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Come la maggior parte delle società barbariche che vivevano alla periferia dell’impero romano il popolo dei longobardi aveva come occupazione principale la guerra291. Essa infatti,

come il succedersi delle stagioni, era considerata una parte fondamentale della vita che avveniva a scadenza ritmica: con l’aprirsi della stagione primaverile iniziavano le spedizioni di saccheggio contro i vicini e nelle ricche terre dell’impero292. Non essendo gli unici a seguire

questo ritmico susseguirsi di guerra e pace, i Longobardi dovevano anche difendersi dalle insidie nemiche, e più volte nel racconto di Paolo Diacono e dell’Origo Genti Langobardorum troviamo il popolo dalle barbe lunghe che si difende contro nemici ben superiori: accade con i Vandali, gli Assipitti, le Amazzoni, i Bulgari, i Rugi, gli Eruli ed i Gepidi293.

Uno fra i tanti popoli che abitavano nel barbaricum, i Longobardi consideravano la guerra come un elemento sacro della vita. Secondo le loro leggende fu lo stesso dio della guerra Godan, (o Wotan, simile, ma non identico, all’Odino norreno294), a donare al popolo dei

290 Del perché ritenga importante introdurre il tema della guerra e dell’organizzazione militare si veda

Guy Halsall, Warfare and society in the barbarian west. Cit. a pp. 9-10. “Warfare does play an important part in

bringing about transformations, and we need to reinstate it into this role” […] “The second reason why warfare should be put in its broader social, economic and political context is not simply because warfare and military matters had an effect on those other issues; it is also because our best way of approaching warfare is through its broader context”, come

cercherò appunto di dimostrare.

291 Philip Contamine, La guerra nel medioevo, il Mulino, Bologna, 1986. Cit. a p. 31. Moro, Quam horrida,

cit. a pp. 15-16.

292 Gina Fasoli, Pace e guerra nell’alto medioevo, in AA.VV. Ordinamenti militari in Occidente nell’Alto Medioevo,

30 marzo – 5 aprile 1967, Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo Spoleto,

XV, Arti grafiche Panetto & Petrelli, Spoleto, 1968. Leggere pp. 15-47.

293 Paolo Diacono, HL, I, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22. E come vedremo più avanti,

una volta insediatisi in Italia contro gli Slavi che penetravano in Friuli.

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Winnili il nome di Longobardi, (lett. dalle lunghe barbe): mito, religione, violenza e storia si

fondevano così nel racconto della migrazione295. La ritualità della guerra era un tutt’uno con

la religione pagana ancora largamente praticata quando questi arrivarono in Italia, fu anzi difficile, per i religiosi cristiani, far abbandonare ai Longobardi riti militari di chiara origine pagana. Non ci deve quindi sorprendere se Paolo Diacono tramanda la leggenda dei cinocefali, (lett. dalla testa di cane), ovvero di guerrieri che per terrorizzare il nemico si vestivano con pelli di cani o lupi296.

I Longobardi subirono largamente l’influsso dei popoli delle steppe: dagli Unni ai Bulgari e infine gli Avari, tutte queste popolazioni ebbero grande importanza nella formazione della pratica bellica e culturale longobarda297. Come per i Goti ed altre popolazioni barbariche

possiamo infatti essere certi nel sostenere che la centralità del cavallo nelle loro culture sia dovuta all’influenza dei popoli nomadi che dal III secolo iniziarono a muoversi dalle steppe Eurasiatiche verso l’Europa298. Il modo di combattere dei nomadi, estraneo al mondo

mediterraneo e basato sul continuo movimento di cavalieri arcieri per il campo di battaglia, seguito da cariche a fondo della cavalleria più pesante, influenzò in parte anche quello dei guerrieri barbarici che vivevano alla periferia dell’impero. Il cavallo divenne infatti un elemento fondamentale della loro cultura guerriera: i soldati combattevano a cavallo, ma l’animale poteva anche essere usato per agevolare il movimento sul campo di battaglia dove il guerriero avrebbe però combattuto appiedato. Il cavaliere assunse così una centralità unica che prima non aveva avuto in queste culture, e così pure l’animale il cui allevamento ed addestramento diventarono segno non solo di ricchezza ma anche di potere militare299.

295 Paolo Diacono, HL, I, 8, 9, 10. Origo Gentis Langobardorum, I. In Azzara, Gasparri, Le leggi dei

Longobardi, cit. a pp.4-5.

