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Controllo sociale e comportamento collettivo: la Scuola di Chicago

4.3 Un mucchio di avanzi uman

In questa sede non interessa ripercorrere minuziosamente le varie tappe della vita di Anderson ma soltanto evidenziare quanto il suo vissuto abbia contribuito alla conoscenza dell’oggetto d’indagine, facendo della sua osservazione partecipante un metodo sui generis: «Benché esso venisse fedelmente seguito nel mio lavoro, non lo era nel significato corrente del termine. Io non discendevo nell’abisso per assumervi un ruolo e per poi risalirne e scuotermi di dosso il sudiciume. Io ero in una fase in cui cominciavo appena a venir fuori dal mondo dello hobo» [Ibid., p. 9]100. Ha inizio una sorta di transizione di ruolo e questo processo non ancora concluso, oltre a preparare Anderson a una nuova fase di vita, non lo allontana da quella realtà che conosce

99 «In americano home guard, termine usato in senso spregiativo da vagabondi e hobos per indicare i

senza casa che stanno fermi in un posto, generalmente in città, e si rifiutano di viaggiare» [Ibid., p. 6, nota 6].

100 Usando un’espressione tipica di questo mondo, l’autore afferma che «la preparazione del libro era

un modo per “tirare avanti”, per guadagnar(si) da vivere finché questo processo era in corso» [Ibid., p. 9].

molto bene, che ancora fa parte di lui e che gli permette di evidenziare una serie di caratteristiche dello hobo tipico:

• innanzitutto si tratta di un cittadino americano. «I nati all’estero che si orientarono verso quel modo di vivere furono soprattutto Scandinavi, Tedeschi o Britannici (ma) mentre la maggior parte di coloro che entrarono nella categoria degli hobos ne uscirono entro un decennio, i nati all’estero si convertirono a una vita stabile e sedentaria anche prima» [Ibid., p. 10]101; • in secondo luogo, e al di là di ogni forma di pregiudizio, non è una persona

ignorante: «Anche quando l’analfabetismo era molto frequente tra i lavoratori urbani e agricoli, lo hobo leggeva il giornale e seguiva con passione le pagine sportive» [Ivi]102;

• la terza caratteristica rimanda alla scarsa tendenza al risparmio e al consistente consumo di alcol. Sono aspetti evidentemente interconnessi, anche perché se il primo pensiero di fronte a una somma consistente poteva essere quello di spendere con moderazione, nella realtà «solo pochi erano capaci di realizzare queste buone intenzioni, specialmente se la prima tappa era un’osteria» [Ivi]103;

• l’ultimo aspetto, del quale si è già parlato nelle pagine precedenti e di cui si continuerà a discutere in un secondo momento, consiste in un vagabondaggio cronico, «un bisogno innato di mobilità, una incapacità a resistere al richiamo della strada» [Ibid., p. 12].

La città, dunque, rappresenta l’asse principale intorno a cui ruotano tutte le altre interpretazioni, e ancora una volta il primato spetta a Chicago. Nonostante la Hobohemia di Chicago fosse soltanto uno dei molti main stems104 presenti nelle diverse città, «Chicago era il più grande nodo ferroviario e (di conseguenza) aveva la Hobohemia più grande» [Ivi].

La Hobohemia di Chicago è divisa in quattro parti (ovest, sud, nord, est) e nessuna dista più di cinque minuti dal loop, vale a dire dal quartiere economico, finanziario,

101 Anderson paragona la figura dello hobo a quella del cowboy: «Il cowboy apparve nella storia della

frontiera per la stessa ragione dello hobo; c’era un mercato del lavoro che aveva bisogno di lui» [Ivi].

102 Non stupisce, pertanto, il fatto che «Curiosità intellettuale e vastità e varietà di interessi erano

presenti in lui in misura maggiore che negli altri tipi di lavoratori» [Ivi].

103 «Di solito tutti i risparmi erano bell’e finiti già il secondo giorno» [Ivi].

104 «Letteralmente “tronco principale”, indica nel gergo dei senzacasa la strada più importante del

degli alberghi e dei teatri del centro di Chicago: «Tutte insieme costituiscono lo stem, così come costituiscono Hobohemia. Per chi non ha un soldo, Chicago coincide perciò con i quattro settori di Hobohemia» [Ibid., p. 20].

Sarebbe tuttavia sbagliato pensare a un discorso di natura prettamente logistica: «Per chi non ha dimora questa è casa propria, perché qui, per quanto sia amara la propria sorte, può comunque trovare qualcuno che lo capisca» [Ivi]. Si tratta, forse, della parte della città che più di tutte si nutre degli stati d’animo di un materiale umano tanto eterogeneo quanto affascinante. È lo stesso Anderson a evidenziare questo aspetto quando, a distanza di circa quarant’anni dalla pubblicazione della sua ricerca, scrive che in ogni singolo caso «l’arrivo a Hobohemia era stato preceduto da una diversa catena di eventi (insuccessi e delusioni). Per qualcuno era una collocazione temporanea, per altri il punto da cui iniziare daccapo, ma per molti era la fine della strada. Nel mondo competitivo e complesso proprio della vita moderna, Hobohemia serviva a uno scopo diverso per ognuno dei suoi abitanti» [Ibid., p. 14]. L’importanza che lo stem può ricoprire non deve comunque far passare in secondo piano la sua caratteristica principale, vale a dire il suo essere una zona di transito: «Il girovago trova qui amici o nemici, ma, e questo è un tratto caratteristico e insieme patetico di Hobohemia, sono amici o nemici solo per un giorno. Si incontrano e passano oltre» [Ibid., p. 20]. Nonostante l’intera vita dello hobo dipenda in gran parte dalla conoscenza che ha dello stem, è verso la città che egli si affretta tutte le volte che può farlo, anche perché «la città è l’ufficio di collocamento per il lavoratore migrante e anche per il non-lavoratore migrante che è spesso altrettanto desideroso di viaggiare» [Ibid., p. 25]. Nel momento in cui ci si è stancati di un lavoro si ha sempre la possibilità di recarsi in città e ottenerne un altro in una diversa zona. Gli uffici di collocamento, dal canto loro, facilitano questa rotazione del lavoro stagionale: «Essi mettono un uomo in condizione di lasciare la città “sul velluto”. È questa l’esca che lo attira in città» [Ibid., p. 26]. Emerge, dunque, una caratteristica fondamentale di Hobohemia: «Mette insieme l’uomo che cerca lavoro e il lavoro che cerca l’uomo» [Ivi].

Non è un caso che lo stesso Park, nella sua Prefazione al volume di Anderson, attribuisca allo hobo la capacità di aver creato, nell’area del suo ambiente sociale e in risposta ai propri bisogni, «una comunità locale distinta e relativamente

indipendente, con istituzioni economiche, sociali e socio-politiche proprie» [Park, 1923, p. LXIV]. Se l’obiettivo è quello di «descrivere, attraverso un approccio comparativo, i cambiamenti che hanno luogo nella vita della città e della sua popolazione, e indagare i problemi della città alla luce di questi cambiamenti, e le condizioni di vita della popolazione urbana in genere» [Ivi], è indubbio che lo studio sull’“uomo senza-casa” rappresenta un punto fondamentale da cui partire, anche perché «una popolazione variabile tra i 30.000 e i 75.000 senza-casa a Chicago, che vivono insieme in quell’area di trenta o quaranta isolati, ha creato un milieu in cui prosperano nuovi e insoliti personaggi e in cui sono sorti nuovi e imprevisti problemi» [Ivi].