• Non ci sono risultati.

Il tema di un cristianesimo, che potremmo definire per certi versi ‘disperato’, abbraccia l’intera produzione del Berto, a partire già da Il cielo è rosso del 1947, in cui l’autore si interessa ad una problematica sociale rivisitata alla luce del sentimento cristiano; la storia dei quattro ragazzi di questo primo romanzo, per la sua stessa drammaticità, richiama un profondo spirito di solidarietà, come principio fondante del loro nuovo ‘nucleo familiare’, ma operante anche all’esterno di esso, che non può non rimandare ai concetti di fratellanza ed uguaglianza posti alla base della confessione cristiana. A tal proposito, si ricordi il passo in cui uno dei protagonisti, Tullio, comunista, e coinvolto in operazioni di contrabbando di cui alla fine resterà vittima, afferma con profonda convinzione cosa sia la giustizia sociale:

Troppa miseria in giro. E troppa gente ancora che vive bene e se ne frega degli altri. Se c’è da patir la fame dobbiamo patirla tutti, e se c’è qualcosa da mangiare bisogna dividerla egualmente fra tutti. Non è giusto che alcuni mangino bene e abbiano buoni vestiti e case, e il resto invece non abbia altro che tribolazioni. […] È l’idea che è giusta […], quello che capisco mi basta per credere che è una strada giusta.

80

C., Piancastelli, Berto, p. 74

Al tema di giustizia sociale si intrecciano le tematiche dell’amore e della misericordia cristiana; difatti, è proprio nell’amore che i due ragazzi più sensibili e fragili del gruppo, Giulia e Daniele, si legano, mentre nel momento in cui lei si ammala gravemente di tisi emerge il tema religioso del romanzo, poiché è Giulia a parlare a Daniele di una vita oltre la morte:

Voglio dire solo che se c’è qualcosa al di là, noi forse continueremo ad essere col pensiero di quando moriamo. Allora io continuerò ad amarti sempre, e ad aspettarti fino a quando tu non verrai. E bisognerebbe che tu vivendo su questa terra continuassi ad amarmi come se io ci fossi..

Ma la morte di Giulia farà cadere Daniele in una disperazione esistenziale, che lo renderà incapace di amare altre persone a causa del vuoto avvertito dentro di sé e che lo condurrà alla decisione estrema di suicidarsi. La morte di Daniele contiene dei richiami alla morte di Cristo, quasi a voler dare anch’essa un senso alla sofferenza dell’umanità, un significato a tutto quel dolore incomprensibile. Il giovane ragazzo si toglie così le sue vesti, nell’illusione che possano servire a qualcuno ed «Ecco che sentiva un gran freddo, perché si era fatto nudo per amore degli altri uomini. Come Gesù e anche altri santi». Naturalmente, i suoi vestiti non saranno di utilità a nessuno, ma questa sua azione deve esser letta come un gesto simbolico, equivalente ad un sacrificio per l’umanità, un sacrificio che però solo formalmente possiamo definire cristiano, dal momento che il suicidio non è contemplato dalla confessione cristiana.

Elementi di un ‘cristianesimo bertiano’, decisamente poco ortodosso, si possono cogliere nel dramma teatrale L’uomo e la sua morte81, in cui il brigante si configura come un emarginato che ha sofferto un’ingiustizia, scegliendo così la strada della violenza; egli viene ad avvicinarsi alla parabola cristiana, agendo in nome di un ipotetico ideale di giustizia. Il brigante, che viene accostato alla figura di Cristo nella sua volontà di ribellarsi alle ingiustizie sociali, esclama: «la gente ha paura, non viene più se la chiamo, e tutti i cani e i traditori mi sono messi appresso per sbranarmi, e io sono solo, solo come Nostro Signore nell’orto della Passione». Questo Cristo bertiano assume tratti rivoluzionari, poiché si fa vendicatore di un ideale di giustizia, ergendosi contro la società prevaricatrice:

Io non mi ribello a Dio, ma all’ingiustizia. Anche Nostro Signore era contro l’ingiustizia: questo almeno è ciò che dicono nelle chiese […] Anche Nostro Signore era una specie di bandito e rivoluzionario, che si era messo dalla parte del popolo, col proposito di elevarlo.

