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Controllo sociale tra patologia e disorganizzazione

3.2 La patologia sociale

L’ideale democratico di Ross esprimeva una concezione comune a diversi scienziati sociali dell’epoca, provenienti spesso dal Midwest e da piccoli centri e anche, nella maggior parte dei casi, di estrazione religiosa: «La provenienza da piccoli centri o da stati non ancora industrializzati spesso si traduceva in un rapporto difficile con le trasformazioni sociali in atto, che si rifletteva in una sostanziale ritrosia nei confronti della cosiddetta Bigness, del fatto cioè che tutti gli aspetti della società americana sembravano caratterizzati da dimensioni crescenti, che apparivano disumane» [Ivi]82. Colui che più di tutti riesce a tracciare un profilo dettagliato di questi pensatori è senza dubbio Charles Wright Mills. Nel suo famoso articolo sui patologi sociali, pubblicato dall’American Journal of Sociology nel marzo del 194383 e considerato da molti come l’inizio della sociologia radical [Mills, 2001], il giovane Mills non perde occasione per evidenziare il fatto che questi scienziati sociali «trascurano l’analisi della struttura sociale, con la conseguenza di ridurre la dinamica esistenziale alla realtà e alla considerazione dell’individuo e del suo comportamento, e, soprattutto, di dare per scontato il contesto storico ed economico nel quale la sua vicenda si manifesta» [Rauty, 2001, p. 14].

81 White Anglo-Saxon Protestant.

82 Si trattava, in altri termini, di una concezione della democrazia di origine rurale e nativista.

83 L’articolo, in realtà, fu scritto qualche anno prima. Al riguardo si rimanda a Rauty R. (2001), nota

Il discorso si trasforma subito in una critica agli orientamenti assunti dalla sociologia statunitense tra la fine del Diciannovesimo secolo e l’inizio del Ventesimo, un periodo che coincide da un lato con l’istituzionalizzazione e l’inserimento in ambito accademico della disciplina e, dall’altro, con la crisi degli assetti comunitari in virtù, come si è detto, dei processi di urbanizzazione e industrializzazione. Si tratta di una fase storica il cui profilo viene scolpito dall’organizzazione scientifica del lavoro e alla quale corrisponde una «trasformazione senza precedenti del territorio, la crisi delle piccole città e la diffusione di grandi concentrazioni urbane, l’avvio di una mobilità di massa che segna caratteri nuovi nell’esperienza degli individui» [Ibid., p. 16]. A tutto questo corrisponde, come già affermato e come si avrà modo di evidenziare anche in seguito, un cambiamento nella natura delle relazioni e in quelle città in cui «si trasformano i rapporti di classe, si viene sviluppando (in particolare dagli anni Venti in avanti) non solo un proletariato legato alla nuova organizzazione scientifica del lavoro, ma anche un inedito centro amministrativo e burocratico, all’interno del quale alla crescita della razionalizzazione corrisponderà un processo di progressiva alienazione» [Ivi].

Diversi pensatori che fondarono la sociologia negli Stati Uniti presentano delle caratteristiche comuni soprattutto, come sostiene Mills, per ciò che concerne lo studio della disorganizzazione sociale84. La loro carenza consiste in primo luogo in un basso livello di astrazione, anche perché non sembra esserci una teoria in grado di tenere insieme tutti questi fatti scarsamente collegati tra loro: «Il carattere “descrittivo” della patologia sociale deriva dall’incapacità di prendere in considerazione le strutture sociali nella loro complessità. Questi libri, che raccolgono e trattano in modo frammentario problemi e fatti diffusi nella realtà, non prendono in considerazione stratificazioni più vaste o sistemi più strutturati» [Mills, 2001, p. 38]. Non si tratta di una semplice debolezza teorica ma di una vera e propria ideologia professionale che, lungi dall’affondare le proprie radici nella sola mancanza di capacità teoretica o nell’indirizzo restrittivo causato dalla dipartimentalizzazione, riesce a costruire una omogeneità di pensiero e analisi: «Tutti gli autori presi in considerazione (…) sono nati in piccole città, o in fattorie vicine a piccole città, tre

quarti delle quali si trovavano ancora in una fase preindustriale al tempo della giovinezza degli autori. (Quasi tutti) hanno partecipato a gruppi simili di “riforma” o ad “associazioni” delle classi professionali e commerciali. Dato che sono tutti professori di college (…), hanno occupato temporaneamente posti analoghi (a parte quelli accademici), appartenuto alle medesime “associazioni” e sposato persone di posizione sociale simile, sembra giustificata l’affermazione relativa a una complessiva somiglianza delle loro estrazioni sociali, carriere e ambienti di rapporto» [Ibid., p. 40].

