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Capitolo terzo

2. Verso un Welfare Generativo.

Dal quadro delineato nei paragrafi precedenti, appare chiaro che la povertà dei bambini ha delle caratteristiche proprie: i bisogni sono ampi, interconnessi e complessi. Entrano in gioco la dimensione alimentare, dell’avere un abitazione , del relazionarsi,

dell’apprendere, della possibilità di giocare, etc. Per contrastare la povertà educativa non bastano interventi settoriali ma serve una visione d’insieme che consideri tutte le

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possibili implicazioni della povertà. Servono interventi e strumenti specifici,

opportunità capaci di dare speranza e non solamente assistenza [Fondazione Zancan, 2017]. E’ necessario che queste iniziative siano elastiche, aperte a valutazioni,

aggiustamenti e cambiamenti così da avere una dinamicità utile e capace di adattarsi ai diversi soggetti, alle situazioni e alle criticità che possono sorgere. Le soluzioni non sono sicuramente uniche, rigide, uguali e riproducibili in ogni contesto ma vanno indagate e scoperte insieme alle persone. Se si vuole salvaguardare il futuro dei bambini e della nostra stessa società, sicuramente, risulta prioritario, interrompere la connessione tra le condizioni di fragilità, che si possono ereditare dalla famiglia e, in parte, anche dal contesto sociale. In modo da “spezzare le catene” che rischiano di imprigionare i sogni di migliaia di bambini svantaggiati.

La scuola può aiutare a uscire da situazioni di povertà ma occorre anche migliorare le condizioni determinate dalla povertà materiale e relazionale che, altrimenti, tendono a contrarre le opportunità formative e di crescita dei bambini.

Per raggiungere questo ambizioso obiettivo, si è preso spunto dal contributo dato da alcuni testi della Fondazione Zancan142. Questi sottolineano come sia importante realizzare un’inversione di tendenza da un approccio assistenzialistico che de- responsabilizza ed umilia ogni singolo individuo, a dei meccanismi di “Welfare

Generativo” che invece valorizzano capacità, potenzialità e risorse e, soprattutto, che

credano nell’importanza dell’investimento in servizi verso i minori e le famiglie. Adottare una prospettiva più ampia e strategica di welfare generativo significa

“aggiungere alle funzioni del Raccogliere e del Ridistribuire, tipiche dello stato sociale moderno, altre tre “leve strategiche”: Rigenerare, Rendere e Responsabilizzare;

passando da una logica dei diritti come posizioni individuali di pretesa ad una visione complessa dell’incontro “tra diritti e doveri”[Fondazione Zancan, 2013:115]. Con la nozione di welfare generativo si indica: uno stato che non si limita ad erogare risorse, ma cerca di rigenerarle, farle rendere, responsabilizzando chi le riceve a produrre valore sociale. In questo caso non si parla più di spesa assistenziale come costo, bensì, come investimento, rendimento e impatto sociale misurabile in termini di integrazione, di occupazione di welfare, di socialità inclusiva.

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Far parte di un welfare generativo significherebbe, pertanto, collegare l’erogazione di una prestazione del sistema integrato all’attivazione del soggetto destinatario della prestazione, chiedendole di contribuire al bene comune”[Fondazione Zancan, 2013:4]. Per invertire questa tendenza, occorre perciò partire dal riconoscimento delle

potenzialità, delle risorse e delle capacità delle persone, elementi innati in ogni

individuo. La chiave sta nel non fossilizzarsi nella prospettiva che vede la povertà come uno stato fisso, prestabilito, immobile e senza vie d’uscita aprendosi, invece, alla concezione di questo fenomeno come un processo in continuo cambiamento, dinamico in cui la persona (o famiglia) che lo vive sia considerata come soggetto portatore di valori, risorse attuali e potenziali, capacità per fronteggiare e riscattarsi dalla situazione di vulnerabilità. In questo modo la persona (o famiglia) può divenire soggetto attivo, primo attore degli interventi.

In un sistema di soluzioni generative, ogni persona o famiglia è posta al centro di un universo di responsabilità e capacità. Vengono stimolate potenzialità e risorse latenti, sia personali che collettive, così da attivare processi di acquisizione e consapevolezza. L’acquisizione di queste competenze sarà utile sia nella sfera relazionale che in quella professionale e, in particolare, nella fase di ricerca di prospettive occupazionali per quanto riguarda le persone adulte. Mentre sul versante del contesto familiare, come abbiamo visto, è l’ambiente che esercita maggiori influenze sul futuro dei bambini, soprattutto per quanto riguarda l’ambito educativo. Ogni famiglia, perciò, con le proprie capacità, deve essere incoraggiata a partecipare e contribuire a decisioni e progetti “per meglio coltivare la vita”[Tfiey Italia, 2016:23].