296 Paolo Diacono, HL, I, 11: “Fanno credere d’aver nel loro campo dei cinocefali, cioè uomini con la testa di cane;

spargono tra i nemici la voce che costoro combattono senza sosta, bevono sangue umano e, quando non riescano ad agguantare un nemico, si dissetano del proprio sangue”. Il racconto non lascia adito ad incertezze, è questo

senza dubbio una raffigurazione del berserker della cultura norrena. Questi erano élite di guerrieri devoti ad Odino, il dio della guerra e della vittoria, che si “trasfiguravano” in lupi (Hulfednar), animale sacro al dio, o in orsi (Berserker, lett. pelle di orso), vestendosi con le pelli degli animali totem ed assumendo droghe e funghi allucinogeni che ne alteravano la percezione della realtà e ne anestetizzavano i sensi in battaglia. Queste figure sono spesso presenti nella letteratura nordica, dalla saga di Hegill alla Heimskringla saga, dove vengono apprezzati per le loro abilità belliche ma condannati per l’atteggiamento bestiale e privo di umanità. Vedere Franco Cardini, Alle radici della

cavalleria medievale. La nuova Italia editrice, Firenze, 1981. Cit. a pp. 80-86. Interessante anche Christian

Sighinolfi, I guerrieri-lupo nell'Europa arcaica. Aspetti della funzione guerriera e metamorfosi rituali presso gli

indoeuropei, Rimini, Il Cerchio, 2004.

297 Franco Cardini, Alle radici della cavalleria, cit. a pp. 260-261.

298 Per l’influenza dei popoli delle steppe sui Goti in questo caso vedere: W. Pohl, Le origini etniche, cit.

a pp. 101-117. Ed anche Franco Cardini, Alle radici della cavalleria medievale.

299 Essere paragonati a delle cavalle, di contro, è considerato un insulto come leggiamo nell’Historia

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Benché non divennero mai validi cavalieri quanto gli Avari, i Longobardi al tempo del loro passaggio in Italia consideravano le mandrie di cavalli come veri e propri beni di lusso. Così Gisulfo, quando venne eletto come primo duca di Cividale, non scelse solo i migliori distaccamenti di guerrieri ma chiese anche le migliori giumente300. Esempio di quanto il

cavallo e la cultura nomade sia diventata una parte portante delle culture barbariche è la famosissima danza di Totila, re Ostrogoto, che per distrarre l’esercito di Narsete nell’attesa dei rinforzi si esibì in una danza a cavallo in cui mostrò tutta la sua abilità equestre301. Così

anche nell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono gli episodi dove i protagonisti mettono in mostra le loro capacità equestri sono numerose: dalla fuga di Grimoaldo bambino su un cavallo adulto, dopo aver ucciso l’avaro che lo teneva prigioniero, alla carica suicida a cavallo su per un monte del duca Ferdulfo ed il suo esercito302.

L’importanza che il cavallo assunse nella società longobarda non è riscontrabile solo nelle fonti scritte, ma anche in numerosi corredi funebri. In un suo studio Cristina La Rocca mostra come le élites avessero l’intenzione di mostrarsi, anche nel contesto funerario, come parte di un gruppo ristretto di guerrieri a cavallo. Questo status di cavaliere venne espresso in modi differenti: innanzitutto inserendo nelle tombe insieme alle armi anche strumenti di carattere equestre come morsi, selle, briglie e speroni. In alcuni casi anche seppellendo direttamente nella stessa tomba, o in una a fianco di quella del morto, un cavallo303. Così

reminiscenze pagane si fondevano con riti equestri e bellici, come viene raccontato nella Vita

Paolo Diacono, HL, I, 24. “Tunc regis alter qui aderat filius, patris sermone stimulatus, Langobardos iniuriis

lacessere coepit, asserens eos, quia a suris inferius candidis utebantur fasceolis, equabus quibus crure tenus pedes albi sunt similes esse, dicens: “Fetilae sunt aquae, quas similatis”. Da notare quindi che il paragone non viene

fatto come Longobardi codardi= donne, bensì codardi= giumente.