In questo dramma si gettano le basi di un tema che verrà poi approfondito ne La passione secondo noi stessi, ovvero il parallelismo tra la figura di Cristo e quella di Giuda, in quanto il sacrificio del Salvatore per l’umanità viene messo alla pari del ‘sacrificio’ che compie l’apostolo nel tradirlo, perché egli in realtà non vorrebbe farlo, ma agisce secondo una volontà superiore, come vedremo tra poco. Nel dramma L’uomo e la sua morte, è Michele, il complice del brigante Salvatore, ad assumere ‘il ruolo’di Giuda, dal momento che, mentre il protagonista Salvatore

81

L’opera venne rappresentata nella Cittadella cristiana di Assisi nel 1963. Vi si narra di un brigante, probabilmente una controfigura di Salvatore Giuliano, il quale, in una notte di pioggia viene accolto nella casa di un ricco possidente, Don Luigino. Salvatore è accompagnato dal suo complice Michele, compagno nelle avventure di brigantaggio.

sta passando la notte in una casa, viene a conoscenza del tradimento di Michele, il quale commette la triste azione di ‘venderlo’, avendo avuto l’incarico di ucciderlo o consegnarlo alla polizia; Salvatore, allora, lo spinge a compiere il tradimento, alla stesso modo di Gesù che spinse Giuda a tradirlo, affinché si compisse la Passione, che avrebbe dovuto riscattare l’umanità di fronte al Padre celeste:

Nostro Signore sapeva bene che lo avrebbero tradito. E sapeva anche chi lo avrebbe tradito […] E perché mai permise che quello tradisse? […] Se era già stabilito che quello doveva tradire, allora che colpa ne poteva avere? E com’è possibile che uno che tradisce non ne abbia colpa?

Nel passo appena citato emerge un tema che avrà il suo sviluppo nel secondo dramma di Berto, La passione secondo noi stessi, ossia la ‘predestinazione’ al tradimento; è come se Cristo avesse già designato Giuda come lo strumento che sarebbe dovuto servire al suo sacrificio. Il dramma è del 1972 e l’azione si sdoppia tra il tempo di Cristo e l’età contemporanea; infatti sul palcoscenico alcune scene sono ambientate al tempo di Gesù e altre invece tra giovani ragazzi dei nostri giorni, con ripetuti annunci di brani tratti dai Vangeli. Qui è presente, ancora una volta, il tema della rivoluzione in nome della giustizia e il tema dell’amore come fratellanza, compare un Giuda invidioso degli altri discepoli perché remissivi, che si convince di essere l’unico amato da Cristo, e in questa predilezione, di essere l’unico destinato a tradirlo per una volontà che deriva dall’alto: è necessario che Giuda tradisca Cristo proprio per far sì che il figlio di Dio si sacrifichi al fine di salvare l’intera umanità. Questo è il tema della predestinazione, che sembra coinvolgere ed avvicinare sia la figura di Cristo che quella di Giuda; quest’ultimo si preoccupa del fatto che Gesù sarà sottoposto a

sofferenza nel momento della Passione e spera che almeno lui, in quanto figlio di Dio, possa liberarsi dal dolore fisico. Risultano emblematiche le parole di Giuda: «Ma non soffrirà, vero? Egli è figlio di Dio, non può soffrire. Non è come uno di noi». E poi: «E non ha sofferto. Dimmi che non ha sofferto», e nel finale del dramma si abbandona a un grido disperato: «Ma io ti amavo, Gesù. Ti amavo! Ti amavo! Ti amavo!».

Questa tematica è nuovamente riproposta dall’autore con notevole sensibilità ne La gloria. Il libro è impostato su di una sorta di grido ‘autobiografico’ di Giuda che parla in prima persona, dichiarando di accettare il tradimento che si configura come un sacrificio per lui (perché in realtà non vorrebbe tradire Cristo), dal momento che risponde ad un disegno proveniente dall’alto; tuttavia, in questo frangente, l’autore introduce una novità, ovvero la speranza di Giuda di essere salvato da Gesù, in quanto obbediente al disegno divino fino all’ultimo, seppur controvoglia. Ma Gesù non risponde al grido disperato di Giuda e allora quest’ultimo compie la sua ultima richiesta nei confronti del salvatore dell’umanità, quella di non essere ascoltato. Giuda è ormai abbandonato a se stesso e, tramite un’invocazione che non attende risposta, esclama, come ultima battuta del dramma: «O Eterno, io grido a te da luoghi troppo profondi: Signore, non ascoltare la mia voce».

