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Due modelli a confronto: Berto e Svevo

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O., Lombardi, Invito alla lettura di Giuseppe Berto, p. 104

Giuseppe Berto non ignora quella che più di tutti sembra essere la fonte d’ispirazione del suo ‘romanzo-confessione’, vale a dire La coscienza di Zeno di Italo Svevo, che presenta senza dubbio alcune caratteristiche di romanzo ‘psicologico’. Prima fra tutte e ritenuta la maggiore novità del romanzo – cosa che, con molta probabilità, deve aver suggestionato Giuseppe Berto - , è l’interpretazione in chiave psicoanalitica degli eventi accaduti a Zeno, il protagonista. I fatti sono così rivisitati ed esaminati dal protagonista stesso, sotto una nuova luce, e con un nuovo approccio psicologico, mediante la tecnica narrativa del monologo interiore.

L’autore Italo Svevo viene citato direttamente da Giuseppe Berto nel suo romanzo, Il male oscuro, in riferimento alla disciplina psicoanalitica:

Pare che la psicoanalisi non danneggi la capacità creativa di un artista, anzi si potrebbe dire che la esalti com’è dimostrato ad abundantiam dal caso di Italo Svevo al quale ambirei di somigliare se non fosse per la particolarità che io ho paura di fumare mentre lui impostava tutti i suoi problemi di coscienza sull’ultima sigaretta che non era mai l’ultima […] a questa psicoanalisi mi sono convertito a scanso di peggio ossia senza convinzione profonda anche perché sull’argomento conosco solo quel poco che mi è giunto attraverso Svevo e se ho ben capito il risultato terapeutico della faccenda viene descritto come scarso nel divertente romanzo che parla di Zeno pp. 279-280 Male

La coscienza di Zeno non si può considerare un’autobiografia in senso stretto, ma piuttosto come la vicenda di una malattia intervallata da episodi di vita. All’interno del romanzo non si ripercorrono cronologicamente i momenti

maggiormente significativi dell’esistenza del protagonista, ma quelli della sua nevrosi, il che è un evidente punto di contatto con Berto.

Inoltre, La coscienza di Zeno si struttura come ‘opera aperta’, nel senso che la trama non procede in ordine cronologico ma per temi, scanditi con capitoli i cui titoli racchiudono in sé i principali snodi esistenziali del protagonista, la qual cosa costituisce già un evidente punto di disaccordo con Giuseppe Berto, considerando che quest’ultimo non predilige alcun tipo di divisione strutturale all’interno del Male oscuro, anche se è significativo che l’autore ricorra a formule poste come incipit a quelli che dovrebbero configurarsi come ‘capitoli’, benché non siano contraddistinti da titoli. Pertanto, già a partire dalla prima di questa suddivisione strutturale, l’autore inizia il racconto presentando quello che sarà il tema centrale del romanzo: «Penso che questa storia della mia lunga lotta con il padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti». Da segnalare è che la figura del genitore è posta all’inizio anche della seconda scansione del romanzo: «Mio padre non era morto in ogni modo». Nella terza si parla poi dei funerali del genitore con una formula che riflette in pieno lo stile di ‘discorso associativo’ di Giuseppe Berto; l’autore, infatti, quasi come se non avesse mai interrotto il suo racconto, introduce la sua narrazione con un curioso «Poi ci furono i funerali al paese (dopo la morte del padre)»; la figura di Ernesto Berto viene ancora posta come incipit al quarto ‘capitolo’ con la formula «Mio padre in quel tempo era ancora senza volto». Egli non viene più menzionato all’inizio delle restanti suddivisioni del romanzo, le quali sono solitamente introdotte da formule conclusive, come: «Così ora me ne

stavo», «In conclusione», «Io dunque», «Comincia dunque», «Ci mancava dunque», «Comunque» ed «Ecco dunque». Questo tipo di espressioni, a mio avviso, potrebbero indicare quasi un’urgenza dell’autore di voler concludere il proprio racconto con una sorta di ‘frenesia’ esercitata sulla scrittura al fine di non interrompere la narrazione60.