300 Paolo Diacono, HL, II, 9.

301 Procopio, La guerra gotica, IV, 31: “Indossava una corazza [Totila] abbondantemente ricoperta d’oro, e

dalle piastre della corazza, dal copricapo e dalla lancia pendevano fiocchi di porpora e fregi di ogni altro genere, degni di un re e veramente meravigliosi. Egli dunque, montato su un imponente cavallo, si diede a caracollare con destrezza nello spazio fra i due eserciti in una specie di danza armata: fece galoppare il cavallo in un girotondo, poi in senso contrario, e continuò a farlo volteggiare così in cerchio. Mentre cavalcava, gettava per aria il giavellotto e l’afferrava a volo, ancora vibrante, e lo palleggiava abilmente dall’una all’altra mano, con mille evoluzioni. Nell’eseguire questi esercizi, si pavoneggiava, piegandosi all’indietro con le spalle, dondolandosi sulle anche, inchinandosi a destra e a sinistra, come uno che fosse stato accuratamente educato fin da bambino nell’arte della danza”. Vedere anche W. Pohl, Le origini etniche, cit. a p. 101. Numerosi sono anche i casi raccontati da Procopio in cui i campioni dei

due eserciti si sfidano a duello: combattimenti che si svolgono interamente a cavallo dove l’abilità equestre conta tanto quanto quella guerriera, vedere IV, 31.

302 Paolo Diacono, HL, IV, 37, e VI, 24.

303 Cristina La Rocca, Tombe con corredi, etnicità e prestigio sociale: l'Italia longobarda del VII secolo attraverso

l'interpretazione archeologica, 2009, In Archeologia e storia dei Longobardi in Trentino (secoli VI-VIII). Atti del

convegno nazionale di studio. Mezzolombardo 25 ottobre 2008. Comune di Mezzolombardo, Mezzolombardo, pp. 69-70.

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Barbati304. Qui il santo racconta di un rito che praticavano i longobardi di Benevento per

onorare le proprie tradizioni militari: veniva appesa la pelle di un animale ad un albero sacro e, dopo aver caracollato a cavallo intorno alla biscia, i guerrieri correvano al galoppo per afferrare un lembo di pelle del feticcio305.

D’altra parte i Longobardi non imitarono in toto i loro potenti vicini nomadi, non diedero infatti all’arco la stessa importanza che quest’arma aveva presso le popolazioni eurasiatiche, che lo ritenevano lo strumento bellico per eccellenza. Aldo Settia spiega efficacemente il perché i popoli barbarici dell’area germanica non adottassero completamente le tecniche dei cavalieri della steppa. Due sono le ragioni: la prima è mossa da “motivi pratici e socio economici:

le terre coltivate dell’Europa occidentale non consentono l’allevamento di una popolazione equina di grandi dimensioni, e solo pochi uomini sono in grado di mantenersi un cavallo; un motivo antropologico: si tratta di popoli abituati allo scontro ravvicinato con armi da taglio e che rifiutano quindi il combattimento a distanza praticato dai nomadi306”.

Questi incontri/scontri con le civiltà delle steppe non influenzarono solamente i Longobardi e i popoli barbarici oltre il Danubio, bensì anche i Romani307. Dal V secolo in poi infatti la

guerra era ormai divenuta un affare fra cavalieri, in cui i fanti erano sì importanti – Narsete pose fine alla guerra gotica in due battaglie dove la cooperazione fra fanteria pesante ed arcieri a cavallo fu fondamentale308 - ma generalmente arretrati in secondo piano. A farci luce sulle

ripercussioni che il contatto coi nomadi ebbe sull’esercito romano, da sempre molto sensibile all’adattamento ed alle influenze esterne, è l’imperatore soldato Maurizio309. Nella sua opera

304 Vita Barbati, a cura di Marina Montesano, Pratiche editrice, Torino, 1994. I, cit. a pp. 36-37. “At

illi ferina caecati dementia, nihil aliud nisi bellorum meditantes usus, optimum esse fatebantur cultum legis maiorum suorum, quos nominatim bellicosissimos asserebant” “Ma essi, accecati da una pazzia degna di belve, non pensavano ad altro se non alle usanze militari e affermavano essere cosa giusta il rispetto della tradizione dei loro avi che dichiaravano, nominandoli uno per uno, guerrieri molto audaci […]”

305 Vita Barbati, I, cit. a pp. 35-37. Per quanto riguarda il culto del cavallo, vedere anche Gasparri, La

cultura tradizionale dei Longobardi. Struttura tribale e resistenze pagane, Spoleto, 1983, cit. a pp. 69-73 e 81-

88.

306 Aldo Settia, Tecniche e spazi della guerra medievale, Viella, Roma, 2006, cit. a p. 36.

307 Per approfondire il discorso sull’esercito romano, o bizantino, dei secoli VI-VII consiglio la lettura

di Giorgio Ravegnani, Soldati e guerre a Bisanzio, Il Mulino, Bologna, 2009; e sempre Ravegnani, I

Bizantini e la guerra, Jouvence, Roma, 2004.

308 Si parla delle battaglie di Tagina, dove perse la vita il re goto Totila, e dei Monti Lattari, dove

Narsete pose definitivamente fine alla guerra uccidendo il nuovo re Teia e distruggendo l’esercito Ostrogoto.

