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Una guarigione apparente: la conclusione del Male oscuro

L’Io narrante ritiene di potersi considerare ‘grosso modo’ guarito e che è giunto il momento di ‘lasciare questa specie di padre acquisito’ cioè il Perrotti, il suo mentore, che gli ha insegnato che nell’atto sessuale non risiede alcun danno né peccato. Questo dettaglio suggerisce al lettore che il paziente non ha risolto completamente la propria inibizione sessuale, altrimenti non avrebbe bisogno di queste rassicurazioni. Dopo l’ultima seduta dal Perrotti, il Berto torna a casa e, durante l’ennesimo litigio con la moglie, ella gli confessa di averlo tradito con un altro uomo. Decide allora di abbandonare il proprio tetto coniugale pensando:

questa è la disperazione più grande in cui mi sia trovato da quando ho ricordo della vita però sento che in qualche modo resta al di qua dei limiti dell’angoscia e per questo non ne vengo travolto sicché tutto sommato è una disperazione proporzionata alle nostre forze mortali e il mio Io la sta affrontando virilmente per quanto possibile, e prova migliore di questa non potrei considerare per convincermi di essere davvero fuori dalla nevrosi e quindi a pensarci bene non c’è proprio motivo che vada dal medico, molto meglio se vado a mangiare dato che è l’ora di cena […] ma poi non mangio niente perché ho paura di rovinarmi lo stomaco e l’intestino e ci mancherebbe altro che l’intestino non funzionasse in questo delicato momento della mia esistenza. P.402

Il protagonista- Io narrante decide poi di andare a dormire in albergo e, ancora una volta, cade in preda all’angoscia, raccontando che:

su questo letto estraneo cominciano a farmi un po’ male le cinque lombari […] Dio mio se cominciassi a vedere i muri storti o ad avere paura del quarto piano o se sentissi muovere verso l’alto il caldo delle vertebre.

E dunque appare chiaro quanto il protagonista non sia riuscito a liberarsi della propria malattia o comunque, di quei particolari sintomi che ne preannunciano l’arrivo con una conseguente crisi, nonostante abbia appena concluso la terapia psicoanalitica con la definitiva diagnosi di guarigione. Una guarigione decisamente apparente, in quanto il protagonista sembra ricadere nel medesimo tunnel di disperazione, sebbene, questa volta, vi siano tutte le motivazioni per scivolare in una crisi depressiva, in primis il tradimento coniugale da parte della moglie. Altro elemento interessante è che, questa volta, il Berto si trova ad affrontare una di quelle dure prove che però non ha origine nella sfera inconscia della sua mente ma piuttosto è riconducibile alla sfera del conscio, o per meglio dire, del reale. Infatti, sarà l’autore stesso a riconoscere che «mai m’ero prospettata l’eventualità di venirmene via da casa per un motivo di un paia di corna» .

È significativo che, a proposito del tradimento da parte della moglie, il Berto non attribuisca la responsabilità dell’accaduto ad un male superiore ed universale – quello cioè che caratterizza anche le opere precedenti – bensì ad una propria personale responsabilità, in quanto egli stesso afferma che il dolore per il tradimento della moglie è un appagamento del suo « senso di colpa in genere e la conseguente necessità di espiazione».

Tuttavia, per espiare fino in fondo le proprie colpe, il Berto decidere di compiere una sorta di ritorno all’infanzia, probabilmente con l’illusione di poter ripartire da zero, facendo ritorno alla casa natale ed è in questa fase che egli riesce a pensare ai suoi problemi con distacco, quasi come se fossero i problemi di un altro. Naturalmente, al suo ritorno, la casa dei genitori non è più la stessa perché

all’interno vi sono altri inquilini; decide allora di andare a salutare sua madre e ripartire poi per Roma, ma capisce che quella non è la sua destinazione ed è a questo punto che si colloca l’incredibile conclusione del libro: il protagonista cambia meta, probabilmente perché in cuor suo sa che la moglie non si aspetta un perdono da parte sua e che, comunque, il ritorno dal Perrotti sarebbe inutile e dunque:

pertanto andrò verso il paese dove alzando una mano si colgono gli aranci che traboccano dai giardini. Così era mio padre camminava nell’alba pei sentieri della Conca d’Oro e alzava la mano verso i rami che sorpassano i muri e coglieva aranci con magnificenza, ora io non ho paese né luogo al mondo ho solo questa terra dei suoi racconti e della mia memoria, questa è la terra alla quale posso ancora in qualche modo appartenere, e così vado per un altro giorno lungo il mare […] finché giungo in fondo e l’isola degli aranci sta dall’altra parte celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c’è un piccolo tratto di mare proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo, padre non ho il coraggio […] e così verso sera cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia […] ecco, qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre e avrò intorno un pezzo di terra per farne un orto. pp. 407-408

Dopo aver trattato il prezzo dell’appezzamento di terra con un contadino del luogo, dandogli, in cambio, la propria automobile, riuscirà ad ottenerlo, usufruendo inoltre del permesso di attingere l’acqua del pozzo e « a questo proposito mi piacerebbe avere due latte da petrolio come quelle che mio padre usava per l’acqua »; così inizia quel fatidico processo di identificazione con suo padre. Questo meccanismo psicologico ha iniziato il suo percorso nel momento in cui il protagonista decide di scattare le foto al genitore defunto e dovrebbe infine completarsi con l’accertamento di una somiglianza fisica del protagonista rispetto

al padre, grazie proprio al confronto con le foto ed è in questo momento che la critica ha rintracciato una sorta di guarigione della nevrosi. Tuttavia, ci chiediamo, quale tipo di guarigione possa intravedersi in una persona che decide volontariamente di isolarsi dalla società e, soprattutto, dalla propria famiglia, per vivere in eremitica solitudine. Berto confessa così che:

quel che importa per il momento o anche per sempre è stare lontano dagli uomini e dal male che possono farci […] del resto anche l’Ioe il Super-Io non è che diano molti fastidi come una volta e io immagino che da un lato l’Io si sia in certo qual modo arreso almeno nella faccenda dell’identificazione al Super-Io.

E ancora, nel momento più interessante del romanzo, proprio quando la figlia Augusta va a trovarlo, il Berto scrive:

E così ora mi vergogno di puzzare ma ormai che posso farci solo mi viene da piangere e ho un nodo alla gola perciò mi riesce difficile parlare […] ed io la guardo andare con cuore stretto […] e prendo i tre capitoli del capolavoro e li brucio un foglio alla volta ma senza rammarico […] e poi brucio anche le fotografie del padre morto senza guardarle […] si è fatto tardi ma innaffierò ugualmente l’orto e stasera proverò a portare i due bidoni pieni come faceva mio padre.

Ci troviamo, dunque, in pieno accordo con la teoria sostenuta dal Piancastelli, il quale afferma che «a questo punto è lecito chiedersi dove sia la guarigione del personaggio quando fino all’ultimo gli campeggia dentro la figura del padre, non solo, ma rinunzia al mondo civile per chiudersi in una solitudine che, se è psichicamente privilegiata, resta pur sempre una fuga dalla realtà. In altri termini, psicanaliticamente Berto avrebbe operato uno ‘spostamento’ di nevrosi, ma non una guarigione, tanto è vero che crederà di cancellare la figura del padre col rito

delle fotografie strappate, ma solo dopo aver perfezionato lo spostamento e dopo essersi totalmente rinchiuso nel suo isolamento rinunziando in modo definitivo all’ultimo legame col mondo, cioè alla figlia »80 .