Le famiglie devono essere sostenute nella presa di consapevolezza della propria responsabilità e importanza (processo di empowerment) per meglio contribuire al benessere e alla crescita dei figli. E’ importante fare rete con i genitori, e le famiglie in generale, prima di realizzare una rete tra i servizi rivolti ai minori [Tfiey Italia,

2016:37]. In tal modo si valorizzano le potenzialità delle persone e la loro capacità di assumersi responsabilità: passando dall’ essere semplici destinatari a soggettiattivi. Adesso due saranno gli ambiti maggiormente indagati, ovvero: l’importanza degli investimenti nella prima infanzia, e l’importanza del lavoro svolto dalla comunità educante.

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2.1 Le ragioni degli investimenti a partire dall’infanzia.

Gli investimenti delle famiglie, del sistema scolastico e di altri enti e istituzioni, nel capitale umano dei bambini, sono di fondamentale importanza già nei primissimi anni di vita143. Anche la letteratura internazionale mette in luce gli effetti positivi sul “capitale umano dei bambini”. Secondo l’importante e innovativo approccio di James Heckman (premio Nobel per l’Economia nel 2000), l’investimento delle famiglie e del sistema scolastico nel capitale umano dei bambini è cruciale già nei primissimi anni di vita

[Heckman et al., 2010; Carneiro, Heckman, 2003]. L’investimento può essere costituito

da input dei genitori, (come tempo e reddito); da input del sistema scolastico, (come insegnanti, compagni di scuola, risorse, e servizi); da input di enti e istituzioni, (come servizi e risorse da dedicare ai bambini e ragazzi) [Del Boca, 2014].

In particolare, molte ricerche hanno riscontrato che investire fin dalla prima infanzia, dagli 0 ai 3 anni d’età, condiziona le prestazioni scolastiche, le capacità, le aspettative e gli obiettivi, i traguardi raggiunti nel corso della vita, i guadagni nel mercato del lavoro e può contribuire a una riduzione delle diseguaglianze[Carneiro, Heckman, 2003] . Queste ultime, infatti, si formano già nei primi mesi di vita perché i bambini che vivono in contesti fragili possono beneficiare di minori risorse, in termini di tempo e reddito da parte delle famiglie e, di conseguenza, hanno meno opportunità di sviluppare un capitale umano durante gli anni successivi, rispetto ai coetanei[Del Boca, 2014:5]. Il gap tra bambini svantaggiati e avvantaggiati è possibile notarlo fin dall’asilo, nelle significative differenze delle capacità di lettura e di calcolo tra i bambini a seconda del loro

background familiare144.

Dall’analisi di costi e benefici relativi all’investimento in capitale umano in differenti fasce d’età, emerge che investire nei primi anni di vita ha rendimenti superiori rispetto a farlo più tardi. E’ un modo per prevenire il problema della povertà educativa.

Nonostante la crescente attenzione degli studiosi e dei policy makers, l’investimento nella prima infanzia (e in particolare l’offerta di servizi per la primissima infanzia) è ancora molto diverso da Paese a Paese. Per fare un esempio: Italia, Germania e Grecia sono tra i Paesi dove un numero minore di bambini frequenta il nido, mentre

Danimarca, Norvegia e Olanda sono tra le prime.

143Heckman, J.J., et al., The rate of return of The High/Scope Perry Preschool Program, in «Journal of Public Economics», 2010,

94, p. 114-128.

144OSCE, Risultati PISA 2012 Italia, 2012. Disponibile online su: www.oecd.org/pisa/keyfindings/PISA-2012-results-italy-