La critica di Mills è molto minuziosa ma, in questa sede, interessano soprattutto due elementi della sua riflessione, aspetti che racchiudono in pieno il modo in cui questi autori considerano la natura non soltanto del controllo sociale ma anche dei meccanismi con cui costruire processi di questo tipo. Il primo è costituito dal pericolo che si possa verificare una deviazione dalle norme. Si tratta di una problematizzazione sterile dal momento che «nessuno ha analizzato in modo rigoroso le conseguenze del fatto che le trasformazioni sociali implicherebbero mutamenti nelle norme stesse» [Ibid., p. 47]. Mancanza di astrazione e di rigore scientifico sottraggono gli autori in questione alla responsabilità di “prendere posizione”. Il tutto viene ricondotto nell’ambito degli impulsi biologici, capaci di infrangere le “restrizioni sociali”: «Una problematizzazione più profonda è frenata da una teoria biologica della devianza sociale (e) la “spiegazione” delle devianze può essere espressa attraverso la richiesta di una più ampia “socializzazione”» [Ivi]85. Il secondo aspetto, strettamente legato al primo, è quello di adattamento: «L’uomo considerato idealmente adattato dagli studiosi di patologia sociale è quello socializzato» [Ibid., p. 77], un individuo che, sul piano etico, si presenta come l’opposto dell’egoista e in grado di conformarsi «alla moralità e alle ragioni della classe media e (di partecipare) al progresso graduale delle istituzioni rispettabili » [Ibid., p. 78]. Concetti come “disorganizzazione” e “adattamento”, se intesi in questo modo, rischiano di essere svuotati di ogni interpretazione critica: la società viene considerata in un’ottica prettamente evolutiva, come una successione di stadi e all’interno di un processo nel quale l’obiettivo principale deve essere quello di salvaguardare i valori comunitari. «In questo quadro la discontinuità dei

comportamenti, che potrebbe, ricorda Mills, anche essere considerata come innovazione e riorganizzazione, viene invece vista come anormalità, e dunque evidenza di patologia e di disorganizzazione rispetto all’assetto sociale» [Rauty, 2001, p. 14]. Tutto questo, oltre a produrre una destorificazione della devianza, imbriglia il sociologo nella morsa dello status quo, relegandolo a una dimensione prettamente descrittiva dei fenomeni sociali o, nella migliore delle ipotesi, rendendolo parte teorica dell’intervento dei social workers.

L’approccio dei patologi sociali riflette una posizione tutt’altro che isolata: nel primo ventennio del 900 alcuni psicologi cercavano di costruire, attraverso un criterio evoluzionista, una sorta di tabella di istinti in relazione ai vari gruppi etnici, e i peggiori sembravano diffusi tra i soggetti di condizione più bassa, biologicamente predisposti all’essere poveri, umili e subordinati [McDougall, 1908 e 1921]. Si trattava di un tipo di americanizzazione sostenuta da «un vero e proprio movimento teso a costruire, attraverso l’attività di circa 50.000 agenzie, private e pubbliche, e con il contributo di fondi federali, il buon cittadino americano» [Rauty, 2000, pp. 16- 17]. Quest’ultimo, oltre a dover essere intelligente, incline alla cooperazione e allo spirito di sacrificio personale, doveva soprattutto rinunciare ai tratti della propria cultura in favore di una omologazione nell’adozione dello spirito americano.

Appare evidente che una teoria (dell’americanizzazione) di questo tipo si lega a un elemento di puro pregiudizio, un elemento che, a sua volta, oltre a manifestarsi come intolleranza delle più ovvie tracce di differenza, è presente anche nella stessa legislazione.

I processi immigratori tendono a esaurirsi con le limitazioni poste dall’Immigration Act del 1924 [Martellone, 1980], anche se le restrizioni in tal senso iniziarono prima e furono costruite per operare un controllo e un contenimento degli ingressi negli Stati Uniti di alcune popolazioni piuttosto che di altre. Il primo passo in questa direzione fu compiuto nel 1917 con l’approvazione della legge contenente il veto del Presidente Wilson, in base alla quale si richiedeva agli individui di età superiore ai sedici anni, che volevano entrare nel Paese, la capacità di saper leggere in lingua inglese o in qualche altra lingua o dialetto [Bernstein, 1960]. Appare evidente che il fine ultimo del provvedimento consisteva nel voler vietare l’accesso a individui ritenuti meno alfabetizzati, provenienti soprattutto dal Sud e dall’Est dell’Europa.

«Di fronte ai flussi immigratori che, nonostante il test di alfabetizzazione richiesto, ripresero consistenza alla fine della prima guerra mondiale, nel 1921 fu approvata una ulteriore restrizione, che limitava il flusso immigratorio da un paese al 3 per cento del numero complessivo della popolazione» [Rauty, 1997, p. 13]. Questo atto fu reso permanente nel maggio del 1924 dal Johnson Immigration Act, «con una riduzione della percentuale delle possibili immigrazioni al 2 per cento, calcolato sulla base dei dati del censimento del 1890, per cui il numero veniva fissato in 170.000, cifra che sarebbe dovuta diminuire a 150.000 a partire dal 1927» [Ivi]. Si trattava di una legislazione finalizzata a un forte controllo86 e a una forte restrizione, anche perché privilegiava i soggetti professionalizzati.