A proposito del padre di Zeno va segnalato che il genitore viene menzionato attraverso un tipo di fisicità che trasmette sicurezza; ma non solo, viene ricordato dal figlio con affetto, attraverso i piccoli gesti di amore filiale che erano soliti legare i due, e a testimonianza di ciò, Zeno ricorda il genitore, fin dalle prime pagine del romanzo, come «quel caro corpo che più non esiste»; rievoca poi con nostalgica commozione che suo padre «chinava la testa per offrire la sua guancia al bacio di ogni sera». Questo tipo di legame affettuoso caratterizza anche la sera, l’ultima prima di morire, in cui il padre di Zeno darà sfogo alla malattia, l’edema cerebrale, dicendo al figlio: «Adesso penserò alle parole che ti dirò domani. Vedrai come ti convinceranno.» La risposta di Zeno, sembra già preannunciare il profondo rimorso di lui legato alla morte del padre, sebbene egli non sia al corrente della grave malattia del genitore: «Papà- dichiarai io commosso- ti sentirò volentieri».

Il romanzo di Italo Svevo è introdotto da una Prefazione, la quale si immagina scritta dallo psicoanalista che ha preso Zeno in terapia, il dottor S., che induce il suo paziente a scrivere il resoconto della sua malattia, poiché pensa che tale operazione sia un «un buon preludio alla psico-analisi», ma, deluso da Zeno che abbandona la cura, pubblica le memorie del paziente per vendetta. Dopo tale

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Questo potrebbe essere legato alla ‘paura’ del Berto di non arrivare alla fine del racconto, un timore, questo, più volte espresso durante le interviste.

Prefazione segue un Preambolo in cui Zeno, ormai anziano, si interroga sulla possibilità o meno di raggiungere la salute. La salute viene considerata come unica prerogativa degli altri o così pare, nel romanzo, e questa visione, non si discosta molto da quella del protagonista del Male oscuro; sostanzialmente il concetto di salute viene associato alla sicurezza che gli Altri possiedono rispetto a se stessi, una forza di volontà o di gestione delle proprie emozioni che non compromette il sano ed equilibrato godimento della vita.

Nel capitolo successivo, Il fumo, si concepisce questo ‘vizio’ come una manifestazione tipica della dilazione dei nevrotici, in quanto il costante rimandare è tipico del nevrotico. Zeno, com’è noto, si propone di liberarsi dalle catene che lo vincolano al vizio del fumo e tutti i suoi buoni propositi sono testimoniati dalle ripetute scritte «ultima sigaretta»; tuttavia, questa dilazione permette a Zeno di assaporare con più gusto quella che dovrebbe essere ‘l’ultima’ sigaretta, poiché «l’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute». Il protagonista richiama alla memoria come questa cattiva abitudine sia entrata a far parte della sua vita: fin da ragazzo, era solito rubare i mozziconi di sigaro che suo padre lasciava distrattamente in giro per casa, fumando così di nascosto pur provandone disgusto, solo per l’ambizione di essere scoperto. In età matura, poi, il vizio persiste e Zeno va alla ricerca continua di un medico che gli proibisca di fumare, ma, puntualmente, viene deluso in questa sua aspettativa perché non trova nessun specialista che gli eserciti tale proibizione.61 La questione del fumo viene ‘risolta’

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In simil modo Berto ruba furtivamente i due preziosi sigari del padre, regalategli dal Poeta Soldato, ovvero D’Annunzio, al tempo della Grande Guerra, ma più per fare un dispetto al padre suo che per emulare il vizio del genitore.

dall’analista di Zeno, il qual rintraccia l’origine del vizio nel difficile rapporto con il padre:

Il fumo non mi faceva male e quando mi fossi convinto ch’era innocuo sarebbe stato veramente tale […] oramai che i rapporti con mio padre erano stati riportati alla luce del giorno e ripresentati al mio giudizio di adulto, potevo intendere che avevo assunto quel vizio per competere con mio padre e attribuito un effetto velenoso al tabacco per il mio sentimento morale che volle punirmi della miacompetizione con lui. P. 390 Coscienza