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Inoltre nei Paesi sviluppati, tra cui anche l’Italia, l’investimento nel capitale umano (con interventi sia privati che pubblici), si presenta in modo insufficiente e molto spesso tardivo. In Italia ad esempio, l’investimento pubblico nei bambini nella prima infanzia (0-3 anni) è più basso sia nel confronto con i Paesi europei sia rispetto ad altre fasce d’età. La spesa per i bambini nella fascia di età 0-2 è del 25% inferiore a quella dei Paesi Ocse ed è la metà della spesa per le classi di età 6-11 e 12-16[Del Boca, Locatelli, Vuri, 2007].Inoltre il problema di molti Paesi europei è che l’offerta di nidi pubblici appare comunque “razionata”, cioè ci sono più domande che nidi disponibili. I Paesi che più generosamente sostengono le rette delle famiglie sono la Svezia, Danimarca, la Norvegia, la Francia [Ibidem] . Questa mancanza deriva dal fatto che si considerano questi servizi come non tanto “educativi” ma piuttosto “assistenziali” cioè di supporto alle funzioni genitoriali, soprattutto nei confronti di madri lavoratrici. A questa

concezione culturale è dovuto l’ampio divario tra i costi, a carico della famiglia: i nidi vengono considerati come servizi di “accudimento” e quindi sono onerosi per chi ne fa uso, mentre la scuola materna è considerata come servizio educativo. Ecco spiegato il motivo per il quale, solo il 12,9% dei bambini con meno di 3 anni ha accesso al nido o a servizi integrativi pubblici [Istat 2015]. E questa percentuale si riduce in modo drastico in alcune regioni italiane quali Campania e Calabria, dove, rispettivamente appena il 3 e l’1% dei bambini possono accedere al nido (contro il 26% in Emilia Romagna, regione più virtuosa). Tutto questo ha conseguenze davvero rilevanti. Infatti, più tardi si

interviene e più aumentano i costi per poter rimediare a rendimenti scolastici o

comportamentali negativi. Da una parte gli investimenti nel periodo prescolare costano meno perché non devono cambiare situazioni complesse già accadute e consolidate, cioè non includono i costi elevati delle soluzioni ai problemi e i loro ipotetici risultati.

Dall’altra parte questi investimenti hanno una maggiore efficacia, sia perché le capacità delle persone sono più facilmente plasmabili nei primi anni di vita, sia perché gli effetti di questi hanno una lunga durata i cui effetti si sommano nel tempo, caratteristica assente negli investimenti realizzati in età più avanzate [Heckman, 2010].

Investire nella prima infanzia è un intervento cruciale, di carattere preventivo e rilevante per tutta la società. Infatti, realizzare un miglioramento delle condizioni di vita di una generazione, come in un circolo virtuoso, determinerà dei vantaggi per quella

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termini di salute, formazione, forza lavoro, maggiori competenze dei lavoratori, minor criminalità, risparmio sociale.

2.2 L’importanza della Comunità Educante.

Il termine Comunità oggi viene impiegato sempre più frequentemente in una pluralità di accezioni145. Di fatto, la parola Comunità incontra meno pregiudizi, rispetto ai tempi passati, diventando di uso sempre più frequente in molti contesti: da quello politico a quello economico fino ad arrivare a quello delle scienze sociali. Il concetto di comunità diviene centrale nelle politiche sociali come nelle attività di cambiamento e sviluppo organizzativo e fornisce criteri di orientamento e di azione[Branca,Colombo, 2003: 7]. Fra le molte definizioni possibili di “comunità” in questo lavoro di tesi viene proposta quella data da Martini e Torti: «Per comunità possiamo intendere un insieme di soggetti che condividono aspetti significativi della propria esistenza e che, per questa ragione, sono in un rapporto di interdipendenza, possono sviluppare un senso di appartenenza e possono intrattenere tra loro relazioni fiduciarie»[Martini, Torti 2018:13]

Si assiste ad una crescente attenzione del concetto di comunità, in particolare nella sua duplice accezione di dimensione locale micro, diversa dalla macro società, con un riferimento territoriale (come la comunità locale) o senza riferimento territoriale (come un’associazione); e di qualità delle relazioni,i cui aspetti prevalenti sono la mutualità, la solidarietà, la fiducia, la vicinanza, in una parola, sono i legami affettivi fra le persone.

La comunità non deve essere considerata come un oggetto da studiare, bensì deve essere, considerata un soggetto che costruisce significati, che ha un’intenzionalità e che agisce nel tempo per modificarsi e per modificare le condizioni in cui è inserita. La comunità è “un soggetto che possiede un sapere e un saper fare”[Branca,2003] , che sono e possono essere utilmente impiegati per risolvere i problemi della quotidianità del vivere. Ma la comunità è anche un “soggetto che apprende”[ibid.], che può migliorare le proprie competenze, le proprie conoscenze e il proprio bagaglio strumentale.