Tornando un po’ indietro nella periodizzazione cronologica delle opere, Berto tratta della tematica religiosa nelle Opere di Dio, dove l’autore riafferma in chiave negativa la propria posizione religiosa82 e, con molta probabilità, il titolo stesso del romanzo vuol riferirsi al fatto che Gesù avrebbe dovuto operare un miracolo

82

A tal proposito, P. Ferdinando Castelli, in «Civiltà Cattolica» del 16 febbraio 1952 scrive che: «Berto nelle Opere di Dio ha affrontato il problema del dolore, rifugiandosi inorridito in un cieco fatalismo ateistico».

per dimostrare la propria divinità ai Farisei. Berto afferma con amara ironia: ecco le opere di Dio, la guerra che travolge i ciechi nati, ossia gl’incolpevoli contadini e adolescenti. Naturalmente, tirando in ballo gli adolescenti, è inevitabile non pensare ai quattro giovani ragazzi de Il cielo è rosso e al passo del romanzo in cui si nomina Dio:

In principio aveva pianto o pregato o maledetto. Avevano maledetto gli stranieri che…facevano la guerra…gettando la distruzione e la morte. Oppure avevano maledetto Dio, che era la parola più giusta, perché era un modo di maledire se stessi e il male di tutti gli uomini.

Il passo sembra suggerire una sorta di ateismo dell’autore che quasi confonde Dio e l’uomo, perché sembra voler negare l’esistenza di Dio compiendo una identificazione tra la responsabilità divina ed umana; ma il Berto come può negarne l’esistenza, dato che, nel suo romanzo-confessione, Il male oscuro, l’entità divina sarà continuamente presente e invocata? Berto cerca incessantemente Dio «ma gli manca l’umiltà per trovarlo, l’umiltà di annullarsi completamente, di abbassare il suo giudizio. La religione di Berto, se così possiamo chiamarla, si ferma al tragico, e anch’esso misterioso grido di Gesù sulla croce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?. Tuttavia, misterioso fino a un certo punto – sottolinea Berto – nasce infatti da un immenso senso di colpa: non s’era forse Gesù caricato di tutti i peccati degli uomini?»83.

L’autore manifesta una costante ricerca di Dio attraverso la psicoanalisi, e, a tal proposito, lui stesso dichiara:

83

A., Bassan, Un romanzo magari imperituro, p.103

Non è che ho scritto un romanzo religioso con questo, e neppure ho risolto il problema di trovare una fede. Mi aiuta ciò che ha scritto S. Gregorio: trovare Dio consiste nel cercarlo senza posa.

Del suo rapporto con Dio è l’autore stesso a scriverne ne Il male oscuro, verso la conclusione del romanzo: «dopo il medico passato non molto tempo viene il parroco a vedere come sto con la religione» e continua affermando che «io penso di essere a posto anche da un punto di vista religioso in quanto mi trovo impegnato in un processo d’identificazione col padre mio» e tale incontro narrativo ha luogo mentre lo scrittore si è rifugiato a Capo Vaticano; qui, il parroco di San Nicolò di Ricadi ha assistito agli ultimi mesi di vita dell’autore. Il parroco è colui che non poté dare i Sacramenti al malato, la cui salma giace nella nuda terra priva di alcun simbolo religioso, la qual cosa, peraltro, è testimoniata dall’assenza della Croce cristiana sul loculo di Berto. A San Nicolò di Ricadi, quindi, Berto ha avuto modo di incontrare un sacerdote che rappresenta la «Comunità dei fedeli che sarebbe poi la Chiesa Cattolica Apostolica Romana e considera la propria posizione ‘a posto da un punto di vista religioso’, ma solo perché in questa località sperduta ha completato il processo d’identificazione col padre; e proprio come la Trinità spirituale cristiana egli suddivide la propria vita dominata dalla figura paterna in «tre periodi o fasi» la prima delle quali, registrata dal diciottesimo anno di età, la seconda fino al trentottesimo anno di età, che l’autore rievoca con soggettivo risentimento e oggettiva rabbia del realmente accaduto ma con un umorismo che non riscatta, in quanto egli afferma di essere arrivato a metterlo sotto i piedi tanto da poterne avere pietà talvolta; ma la terza fase, che inizia dalla morte del padre e che costituisce la fase psicoanalitica