Nel capitolo relativo al fumo si richiama, a mio avviso, una problematica di tipo psicologico riguardante il sentimento di diffidenza verso gli ‘Altri’, perlopiù verso gli uomini che sono percepiti dal protagonista come personaggi sicuri di se stessi e invulnerabili; a tal proposito, Zeno, decisosi ad una reclusione volontaria in una casa di salute per la disintossicazione dal fumo, una volta rimasto solo, maledice se stesso e la moglie per averlo abbandonato in quel luogo, con l’intenzione di approfittare della sua assenza per ‘spassarsela’ con il giovane dottore, il quale è guardato con incredibile invidia dal protagonista. Zeno rischierà quasi di impazzire durante le lancinanti ore di reclusione nella casa di salute imprecando:

Mi sentii subito male, ma seppi che cosa mi facesse soffrire soltanto quando fui lasciato solo. Una folla, amara gelosia per il giovine dottor. Lui bello, lui libero! Lo dicevano la Venere fra’ Medici. Perché mia moglie non lo avrebbe amato? P. 20 Coscienza

Questo episodio suggerisce quello che potrebbe essere diagnosticato come ‘complesso d’inferiorità’ del protagonista, che definisce gli ‘Altri fatti altrimenti

di me’, un complesso che poi è lo stesso di Berto, che vede nel resto delle persone un’immagine di equilibrio e di serenità. Ad esempio possiamo citare l’episodio del Male oscuro in cui la moglie di Berto, trovandosi in una ‘clinica di lusso’ per partorire, riceve in camera il «famoso professore» che dovrà occuparsi della partoriente, e verso cui il protagonista non esita a dimostrare la propria diffidenza:

E in più (riferito al dottore) ha una grazia tutta particolare nel dire vediamo un po’ come sta la giovane e graziosa signora tal dei tali e intanto le palpa la pancia e le gambe e ciò che gli pare, e la giovane graziosa signora tal dei tali va in solluchero mentre se lo mangia con gli occhi come se fosse una equilibrata combinazione di padre Pio da Pietralcina con Lawrence Olivier, e queste cose possono anche dare un leggero fastidio a certi mariti sia pure refrattari alla gelosia qui non si tratta di gelosia ma di decenza p. 175 Male

Tornando alla questione del fumo, va segnalato che il tema della dilazione, sia pure con un oggetto diverso, richiama una somiglianza con Berto, considerato che egli vorrebbe riuscire a scrivere il suo “capolavoro” ma, puntualmente, sopraggiungono i più vari imprevisti ad ostacolarne la riuscita:

Mi viene in mente che forse non sono nelle condizione di spirito e di mente propizie per riprendere un lavoro di così grande importanza (l’autore si riferisce alla scrittura del famoso libro che dovrebbe condurlo alla Gloria), far partire moglie e figlia è stata a parte ogni altra considerazione una bella faticata, molto meglio affrontare il nuovo capitolo a mente fresca e corpo riposato […] penso che soltanto un idiota perde il suo tempo come l’ho perduto io stasera a via Veneto, ma da domani vita nuova se Dio vuole la Gloria non aspetta i pigri p. 213 Male

Perciò, per rimandare il proprio lavoro, il protagonista cerca tutte le scuse possibili cadendo poi e rifugiandosi in un sonno che dovrebbe essere ristoratore, ma che in realtà, proprio perché vissuto come evasione dal proprio senso di responsabilità, lo intontisce ancora di più, impedendogli quindi la concentrazione necessaria per scrivere. Riportiamo un altro esempio: il protagonista, dopo aver fatto partire moglie e figlia per una vacanza in montagna, in quanto le ritiene elementi di distrazione per la prosecuzione del suo romanzo, viene nuovamente colpito da una crisi nervosa e, imputandone la causa alla lontananza dalle due donne della sua vita, decide di partire anche lui per raggiungerle; in questo passo del romanzo troviamo l’ennesima testimonianza della sua dilazione comportamentale:

I tre capitoli che sfoglio non mi sembrano tanto buoni, non è che siano brutti s’intende però di solito mi fanno un’impressione migliore e può darsi che questo dipenda dalla stanchezza anzi senz’altro dalla stanchezza p. 240 Male

La dilazione arriva al punto estremo nell’episodio della nascita della figlia quando, nel momento in cui l’infermiera vuol mostrare la bambina al padre, egli risponde incredibilmente: «non è che ne abbia gran voglia oggi o domani fa lo stesso secondo il mio intendimento anzi meglio domani che oggi dato che forse ancora per una notte si può far finta che non sia nata».