145Fino a pochi anni fa il termine comunità richiamava alla mente a dei contesti circoscritti, come la comunità religiosa o la

comunità per il recupero dei tossicodipendenti. Pochi avrebbero impiegato questo termine per indicare il proprio quartiere, paese, il proprio ambiente di lavoro ecc.

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Oggi la vita degli individui, delle famiglie e delle comunità locali è sempre più influenzata da fattori macrosociali, rispetto ai quali sia i singoli che i gruppi appaiono privi di potere, perciò l’impegno nella dimensione locale diviene fondamentale per ritrovare la speranza e il potere.

Lo sviluppo di comunità può essere inteso come una particolare strategia di

cambiamento. Un processo che intende produrre un miglioramento nella qualità della vita dei soggetti che vivono nella comunità, quindi accrescere la capacità degli stessi di risolvere i loro problemi e di soddisfare i propri bisogni. La qualità della vita dei membri di una comunità dipenda da due ordini di fattori:

-fattori che riguardano loro come soggetti;

- fattori che riguardano le condizioni nelle quali essi vivono e che loro stessi contribuiscono a creare.

In generale e al di là dei contenuti specifici che può assumere, un progetto di sviluppo di comunità ha un duplice obiettivo: “sviluppare il sentimento di comunità e sostenere la comunità come soggetto”[Martini, 1999:6]. Detto in altri termini, l’obiettivo dello sviluppo di comunità è far crescere comunità competenti. Si possono raggruppare gli interventi tesi a migliorare la qualità della vita di una comunità in tre grandi strategie di cambiamento: 1)Strategie di cambiamento focalizzate sulle condizioni, in cui per migliorare la qualità della vita degli individui che vivono in una determinata comunità, si modificano le condizioni nelle quali questi individui vivono, attraverso interventi ideati, progettati e forse anche realizzati da soggetti altri rispetto a coloro dei quali si intende migliorare la qualità della vita. 2) Strategie di cambiamento focalizzate sui soggetti, in questo caso per aiutare le persone ad adottare i cambiamenti

comportamentali richiesti dalle nuove condizioni ambientali, si possono prevedere interventi di sostegno alle persone, attraverso attività di formazione che permettano alle persone di acquisire le nuove abilità che le mutate condizioni richiedono. Può trattarsi ad esempio dell’educazione all’utilizzo di un nuovo servizio, della formazione

professionale coerente con l’avvio di nuove attività produttive o l’ingresso di nuove tecnologie, ecc. Ma gli interventi rivolti ai soggetti possono anche non essere

determinati da cambiamenti di condizioni. Con interventi di tipo formativo/educativo, si cerca di provvedere alle persone le abilità necessarie per vivere in determinate

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persone. Un esempio possono essere i corsi per genitori o l’introduzione nei percorsi formativi delle scuole superiori di attività tese a sviluppare capacità di problem solving o capacità relazionali, le azioni di sostegno nei confronti dei soggetti ritenuti

svantaggiati, i corsi di orientamento e di inserimento lavorativo, ecc.

3) Strategie di cambiamento basate sullo sviluppo di comunità, in questo terzo approccio si pone l’obiettivo di permettere ai soggetti che vivono in determinate condizioni di cambiarle in relazione ai loro bisogni/interessi. In sostanza, si tratta di un processo attraverso il quale i soggetti interessati (possono essere persone, ma anche gruppi e organizzazioni, famiglie, associazioni, ecc.) acquisiscono competenze e potere per cambiare le condizioni nelle quali vivono e nella direzione che loro stessi decidono. Con il processo di sviluppo di comunità ci si pone l’obiettivo di far crescere il senso di responsabilità, potere, competenze e senso di comunità di soggetti definiti, affinché gli stessi possano essere in grado di risolvere i problemi che hanno, così come di aiutarsi reciprocamente, di creare associazioni, di attivare imprese, di divenire più efficaci nel controllare l’operato delle istituzioni, ecc. Questo processo presuppone l’assunzione di responsabilità da parte dei soggetti per le loro condizioni, il riconoscimento e la legittimazione delle loro competenze e dei loro “criteri” di valutazione della qualità della vita e di scelta della direzione da dare al cambiamento[Santinello, Vieno, 2013]. Affinché i soggetti possano effettivamente cambiare le condizioni (risolvere i problemi) occorre che gli stessi si sentano responsabili e quindi motivati (senso di responsabilità sociale e senso di proprietà rispetto al problema), che abbiano un effettivo potere da spendere, possiedano le competenze necessarie e si sentano comunità.

