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Il male fisico come emblema di un male universale

Le tematiche del romanzo

3) Il male fisico come emblema di un male universale

Nel romanzo l’autore presenta con continua insistenza la propria ossessione per il cancro, basti pensare al seguente passo del romanzo :

quando su un annuncio mortuario si legge che un tizio se n’è andato perché colpito da un male crudele che non perdona si può scommettere la testa nove volte su dieci che si tratta di cancro

E, riferito a suo padre,:

da tanti anni ossia da quando gli era morto di cancro il cugino al quale era molto affezionato, si era incorporata l’idea che di cancro sarebbe morto anche lui (p

Pertanto anche nel comune presentimento di morte per il cancro è possibile rintracciare un altro punto di congiunzione fra padre e figlio, che si realizzerà solo alla fine del libro attraverso un processo di identificazione con la figura paterna.

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Felice, idem p. 88

Quel che ci interessa sottolineare per il momento, relativamente ai passi appena citati, è il ‘complesso’ insistente e ossessivo che soffre l’autore e che si focalizza prevalentemente su un male che ha origine nel ventre, dal momento che «è nelle viscere che di preferenza si annida e si concreta il male dell’uomo e dello scrittore, esso si origina nello stomaco, laddove il senso di vacuità o viceversa di sazietà nauseante ben si confonde con l’ansia e la vertigine esistenziale»50.

E, in effetti, è l’autore stesso che dice di avvertire un «un grumo di tensione dentro lo stomaco» già nel primo capitolo, ma non è qui che si esaurisce il luogo di sofferenza dell’autore. Atro punto dolente del corpo in cui si materializza il disagio psicofisico è all’altezza delle cinque vertebre lombari, ugualmente collocate in una posizione bassa di pari petto alle viscere dell’intestino. Niente in Berto appare casuale: come non pensare al terribile supplizio di Prometeo, le cui parole sono guarda caso collocate in epigrafe al romanzo? Come punizione inflittagli, per aver rubato il fuoco divino, Zeus invia un’aquila che di giorno distrugge il suo fegato che però ogni notte ricresce, così da non dare mai fine al tremendo dolore.

Altro elemento interessante relativo all’immagine del tumore è il termine stesso con cui viene quasi raffigurato espressionisticamente, e cioè «esteriorizzazione», un vocabolo che, nel suo voler indicare l’orribile grumo di viscere posto sulla pancia del padre, si offre anche come chiave interpretativa per un male concepito come universale. Questo male procura un dolore che quasi diviene carne e come tale viene rigettato dal corpo umano, come se fosse impossibile trattenerlo all’interno del fisico, ma anche, allo stesso tempo, all’interno dell’anima;

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Cfr. P. Culicelli, La coscienza di Berto, p. 151

l’esteriorizzazione viene quindi a configurarsi come un tentativo disperato di liberazione. Al processo di liberazione, che in senso fisico corrisponde alla defecazione, non è tuttavia estraneo il profondo dolore con cui l’autore si rassegna ad un atto al quale non può sottrarsi, se vuole sopravvivere:

questa mattina in cui è probabile che debba fare un passo decisivo sul cammino della gloria il fatto di defecare in modo proprio lo sento imperativo quasi che liberarmi della pesantezza viscerale e della materia immonda sia necessaria premessa per ben affrontare le fatiche tutte spirituali del comporre letterario […] ed ecco che dalle dannate viscere e insieme non so come dalle cinque lombari mi parte quella corrente di caldo che in un attimo scala tutte le vertebre verso la sommità raggiungendo il cervelletto e io mi trovo stravolto dal terrore..