Concludendo, l’atteggiamento del procrastinare risulta una caratteristica tipica del malato di nevrosi presente tanto in Svevo quanto in Berto, pur variando l’oggetto della dilazione.

Tornando a La coscienza di Zeno, passiamo a esaminare il terzo capitolo, La morte di mio padre, dove si racconta la vicenda di ostilità fra padre e figlio, che viene però nascosta, con il tipico procedimento freudiano della rimozione, dietro “l’amore” che, secondo il senso comune, deve necessariamente esistere tra figlio e genitore; ed è qui che si colloca la tormentata questione del figlio Zeno che riceve uno schiaffo dal padre poco prima che questi muoia. Con ogni probabilità il gesto del vecchio è dovuto solo a motivi fisiologici, essendo egli affetto da un edema cerebrale e avendo perso quindi la lucidità mentale, ma Zeno non può fare a meno di interpretarlo come l’estrema punizione che il padre ha voluto infliggergli. Seguendo un’interpretazione freudiana, il fatto stesso che Zeno provi senso di colpa dimostra che egli è colpevole, visto che ha effettivamente desiderato la morte del padre; d’altronde non vi è differenza dal punto di vista dell’inconscio se l’evento desiderato si sia realizzato o meno nella mente del soggetto. Lo psicoanalista dà una sua interpretazione allo schiaffo, riferita da Zeno stesso in seguito, nel tentativo di esorcizzare l’angoscia con ironia: «[…] la mia malattia era stata scoperta. Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre. […] Ricordo però con indignazione che il dottor Coprosich avesse avuto ragione di dirigermi le parole che avevano provocato tanto mio risentimento. Ma allora io avrei meritato anche lo schiaffo che mio padre volle darmi morendo?» Zeno aveva sostenuto con fermezza davanti al medico che bisognava lasciar morire il padre, dal momento che era ormai condannato, senza procurargli una maggiore sofferenza con cure inutili:

Con tutta violenza, ma sempre accompagnando le parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente condannato […] La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire ad esperimenti per i quali c’erano altri posti a questo mondo! p. 47 Coscienza

Tuttavia, la ragionevole proposta, sebbene risulti dettata da amore filiale, dopo l’episodio dello schiaffo, appare a Zeno come dettata dal suo desiderio inconscio che il padre morisse. Questo episodio è centrale nel romanzo, la realtà si mostra a Zeno in tutta la sua ambiguità e ne diventa impossibile prendere le distanze attraverso l’ usuale ironia.

È interessante notare che l’atteggiamento tenuto da Zeno nei confronti del dottore rispecchia da vicino quello di Berto mentre parla con il primario, circa la situazione del padre ammalato di cancro:

Dissi al professore primario che stava bene, che gli tagliasse pure la pancia se lo riteneva opportuno, però doveva farmi il piacere se per caso nell’interno avesse trovato il cancro temuto non dico di spedire dritto il malato all’altro mondo, ma insomma di fare in modo che ci andasse sbrigativamente senza neanche svegliarsi dalla narcosi […] fatto sta comunque che pareva che gli avessi proposto di ammazzare una persona sana, mentre in realtà gli avevo chiesto solo di abbreviare le sofferenze di uno che in ogni caso sarebbe andato all’altro mondo p. 17 Male