309 Maurizio fu un grande generale dell’impero riuscendo più volte a sconfiggere i Persiani e a

minacciare la loro capitale Ctesifonte. Nel 582 venne richiamato a Costantinopoli dall’imperatore Tiberio che lo fece sposare con sua figlia e lo dichiarò erede morendo poco dopo. Governando in uno dei periodi più turbolenti nella storia dell’impero riuscì a destreggiarsi fra i numerosi nemici, venendo però poi rovesciato e ucciso dal ribelle Foca. Warren Treadgold, Storia di Bisanzio, Il Mulino, Bologna, 2005. Cit. a pp. 96-101

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militare Strategikon non solo ci fornisce infatti una serie di consigli ed ammonimenti per formare i quadri dell’esercito, ma dedica l’intera prima parte del libro alla cavalleria e alla spiegazione di come debba combattere e schierarsi sul campo di battaglia310. L’autore è più

volte attento nel sottolineare come l’armamento di migliore qualità per i cavalieri sia di derivazione avara e di come sia necessario utilizzarlo. Il cavaliere era ormai divenuto il centro dell’esercito romano, sia nella sua versione leggera armata di arco, che fece strage di Goti311,

sia in quelle medie di cursores e pesante di kataphraktos.

Una volta quindi che i Longobardi entrarono in contatto con l’impero si trovarono di fronte un esercito molto diverso da quello classico imperiale, imperniato come era di armamenti barbarici e avari e composto nella maggioranza da guerrieri Germanici e di popolazioni Medio Orientali. La famosa fanteria pesante delle legioni romane era ormai un lontano ricordo. L’influenza avara sui longobardi fu dunque duplice, inizialmente essa fu diretta ed avvenne a stretto contatto con la confederazione avara, quindi essa fu indiretta, filtrata attraverso l’esercito romano in Pannonia prima e in Italia poi. Symmachoi di Costantinopoli i Longobardi non solo iniziarono a combattere per l’imperatore ovunque fosse necessario, ma vennero anche cooptati nelle gerarchie dell’esercito romano, che permettevano rapide carriere per i soldati che si fossero distinti in battaglia. La vicinanza alla cultura romana influenzò notevolmente la gens longobarda, tanto che iniziarono ad imitare la struttura organizzativa dell’esercito romano, da cui trassero la figura del dux, il duca, comandante militare che presso i longobardi assunse anche funzioni di politiche312. Dopo aver assimilato

popolazioni quali Rugi ed Eruli, ed essersi stanziati nelle antiche province romane del Noricum e della Pannonia, entrati in contatto diretto con l’impero i Longobardi iniziarono una nuova etnogenesi che ne formò l’aspetto come lo conosciamo noi. La mentalità politica delle élites e dei re longobardi si conformò in parte a quella romana, di cui adottarono i termini e gli obiettivi, convertendosi molto probabilmente in questo primo momento al

310 Franco Cardini, Alle radici, cit. a p. 252. “Il fatto che negli armamenti e nella tattica cui fa riferimento lo

pseudo-Maurizio fossero presenti con tanta frequenza i richiami al costume àvaro, chiarisce da dove i Bizantini si aspettavano i maggiori pericoli e da dove traevano i migliori esempi di combattimento equestre. Attraverso i molti germani che servivano nell’esercito bizantino, questo tipo d’armamento non tardò a passare, pur con le dovute modifiche, in Occidente”.

311 Esempio ne è l’assedio di Roma: Belisario inviava sortite dei suoi arcieri a cavallo che

punzecchiavano i Goti a tal punto da farli infuriare e caricare a testa bassa. Una volta lanciatisi contro gli imperiali però, questi si ritiravano continuando a lanciare frecce e causando numerose perdite, per poi rientrare in città e nascondersi dietro le alte mura di Roma.

312 Gasparri, I duchi longobardi. Ravegnani, I Bizantini e la guerra, Jouvence, Roma, 2004. Cit. a p. 57: “I

duces regionali avevano autorità su tutte le truppe stanziate nei loro distretti amministrativi ed erano ufficiali di alto grado […]”.

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cristianesimo cattolico313, anche se dobbiamo ritenere che non abbandonassero i riti e le

tradizioni pagane. Cavalieri Longobardi furono inviati in Siria e pure in Italia per combattere i nemici dell’impero, e proprio la penisola diventerà l’oggetto delle mire del re barbarico Alboino, che sottomessi i Gepidi organizzò una grande spedizione volta alla conquista dell’Italia dopo essersi accordato con gli Avari314. Così l’eterogeneo popolo longobardo

invase la penisola passando per il Friuli e assoggettandone facilmente il nord.