alternata tra fasi di amore e odio, arriva alla fase in cui le cose ‘si sono messe di nuovo male’, e corrisponde alla fase temporale della sua identificazione con il padre ammalato e poi morto di cancro. Pertanto abbiamo a che fare con un arco temporale di assimilazione tra la figura del protagonista che inizia da un ricordo della fisionomia paterna, vale a dire la calvizie, considerata come ‘segno di potenza’, fino alla rilevazione oggettiva di una personale calvizie a Capo Vaticano e perciò Berto parla di una «rassomiglianza spirituale e identificazione pressoché compiuta» con l’immagine paterna.

Nella primavera del 1978, a quattordici anni di distanza dal successo coronato con Il male oscuro, Giuseppe Berto pubblica La gloria, l’ultima sua testimonianza di scrittore. In quel periodo l’autore era molto malato, non più di nevrosi, ma di quel male incurabile che pose fine alla sua vita. È curiosa la breve dedica sul romanzo consegnato all’editore Domenico Porzio: «A Mimmo, compagno di Male oscuro, un glorioso abbraccio da Bepi»; nell’aggettivo ‘glorioso’, probabilmente, l’autore voleva già alludere all’equivalenza gloria-morte che egli stava vivendo e che poi risulta essere uno dei temi portanti del romanzo. Berto riferisce le seguenti parole a chi lo interroga sulla sua posizione religiosa: «Oggi c’è certamente una cosa che mi terrorizza e mi affascina. Penso che il più grosso problema che l’uomo affronta venendo al mondo, non è quello di vivere, ma quello di morire. Così penso alla mia età, ma penso di avere pensato così anche tanti anni fa. Il tema che quindi mi affascina è quello della morte. La morte intesa anche in senso religioso». E continuando: «Uno dei più grandi scrittori del nostro tempo, l’americano Saul Bellow, si chiede in un suo romanzo quale sia la filosofia della nostra generazione; e risponde che non sta nell’affermazione Dio è morto, traguardo

sorpassato da tempo, ma nella seguente: la morte è Dio. Ecco, io credo di essere in tale corrente di pensiero». Bellow «prende nuovamente posizione contro il pessimismo radicale della sua generazione che, maturata durante la seconda guerra mondiale, ha erroneamente divinizzato la morte, eleggendola a unico fondamento della propria esperienza. Egli è però consapevole, come Berto del resto, che la storia recente di violenza e disumanità (il totalitarismo fascista e la Shoah) ha reso possibile e legittimato questa fede in negativo. L’immaginazione moderna di un Dio indifferente o addirittura malvagio e assassino, un Dio che ha permesso e continua a permettere l’accadere violento della Storia, è il prodotto di un dolore profondo e radicale che l’uomo riconosce in sé […] »84. Nel romanzo La gloria è proprio questo il tema principale, l’equivalenza tra Dio e Morte, ma abbiamo anche la concezione di un Cristo che cerca la propria morte al fine di conseguire la salvezza eterna per l’umanità.

La figura di Giuda viene reinterpretata da Berto con tratti decisamente originali: egli non è chiamato e scelto da Gesù alla maniera degli altri apostoli, ma viene accolto per sua personale insistenza, è un trentenne colto, nonché uno Zelota e cioè appartenente a quella corrente dell’ebraismo che, al tempo dell’imperatore Tiberio in Palestina, cospirava una rivolta armata verso gli occupanti romani; egli è inoltre affascinato dalla figura di Gesù perché «le sue parole vincolavano chi l’ascoltava al dovere di una interpretazione». Questo Giuda bertiano narra la Passione di Cristo, essendo stato egli presente, rievocandola e adattandola ai giorni nostri e portando agli occhi del lettore un tema di notevole profondità teologica e psicologica allo stesso tempo, vale a dire quello di un Gesù che