Lo sviluppo di comunità coincide pertanto con la crescita di queste caratteristiche e con il processo attraverso il quale ciò avviene, mette in evidenza: - il coinvolgimento degli attori sociali (gli attori diventano attivi); - la partecipazione (gli attori agiscono un potere e decidono); infine -la connessione (gli attori si mettono in rete). Inteso in questo senso, lo sviluppo di comunità appare indispensabile sia per realizzare progetti di prevenzione primaria del disagio sociale, sia per garantire la mobilitazione delle risorse della comunità nell’ambito di progetti di community care.

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Fonte: MartiniAsssociati in :“Lavoro di comunità come costruzioni di relazioni e di impegno sociale”, 2007.

2.2.1 Lavoro di comunità

A questo punto si può introdurre il concetto di “Lavoro di Comunità”,il quale tenta di declinarsi nell’operatività del lavoro sociale , proponendosi come un approccio basato sui principi dello sviluppo di comunità ,che si può adottare in tutti quei contesti in cui si perseguono obiettivi di cambiamento partecipato, di empowerment, di sviluppo di risorse e in cui si ritiene necessario sostenere processi di responsabilizzazione dei membri di una comunità e l’impiego delle loro competenze/risorse per la risoluzione dei problemi[Martini, Sequi,1988:90]. La dimensione del lavoro di comunità si inserisce bene nel contesto della povertà educativa minorile. Esso richiama l’idea del fare qualcosa per risolvere un problema, e quindi nello specifico di “partecipare”,

(presuppone il sentire del problema come proprio o comunque sentire la responsabilità nel cercare di trovare una soluzione). La voglia di investire nel proprio ambiente per miglioralo, è correlata anche all’effettiva possibilità di collaborazione fra i residenti del posto. In questo senso i processi di collaborazione e di partecipazione sono inseparabili. Il lavoro di comunità mette in campo la possibilità di trasformare i problemi in risorse ed opportunità, questa è la sfida che assumono molti interventi di comunità. Poiché i

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problemi sono tanti, sono molte anche le azioni che è necessario compiere per risolverli e, c’è spazio per tutti.

Il lavoro di Comunità quindi è un’azione che si snoda su un’area di confine fra il

sociale, lo psicosociale e il sociopolitico, e che è costantemente influenzato dalle istanze presenti nella comunità stessa[Montironi, 2011 in Mingione, 2012:39]. Riguarda i percorsi attuati per affrontare i problemi, e può essere adottato in contesti diversi, per far fronte ad una molteplicità di situazioni che ricadono nell’ambito di competenze di servizi e attori diversi, a sua volta con vincoli e mandati differenti. In via generale esso si concretizza nelle seguenti attività: facilitazione dei processi di responsabilizzazione collettiva; attivazione e sostegno ai processi di collaborazione fra gli attori di un sistema ; sviluppo di relazioni che rinforzino la dimensione della fiducia, del senso di

appartenenza e del senso di comunità; sviluppo di competenze da parte dei membri della comunità. Pertanto parlare di comunità oggi, significa sottolineare l’esigenza di

sviluppare e sostenere legami sociali, relazioni fiduciarie, forme di responsabilizzazione e di cittadinanza attiva a livello locale, esprimendo un’opinione per una società che pone al centro la pratica della relazioni e che non rinuncia all’idea di un mondo più giusto[Russo, Martini 2016]. Inoltre la comunità non deve essere intesa solo come luogo (la comunità locale o territoriale), in cui è possibile costruire processi di comunicazione e coesione ma, ancor prima come orientamento di valore e guida all’azione. Si riporta una parte del manifesto dei neocomunitari:

La comunità, può essere considerata un intreccio di reti di identità «dalla nostra famiglia alla comunità globale» e la sfida è credere nella moltiplicazione di comunità fortemente democratiche si basi la

speranza di creare una comunità globale capace di affrontare in maniera concertata questioni che interessano la nostra specie nell’insieme.

Aderire a una progettualità orientata al benessere personale e comunitario significa porsi in una prospettiva dialogica, in ascolto delle differenze e delle attese soggettive e

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2.2.2 Concetti chiave ed i soggetti nel lavoro di comunità

I principali processi su cui si instaura il lavoro di comunità sono tre: Partecipazione, Collaborazione, Leadership. Questi sono a sua volta i processi che assicurano la “governance” di un sistema[Martini e Torti, 2018:57]. Si fa questo richiamo perché anche a livello di comunità locale come nella governance di un sistema, non può essere