Il senso di angoscia che accompagna la rievocazione del trauma subito fa sì che la realtà cosiddetta oggettiva perda ogni importanza di fronte a quella psichica. È irrilevante stabilire, nel racconto di Zeno, se lo schiaffo sia stato dato

coscientemente o meno, e il suo interrogarsi in proposito è inutile, dal momento che comunque il senso di colpa non si attenua. Ovviamente il senso di colpa non può attenuarsi, considerando che in cuor loro, entrambi i figli, sia Zeno che Berto, hanno desiderato, inconsciamente o meno, la morte del rispettivo padre. Zeno ne parla in maniera diretta, giungendo addirittura a definire ‘delitto’ la morte del padre, come se avesse commesso un omicidio:

Non so però se tanta ira puerile fosse rivolta al dottore o non piuttosto a me stesso. Prima di tutto a me stesso, a me che avevo voluto morto mio padre e che avevo osato dirlo. Il mio silenzio convertiva quel mio desiderio ispirato dal più affetto filiale, in un vero

delitto che mi pesava orrendamente. p. 49 Coscienza

Il capitolo relativo alla morte del padre è seguito da La storia del mio matrimonio, importante per alcuni nuclei tematici, il primo dei quali riguarda l’improvvisa decisione di Zeno di sposarsi. Secondo l’opinione dello psicoanalista questa decisione è dettata dal bisogno che ha Zeno di avere un padre; Giovanni Malfenti sarebbe perciò stato eletto a tale ruolo e tale interpretazione viene riferita al lettore da Zeno stesso nel capitolo Psico-analisi. La prima differenza da segnalare rispetto a Berto è che quest’ultimo «era per principio contrario all’istituto matrimoniale , cioè mai mi sarei sposato», posizione che sostiene con fermezza in più passi del romanzo.

Quanto alla questione della psicoanalisi esiste una divergenza sostanziale, perché lo scrittore veneto riversa la figura genitoriale sul “vecchietto” della terapia secondo la tecnica del transfert, e non su una persona estranea. A dimostrazione di ciò, gli aggettivi con cui viene delineato il padre di Berto all’inizio del romanzo

e cioè probo e giusto, che tra l’altro troviamo riportati per ben tre volte di seguito a pag. 26, sono gli stessi che troviamo a proposito della richiesta di Berto di avere uno psicoanalista con queste caratteristiche:

È chiaro che non me ne frega niente di scuole e di tendenze l’unica cosa che pretendo è un uomo probo e onesto per Dio, ecco mi sembra proprio necessario trovare uno con queste qualità p. 280

Tornando alla Coscienza di Zeno e al capitolo sul matrimonio, Giovanni Malfenti aveva quattro figlie, tre delle quali in età da marito, e tutte con la caratteristica di avere un nome che cominciava con la lettera A: Ada, Augusta, Alberta ed Anna. Questo elemento offre lo spunto per evidenziare che nel Male non sono citati i nomi delle persone e anche la moglie sarà sempre identificata come la “ragazzetta”.

Riguardo alle figlie del Malfenti Zeno scrive: «Pareva fossero da consegnarmi in fascio. L’iniziale diceva anche qualche cosa d’altro. Io mi chiamo Zeno e avevo perciò il sentimento che stessi per prendere moglie lontano dal mio paese»; questo è uno degli esempi della tendenza di Zeno a dare macroscopica rilevanza a fatti che possono essere casuali o irrilevanti, sintomo caratteriale dei nevrotici. Tuttavia, questa tendenza può esser letta anche in contrasto alla tendenza della psicoanalisi a voler spiegare ogni cosa. Dal punto di vista psicoanalitico, osserviamo una caratteristica comune tra il carattere di Berto e Zeno: entrambi soffrono in silenzio la propria timidezza, che diviene poi causa di profonda gelosia nei confronti di chi riesce ad essere eloquente e sicuro di sé nel parlare in pubblico, Berto nei confronti della sorella più giovane che, grazie alla propria

intraprendenza, si guadagna i favori dei clienti della pasticceria i quali approvano con giubilo la recitazione della bambina, e non solo i clienti, ma anche la madre che si mostra orgogliosa della figlia, sottovalutando così il giovane Berto; Zeno,