Nonostante il lungo contatto con Roma però l’esercito longobardo rimaneva un eterogeneo insieme di barbari, più o meno integrati nel mondo romano, a cui mancavano tutte quelle strutture amministrative e burocratiche di supporto tipiche degli eserciti imperiali315. Gli

eserciti romani erano ancora largamente armati e mantenuti dallo stato, che attraverso le tasse ed il fisco guadagnava il denaro necessario per proteggere i cittadini; gli eserciti barbarici invece, benché cresciuti all’ombra di Roma, non avevano le necessarie conoscenze culturali per mantenere un apparato burocratico ed un fisco – benché ci avessero provato-. Ogni guerriero doveva pensare al proprio sostentamento, così come al proprio armamento. Difficile quindi riconoscere delle unità precise o un’organizzazione ben definita nelle armate dei re di Pavia e dei duchi longobardi, possiamo invero essere certi, anche dai reperti trovati nelle necropoli, che le élite combattessero tutte a cavallo, e che anzi si distinguessero dai membri più poveri dei liberi poiché potevano appunto permettersi di mantenere uno o più cavalli ed un’armatura completa. Una volta insediatisi in Italia e occupato il sistema di civitas e castra del tessuto urbano italiano, l’organizzazione base dell’esercito longobardo venne a coincidere con le città316. Le civitas della geografia urbana italiana erano infatti i distretti che

organizzavano le principali unità militari, queste, al comando di un duca, si univano l’una

313 Steven C. Fanning, Lombard arianism reconsidered. I Longobardi, nel loro periodo pannonico,

vengono descritti da Procopio come “cristiani”, La guerra gotica, II, 14. Se fossero stati ariani l’autore lo avrebbe evidenziato subito, non facendolo dobbiamo supporre che almeno una parte delle élites longobarde erano, al tempo, cristiane ortodosse.

314 Più di una volta nell’opera di Procopio leggiamo che Giustiniano richiede aiuti ai Longobardi per

le sue campagne militari e viceversa. La guerra gotica, IV, 25. VIII, 30. In VIII, 31, notare come Narsete, nello schierare il suo esercito contro l’armata gotica di Totila, decida di schierare i Longobardi e gli altri barbari al centro, dove può controllarli meglio, poiché non si fida della loro disciplina e fedeltà. Che interessa a noi è il fatto che venga evidenziato che essi sono fatti “smontare da

cavallo e rimanere appiedati”, questa precisazione ci indica infatti che essi erano soliti combattere a

cavallo.

315 Contamine, La guerra nel medioevo, cit. a pp. 32-33.

316 Guy Halsall, Barbarian warfare. Cit. a p. 65. La città diveniva quindi il punto focale

dell’organizzazione degli eserciti, il modus operandi di come i guerrieri venivano chiamati alle armi ci viene mostrato da Paolo Diacono quando Alachis, ribellatosi a re Cuniperto, “[…] legò a sé le città, una

a una, facendosele alleate parte con lusinghe, parte con la forza”. Paolo Diacono, V, 39. Il ribelle, come racconta

Paolo, passò da una città all’altra per obbligare o convincere i duchi presenti a schierarsi dalla sua parte, e con loro anche i loro guerrieri.

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all’altra formando l’esercito reale. Alcuni ducati erano relativamente piccoli, come quello di Ceneda o quello di Treviso, mentre ve ne erano di più grandi, (Friuli, Benevento e Spoleto), che erano quindi capaci di chiamare alle armi un notevole numero di armati, alterando di conseguenza i rapporti di forza all’interno del regno.

Il reclutamento era semplice: tutti gli uomini liberi che avevano il diritto di portare le armi dovevano servire nell’esercito e rispondere alla chiamata del duca o del re. È da questa corrispondenza fra libero e guerriero che è stato coniato appunto il termine di popolo-esercito. Durante tutto l’arco temporale del dominio longobardo in Italia l’organizzazione dell’esercito non venne mutata se non verso la fine del regno con le leggi di re Astolfo317. La fusione fra

longobardi e romanici era ormai un dato di fatto, tanto che all’interno del regno non esistevano più differenze, e se esistevano erano solo per quei sudditi che erano entrati sotto il dominio di Pavia in seguito alle recenti conquiste della città di Ravenna e ciò che restava dell’esarcato. Con le leggi di Astolfo vi fu un radicale cambiamento: l’armamento di ogni