da una

- Nel caso in cui ad amministratori e sindaci siano imputate condotte distrattive, il danno normalmente coincide con l’importo o con il valore del bene distratto; - Quando oggetto delle censure mosse ad amministratori e sindaci sia un’attività protratta nel tempo, eventualmente articolatasi in diversi anni ed in numerose attività, non tutte dannose, ma difficilmente separabili le une dalle altre, la giurisprudenza ha elaborato, nel corso del tempo, tre criteri di quantificazione del danno:

1. Il criterio tradizionale del patrimonio netto fallimentare; 2. Il criterio della differenza tra patrimoni netti;

3. Il criterio equitativo.

Il primo identifica il danno imputabile agli amministratori ed ai sindaci nella differenza tra attivo (realizzato e realizzabile) ed ammontare dei crediti ammessi nello stato passivo patrimoniale accertato nel corso della procedura concorsuale. Questo metodo manca di oggettiva coerenza con le disposizioni codicistiche in materia di risarcimento dei danni, infatti si limita a determinare il danno tramite un calcolo aritmetico, non tenendo conto del nesso di causalità tra la condotta degli amministratori o dei sindaci e il danno effettivamente provocato.

Le Sezioni Unite di Cassazione, con la sentenza 6 maggio 2015, n. 9100 hanno notevolmente ridimensionato l’ambito di applicazione di questo criterio, ritenendo che possa “essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove

ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.

Perciò, tale metodo si applica a due sole ipotesi residuali, vale a dire quella di causazione del dissesto, e quella di mancanza od omessa consegna delle scritture contabili.

Il criterio del c.d. patrimonio netto fallimentare può essere utilizzato soltanto ai fini della liquidazione equitativa del danno, ove ne ricorrano le condizioni e purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore.

Quanto al secondo criterio, ossia quello della differenza tra patrimoni netti, questo comporta una comparazione tra la situazione patrimoniale alla data in cui si ritiene sia

avvenuta la perdita del capitale sociale e la situazione patrimoniale fallimentare, considerando quale pregiudizio imputabile la differenza negativa che si registra, al netto o degli oneri che sarebbero comunque maturati in caso di immediata messa in liquidazione della società o delle conseguenze che non avrebbero potuto essere soggettivamente percepite da parte di un diligente amministratore o sindaco.

Secondo questo criterio, assumendo che il capitale sociale sia andato perduto anni prima della dichiarazione di fallimento, occorre procedere a riclassificare il bilancio alla data di ritenuto avveramento di una causa di scioglimento legale e calcolare il patrimonio netto, per poi compararlo, per differenza, con il patrimonio netto fallimentare.

La giurisprudenza di legittimità ha criticato l’applicazione di questo criterio, osservando che “il pregiudizio derivante da specifici atti illegittimi imputabili agli amministratori non

deve essere confuso con il risultato negativo della gestione patrimoniale della società”,

poiché “lo sbilancio patrimoniale può avere cause molteplici non necessariamente

riconducibili a comportamento illegittimo dei gestori e dei controllori della società”.

Ciò, poiché “la concreta misura del danno dipende, spesso, non tanto dal compimento di

uno o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce: ossia da attività sottratte per loro natura al vaglio di legittimità del giudice”124.