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Controllo sociale e comportamento collettivo: la Scuola di Chicago

4.4 Il mito della frontiera

La ricerca di Anderson non offre soltanto una descrizione minuziosa di uno spaccato di vita urbano ma rappresenta anche uno studio in cui emergono gli aspetti problematici delle città americane: «E’ uno studio di un mucchio di avanzi umani. Infatti le aree dei bassifondi, che invariabilmente si sviluppano proprio al limite delle aree commerciali delle grandi città – aree di case in rovina, di povertà, di vizio e di delitto – sono aree di rifiuti sociali» [Park, 1999c, p. 97]. Riprendendo una considerazione di William James riguardante gli effetti del progresso, Park evidenzia come a volte esso possa essere «una cosa terribile in quanto spezza la consuetudine su cui poggia l’ordine sociale esistente, e in tal modo distrugge i valori culturali ed economici, cioè sia l’abitudine alla parsimonia, all’accuratezza e all’operosità, sia le speranze, le ambizioni e i progetti di vita personali che sono il contenuto di quell’ordine sociale» [Ivi]. La riflessione di Park, ovviamente, non si nutre di giudizi di valore. Il suo obiettivo è soltanto quello di evidenziare la velocità del cambiamento e le possibili conseguenze che ne possono derivare: «Le nostre grandi città (…) rigurgitano di rifiuti, molti dei quali umani, cioè uomini e donne che per un motivo o per l’altro non sono riusciti a stare al passo con il progresso industriale e sono stati esclusi dall’organizzazione industriale di cui un tempo facevano parte» [Ivi].

Ma l’indagine sugli hobos offre la possibilità di riflettere anche su un’altro aspetto che è parte integrante della vita urbana, con tutte le sue conseguenze e, a volte,

contraddizioni. Il riferimento è, come già detto, ai processi di mobilità e al riguardo sembra opportuno evidenziare che se è vero che «il semplice movimento della popolazione da una parte all’altra del paese (…) costituisce un’influenza perturbatrice» [Ibid., p. 96], è altrettanto vero che gli americani sono con ogni evidenza il popolo occidentale più mobile: «Lo sono dal punto di vista della residenza, perché si spostano da una casa all’altra. Lo sono perché si spostano da un posto all’altro, dalla città alla campagna, dal centro cittadino alle periferie, da una città a un’altra, da una regione a un’altra. Lo sono dal punto di vista della professione, perché passano da un lavoro all’altro o da un genere di lavoro all’altro. Lo sono infine da un punto di vista sociale, nei loro movimenti verso l’alto o verso il basso da una classe a un’altra. Lo hobo si spostava anche in armonia con questa tradizione di mobilità e può avervi contribuito» [Anderson, 1997, p. 14]. Non si tratta soltanto di una dimensione romantica, dell’impulso irrefrenabile di viaggiare, del vagabondaggio come espressione esistenziale, anche perché «se usiamo il desiderio di viaggiare per spiegare la mobilità dello hobo, sarebbe difficile non spiegare allo stesso modo altri tipi di mobilità» [Ibid., p. 12]. Sullo scenario americano, infatti, la mobilità appariva come obbligatoria e questo era una risorsa preziosa per lo hobo105: «Gli americani cominciarono a riconoscere che la frontiera era molto di più che un movimento di colonizzazione di terre da est a ovest, una corsa ad appropriarsi di risorse naturali. Ci fu una seconda frontiera che si mosse anch’essa verso Ovest, circa due decenni dopo la prima, nella scia della costruzione delle ferrovie» [Ivi]106. La prima frontiera incarnava la sfida e lo spirito di iniziativa, anche se c’è da dire che la ricchezza non procedeva di pari passo con l’avventura: «Ondate di gente diretta a ovest trovarono spesso esaltanti avventure ma raramente ricchezza» [Ivi]. Lavoravano alle dipendenze di altri spostandosi continuamente e già allora comparvero i primi hobos, tuttavia il loro numero «si moltiplicò quando incominciò la costruzione delle ferrovie e quando furono necessari altri tipi di imprese» [Ivi]. La seconda frontiera, le cui caratteristiche principali coincidono con la fondazione di città, grandi e piccole, e la creazione di varie industrie, «attirò ondate di

105 Anderson afferma che senza i processi di mobilità la frontiera sarebbe ancora una distesa desolata. 106 «La prima frontiera raggiunse il Pacifico intorno al 1850, la seconda circa trent’anni dopo. La

popolazione, che riempirono gli spazi fra insediamenti molto dispersi sul territorio (…) e portò anche flussi di immigranti che non si stabilirono sul territorio ma trovarono lavoro nell’industria in città» [Ibid., pp. 12-13]107.

Il vero hobo, dal canto suo, lavorando in una posizione provvisoria, disposto tanto a cogliere l’opportunità di un lavoro quanto a lasciarlo in seguito, ricopriva un ruolo collegato alle due frontiere: «Egli comparve sulla scena dopo che era stata tracciata la via, e sparì quando la seconda frontiera stava per concludersi» [Ivi]. L’importanza di questa figura, dunque, non consiste soltanto nell’essere l’esempio più evidente di marginalità, ma anche nell’aver incarnato, attraverso il proprio lavoro, la tradizione della mobilità: «Le occupazioni lontane erano sempre invitanti per lui, e se nessun lavoro lo chiamava, era lui che andava a cercarlo» [Ivi]. Non è una caso che la sua figura sia svanita con l’entrata in scena dell’automobile: «Con l’avvento dell’automobile, la mobilità non diminuì, ma assunse un’altra forma, perché vi ebbe accesso un maggior numero di persone (…) Ora è la famiglia migrante a essere in primo piano, come una volta era l’uomo migrante; solo, il modello della mobilità è diventato più complesso» [Ibid., p. 14].

Anche Park, dal canto suo, riconosce la forza rivoluzionaria dell’automobile, tuttavia c’è da dire che la sua opinione al riguardo sembra essere tutt’altro che positiva: «Probabilmente nella civiltà odierna lo strumento singolo più nefasto e maggiormente responsabile della corruzione è l’automobile» [Park, 1999c, p. 97]. Esiste una stretta connessione tra automobile e vizio, anche perché «le seduzioni connesse con l’automobile sono assai maggiori di quelle che accadono altrimenti in tutte le metropoli» [Ivi]108.