84

F., Parmeggiani, Berto e la morte di Dio, pp. 368-369

concepisce la Salvezza come una reintegrazione in Dio attraverso l’annullamento, ovvero la morte; e il desiderio di Giuda è di comprendere appieno il significato di questo annullamento, accettando il proprio ruolo di traditore. Tuttavia, se proprio in lui si configura lo strumento necessario perché il volere della Scrittura si realizzi, significa che questa sua funzione infamante gli era stata assegnata fin dai tempi della Creazione, per diretta volontà di Dio. Sotto questo punto di vista, è interessante ipotizzare che vi sia perciò una certa sacralità nel tradimento del discepolo. Ma nel romanzo è possibile che sia presente anche una sorta di parallelismo tra l’autore e Giuda, che verrebbe a configurarsi come alter ego di Berto. La presente supposizione viene suggerita, a mio avviso, dall’espressione posta nella conclusione del romanzo: «O eterno, io grido a te da un luogo troppo profondo: Signore, non ascoltare la mia voce!»; l’autore mette queste parole in bocca al traditore Giuda che, mentre grida al Padre eterno di non ascoltarlo, lo invoca. Questa ambiguità di fondo caratterizza la personalità di Berto che si manifesta, nel Male oscuro, con una continua invocazione e confusione del padre celeste con quello terreno, come abbiamo già sottolineato, e questa è un’ambivalenza che si ripercuote sulla nevrosi del protagonista che trova come unica via d’uscita quella di scaricare su Dio tutte le responsabilità dei guai che gli accadono.

Tornando a La gloria, già a partire dal titolo del romanzo, il quale allude probabilmente alla missione di Cristo, si può ipotizzare un’equivalenza tra gloria e morte, come si evince da alcuni passaggi: «Tu» dice lo scrittore rivolgendosi ad un immaginario lettore del romanzo, il quale sarebbe Cristo in persona, «la salvezza la concepivi come gloria, e la gloria è la realtà della fine dei tempi,

l’immensità del tutto finito, entrare in Dio per sempre e per tutti […]». Scrive poi: «[…] in lui era già chiaro che la gloria era la morte, e la morte l’inevitabile cuore delle cose create e dello stesso creatore […]». Anche Giuda conferma che la gloria è la morte: «Una volta deciso che il punto d’arrivo doveva essere la gloria, non fui io a mancare»; e alla fine, indirizzandosi a Cristo: «La Tua dottrina, confusa e contraddittoria, sempre in bilico tra cielo e terra, tra libertà e destino, esprimeva meglio di ogni altra un’aspirazione inesausta del genere umano: portare avanti il dolore di vivere cercando di raggiungere qualcosa che lo mitighi, o meglio ancora lo faccia cessare: amore, giustizia, eguaglianza, ma soprattutto la gloria, la fine dei tempi, la morte universale». E ancora: «Accade che il principio vitale che Tu impersoni è, a conti fatti, un principio di morte: l’unica vita è la vita eterna», e la missione di Cristo toccherà il suo fine «riconducendo al giardino o al nulla».

Alla fine Giuda non si uccide perché prova pentimento verso ciò che ha fatto ma perché al lamento di Cristo «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» non c’è risposta, e così al discepolo traditore non resta altra cosa da fare che correre «verso la sua disperazione finale».

Il Giuda di Berto si mostra in tutta la sua modernità, cercando di collaborare al disegno divino, un disegno che prevede di vincere la morte attraverso la morte stessa; in tale contesto l’atteggiamento dell’apostolo rientra in un progetto di dolore e sofferenza –necessario al perseguimento della Salvezza- che va a costituire il cuore della dottrina cristiana. Tuttavia, l’infame discepolo, pur conscio di far parte di un disegno più alto e perciò di essere predestinato al male, non si arrende a questa sua condizione e accede così ad uno stato di disperazione

che non potrebbe essere presente se non in un contesto di fede. Pertanto la nostra ipotesi è che Berto abbia voluto offrire al lettore moderno un’immagine di Giuda decisamente rivisitata e attuale, rispetto a quella tradizionalmente negativa.