In un altro episodio interessante del romanzo, da concepirsi come causa scatenante di un altro momento di delirio del protagonista, egli si trova comodamente sdraiato sul suo letto e consulta i rotocalchi per trovare una storia che lo ispiri per la prosecuzione del suo romanzo quando la sua attenzione è rapita da un fatto di cronaca nera, il suicidio di una ragazza. Viene attratto in particolare dalla macabra foto che ritrae la ragazza a terra con il volto deturpato e, improvvisamente, mentre si interroga sulle cause che abbiano spinto la ragazza a compiere l’ultimo «salto mortale»51 viene colpito da un misto di vampate,

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Interessante che l’espressione “salto mortale” sia stata usata da Pavese, nei Dialoghi con Leucò, nel dialogo Schiuma d’onda, a proposito del suicidio compiuto da Saffo che decise di suicidarsi nel mare di Grecia per «il suo scontento della vita». Si ricorda che il 27 agosto 1950 si uccise Cesare Pavese e Berto, che lo aveva conosciuto qualche settimana prima alla consegna del premio Strega, ne rimase sconvolto. Quella morte assumeva ai suoi occhi un valore simbolico tremendo, vale adire, indicava la sconfitta dell’impegno neorealista, la fine di un’utopia in cui Berto aveva creduto. A tal proposito Berto disse: «Io non so se Cesare Pavese si sia ammazzato per questo: è certo, tuttavia, che si è ammazzato anche per questo, per aver creduto e lavorato per qualcosa che esisteva solo nel sonno, nell’immaginazione. Questo è il nucleo della sua crisi che ha paralizzato per tempi più o meno lunghi parecchi scrittori, alcuni per sempre. Comunque, per chi non si arrendeva, i problemi sorgevano come nuovi: la realtà non era una cosa data, ma un rapporto tra il reale e noi, dove il termine più importante eravamo noi, si capisce, e non il reale».

formicolii che sembrano avere origine proprio all’altezza delle cinque vertebre lombari in quello che da allora in poi chiamerà «il punto del suicidio»; egli ne rimane tanto colpito perché si sente perennemente “sul filo del rasoio” e indagare le motivazioni di un simile gesto lo conduce inevitabilmente ad una nuova crisi. Come ha osservato Paola Culicelli ne La coscienza di Berto, il titolo dell’edizione americana del Male oscuro, Incubus, potrebbe non essere casuale, perché questo termine sembrerebbe alludere alla correlazione presente tra male di vivere e il dolore alla pancia; infatti «l’incubo, nella tradizione classica, è una creatura notturna che con il suo peso incombe sullo stomaco dell’uomo tormentandone il sonno. Il fardello sull’addome non è altro che la personificazione delle ambasce e dei pensieri che insidiano il riposo e la serenità, dunque l’Incubus altro non è che un’immagine della nevrosi, una traduzione visiva e classica del Male oscuro»52. Sembra opportuno segnalare che la tematica di un male universale che non risparmia nessuno non è esclusiva del Male oscuro, ma compare già ne Il cielo è rosso il cui protagonista, Daniele, è un ragazzo onesto o, per meglio dire, «inibito», e l’inibizione la ritroviamo come caratteristica del protagonista sia nel Male oscuro che ne La cosa buffa; Daniele, prima di buttarsi dal treno si toglie mantello e giubba perché possano servire a qualcun altro e, facendo ciò, «ecco che era tornato buono verso il resto degli uomini»; poi si uccide perché «il mondo non aveva rimedio per il male degli uomini, per l’incomprensione e la solitudine e l’indifferenza. Non c’era rimedio così che uno veniva spinto fuori dagli altri uomini, lontano. E improvvisamente seppe quello che gli restava da fare. Era una grande cosa, ma si sentiva abbastanza calmo per essa». Il suicidio, appunto, è

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Culicelli P., La coscienza di Berto, p. 153

un’altra delle tematiche che si accompagna con ricorrenza al concetto di indole negativa del genere umano; la costante del suicidio interessa sia Daniele (Il cielo è rosso), che l’anziano che passa tra le mine pur sapendo che andrà incontro a morte certa (Opere di Dio); inoltre nel dramma L’uomo e la sua morte il bandito Giuliano si fa uccidere volontariamente dal gregario, oppure ne Il brigante il protagonista si fa uccidere dall’amico carabiniere senza difendersi. La morte è quindi continuamente presente nell’opera bertiana, invocata incessantemente, ma con estremo timore nel Male oscuro, oppure introdotta, e questo è il caso de La cosa buffa, in apertura del romanzo stesso: «Antonio aveva soprattutto voglia di morire». Segnaliamo infine l’intimo desiderio di morire del protagonista nel diario di guerra Guerra in camicia nera, desiderio che si esplica nella costante richiesta di andare a combattere in prima linea, pur avendo avuto un incarico differente53. Molti personaggi di Berto, e non solo nel Male oscuro, sono perseguitati dall’idea di un male universale che fa da padrone agli eventi degli uomini; ad esempio, ne Il cielo è rosso, alludendo ai piloti avversari, egli scrive:

Eppure un male universale ha dato loro la possibilità di uccidere delle persone sconosciute, così simili a loro stessi. Un male tanto grande per cui essi portano terrore morte e distruzione senza pensarci, con la coscienza di compiere un dovere. E se per fare ciò essi hanno prodotto una somma di dolore umano che niente potrà cancellare, nessun bene mai sulla terra, questa è una cosa che non ha importanza. Essi non vi pensano, e non ne hanno colpa, a causa del male universale.

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Tuttavia va ricordato che non tutta l’opera del Berto è percorsa da questo macabro filo tematico; basti pensare al suo ultimo scritto, La fantarca, dove lo scrittore usa tutta la sua vena umoristica per raccontare una ‘favola’ fantascientifica che vorrebbe risolvere definitivamente la “questione meridionale”.

Questo ‘male universale’ diventerà, con il passare degli anni, un male presente non solo come entità al di fuori dell’individuo (in quanto proveniente dalla collettività, dagli altri esseri umani) ma presente anche nell’interiorità del soggetto, proprio a causa degli incessanti conflitti fra il Super Io e la coscienza ( secondo la teoria freudiana di cui Berto si fa portatore nel romanzo). Ed è interessante notare, come ha evidenziato Corrado Piancastelli, che il concetto di male universale è strettamente correlato al senso di colpa che si esplica nella paura della punizione, in quanto « […] il male universale, nel contesto della ontologia bertiana, assume significati su diversi piani tra i quali primeggia l’aspetto magico e fatalistico che si interseca giusto nella fondamentale paura della punizione che accompagnerà il Berto scrittore…paura e punizioni vagheggianti quasi sadomasochisticamente, sì che la tendenza al suicidio, presente nelle nevrosi dei personaggi di Berto, in quasi tutte le opere si separa a volte dalla morte proprio perché vi è presente la componente sadomasochistica, in quanto, com’è noto, il soggetto che vuole inconsciamente soffrire per emendarsi di chissà quali colpe reali o pseudotali, o per irriconoscibili pressioni interne, in realtà spinge il suo pericoloso giuoco fin sulla soglia del suicidio, ma da questo solitamente si ritrae in tempo per godere della estrema sofferenza dei pensieri e del corpo»54.

Il male dunque, nella produzione di Berto, sembra essere un’entità, dotata quasi di vita propria, la quale risulta in grado di guidare le azioni umane, « il male così concepito diventa la forza che muove il cosmo, l’energia negativa che tutto coinvolge e travolge. Gli esseri umani ne sono talmente imbevuti da trasformarsi nei suoi passivi strumenti e nei suoi inconsci esecutori; ne divengono le vittime

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C., Piancastelli, Berto, p.17

innocenti destinate a farvi fronte inefficacemente per mezzo delle poche e povere armi messe a loro disposizioni dal destino. Qui il parallelismo letterario, che de riguer si impone alla mente del lettore, è quello della spietata inesorabilità che travolge fatalmente i rinomati protagonisti verghiani ne I Malavoglia »55. La potenza di questo male che ormai si annida dentro l’anima dei personaggi bertiani si concretizza nel destino cruento che tocca agli stessi mediante il suicidio, come accade nelle opere Il cielo è rosso, Il brigante, Le opere di Dio e ne La gloria, ma anche attraverso l’accettazione passiva del proprio destino, come accade al padre de Le opere di Dio. Inoltre, anche nel protagonista del Male oscuro si intravede la rassegnazione dinanzi al proprio fallimento esistenziale; non a caso il Berto parla di ‘disastro’ ancor prima che i medici lo abbiano operato. C’è una profonda convinzione, o meglio una vera e propria certezza, del protagonista circa la propria condizione di malato inguaribile, è come se egli conoscesse già i risvolti drammatici che il destino gli riserverà. A tal proposito, è inevitabile richiamare alla mente le innumerevoli occorrenze in cui il protagonista parla di ‘disastro’, circa gli eventi che lo riguardano; infatti il termine ‘disastro’ ricorre ogniqualvolta si trovi un riferimento alla situazione personale dell’autore:

Può benissimo darsi che qualche carenza o sovrabbondanza di uno qualsiasi di questi elementi (i componenti chimici costitutivi delle cellule nervose) provochi una disfunzione in sé minima e addirittura impercettibile coi mezzi di misurazione di cui disponiamo ma

disastrosa nelle conseguenze totali data l’ampiezza del sistema nervoso p.162

Questo periodo diciamo così di villeggiatura era proprio disgraziato sotto quasi tutti i punti di vista, ma che potevo farci io se mia moglie diceva che tornare a Roma sarebbe stato un disastro (il protagonista decide di raggiungere moglie e figlia a Siusi per sfuggire

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A., Vettori, La predestinazione al male nell’opera di Giuseppe Berto, p. 318

alle proprie crisi ma, una volta giunto a destinazione, il disagio psicofisico si fa ancora più forte) p. 263

Ma il termine ricorre anche a proposito del padre, quando si trova in ospedale in attesa di essere operato, circondato dai parenti, e «pareva che ad ognuno chiedesse almeno spiegazione del disastro in cui era piombato» e, considerando che il padre rivolge la propria attenzione a tutti tranne che al primogenito, il Berto «aveva quasi voglia di chiedergli se per combinazione ce l’avesse su con me, ma non era certo il caso di fare domande simili date le circostanze e le persone presenti tanto più che a proposito del disastro non avrei potuto dirgli nient’altro se non che in qualche modo bisogna pur andarsene quando viene la nostra ora». La ricorrenza del medesimo termine non è per niente casuale nel romanzo ma rispecchia, a nostro avviso, una precisa volontà dell’autore di sottolineare la negatività della condizione umana, esattamente come la parola ‘disgrazia’. Curiosamente, il termine ‘disgrazia’ compare, fin dalle primissime pagine del Male oscuro, proprio in stretta associazione con la parola ‘disastro’. Riportiamo un passo del romanzo particolarmente significativo ed è il momento in cui l’autore racconta delle prime sedute dallo psicoanalista:

Per quante volte mi sono seduto su quel lettino, mai una volta mi pare che mi sia rilassato per bene, sempre sono rimasto lì col mio grumo di tensione dentro lo stomaco […] e con in più un aggravamento di disagio in uno dei miei punti più disgraziati, vale a dire le cinque lombari dalle quali, ho l’impressione, ebbe origine una sera lontana tutto il

disastro […] e sebbene da allora in poi punti disgraziati me ne scoprissi addosso ad ogni

piè sospinto, quello primo non me lo scordavo mai p. 8

E santo Iddio questa proprio non me l’aspettavo, cioè che stesse lì a piangere per causa mia (riferito alla madre, in ospedale, durante la degenza del padre di Berto) io non

c’entravo proprio niente con la disgrazia che ci aveva colpiti, né con altre eventuali

disgrazie concomitanti mi pareva p. 23

E, disgraziato, è proprio l’accusa che gli viene rivolta dalle sorelle, durante l’accesa discussione in seguito alla comparsa inaspettata della vedova all’ospedale – definita ‘vacca’ senza troppe esitazioni dalle sorelle stesse; ma disgraziata è pure la stagione del paese natale «tutta fango e pozzanghere»; la funesta terminologia non è risparmiata neppure a proposito dell’intestino del protagonista oppure viene riproposta più volte all’interno di un capoverso, come nell’episodio in cui una nuova crisi lo assale, proprio mentre sta leggendo sui rotocalchi la vicenda di una ragazza suicida:

In conclusione non c’è chi non veda come il banale incidente preso come punto di arrivo di una serie di disgrazie e come punto di partenza di una serie di disgrazie ancor più grandi possa essere anche un punto capitale della storia che sto narrando, e in verità fino a qui uno può anche giungere pensando che io ero passato attraverso una così ricca e straordinaria successione di disgrazie che alla fine non potevo fare a meno di uscire di senno p. 150

Inoltre, è considerata disgraziata la figlia stessa del protagonista, «ad avere un padre simile», probabilmente perché nella coscienza di Berto è già presente l’idea di non essere in grado di assolvere appieno il compito della figura genitoriale, proprio come è stato per lui rispetto a suo padre che, anche se defunto e quindi assente, sembra ancor più presente di quando fosse in vita. A proposito dell’uso dei termini disgrazia e disgraziato, anche ne Il cielo è rosso troviamo un episodio particolarmente significativo, in cui la ragazza prostituta fa ritorno a casa confessando di essere incinta e di voler tenere il bambino, anche se non sa chi è il padre e, a questa notizia, la madre e il fratello Augusto vanno su tutte le furie

perché «un bastardo è sempre una cosa sbagliata. Ci son già tanti disgraziati al mondo, che non c’è proprio bisogno di mettercene degli altri» ma la ragazza è convinta di tenerlo con tutte le sue forze e, come reazione, «l’uomo era di nuovo infuriato, e si alzò in piedi facendo cadere la sedia. Disgraziata! Gridò» e allora la mamma, cercando di far ragionare la figlia, dice:

Vedi, io ho avuto voi altri due, vi ho allevati come ho potuto, e siete diventati grandi. Adesso non so se vi sentite contenti di vivere, noi non parliamo mai di queste cose. Ma forse non siete contenti, non si può essere contenti di vivere nella nostra miseria. Tante volte anch’io mi son sentita male, e ho pensato che sarebbe stato meglio se non fossi mai nata. È meglio non essere niente, piuttosto che essere disgraziati p. 22

La nostra ipotesi riguardo una così insistente sottolineatura del concetto di ‘disgrazia’, parte dal considerare la posizione religiosa del Berto, alquanto ambigua, che vedrebbe i suoi personaggi esclusi e ‘fuori dalla grazia’ di Dio, da una protezione dall’alto, cosa che li rende esseri peccaminosi.

Tornando al tema dell’ineludibilità del male, esso compare già dal primo romanzo di Berto, Il cielo è rosso, il cui titolo originale La perduta gente, di ispirazione dantesca – che poi fu sostituito dall’editore con quello evangelico tratto da Matteo (16:2-4)- si fa portatore dell’idea di un destino tragico a cui gli uomini non possono opporsi. In epigrafe al romanzo viene riportato la similitudine enunciata da Cristo:

Di sera voi dite: tempo bello, perché il cielo è rosso; al mattino, poi: Oggi, tempesta, perché il cielo è rosso cupo. Ipocriti! Voi sapete distinguere gli aspetti del cielo e non sapete conoscere i segni dei tempi! Una generazione malvagia e adultera domanda un segno, ma non le sarà dato altro segno, che quello di Giona.

Fu l’autore stesso a richiedere che il titolo fosse ricavato dal Nuovo Testamento ed è possibile quindi che nel suo intento ci fosse l’intenzione di voler istituire una sorta di parallelismo simbolico che vede nel protagonista Daniele una controfigura di Cristo. Il giovane ragazzo, deluso da una realtà circostante che sembra non avere in serbo altro che dolore, morte e distruzione, decide di gettarsi fra le rotaie del treno per cercare di raggiungere una liberazione totale, ma prima di farlo, decide di denudarsi e « liberandosi del surplus vestimentario, Daniele ‘ritorna buono’. Il denudamento conclude la fase malvagia della vita terrena e segna l’inizio di una bontà raggiungibile solo attraverso la morte. Con la nudità si riscopre uno stato edenico che simboleggia la non-coscienza del male, quando gli esseri umani non avevano ancora nascosto la proprio purezza dietro l’ombra della colpa, a cui la copertura degli indumenti sul corpo fa da referente»56 . L’elemento della nudità lo ritroviamo, con il medesimo significato, nel Male oscuro, quando il protagonista, dopo aver mandato la moglie e la figlia in vacanza a Siusi, decide di